Facciamo quattro passi nella “Fabbrica del
Programma” di Romano Prodi, e parliamo di economia
europea. Ci guida Franco Mosconi, uno dei quattro
giovani studiosi che il Professore ha messo al lavoro
sulla rivista “Governare per” (www.governareper.it),
un foro di elaborazione politica e culturale nato
in vista della stesura del programma del centrosinistra.
Franco Mosconi insegna Economia Industriale alla Università
di Parma, e ha da poco pubblicato, insieme a Giuliano
Amato e ad altri, il libro Le nuove politiche
industriali nell’Europa allargata (Mup
editore).
“L’industria manifatturiera ha a che
fare con la ricerca scientifica, l’innovazione
tecnologica, il design, il marketing – spiega
il professore – e nonostante l’Ue destini
alla ricerca scientifica solo un decimo di quello
che dedica alla politica agricola comune, qualcosa
finalmente sta cambiando: è assai significativo
che la Commissione abbia ricominciato a parlare, da
due-tre anni a questa parte, della necessità
di una nuova politica industriale”.
Mosconi, che ha lavorato per due anni a Bruxelles
al fianco dell’allora Presidente Prodi, giudica
fondamentale, per questo obiettivo, l’allargamento
ad est, che si è sviluppato verso paesi con
giovani istruiti, con “tradizioni manifatturiere
di grande importanza”, con strutture industriali
“complementari alle nostre”. E per il
futuro indica come una delle vie da percorrere quella
dei “campioni europei”, sul modello di
Airbus e StMicroelectronics: aziende sopranazionali
per un’Europa che aspira ad essere un attore
di primo piano anche dal punto di vista politico.
La tesi del suo libro, professor Mosconi,
è che la tradizione manifatturiera continua
a svolgere un ruolo fondamentale per il progresso
delle economie europee. Come è possibile, visto
che l’industria europea è resa sempre
più vulnerabile dalla concorrenza asiatica?
La contraddizione che lei intravede può suonare
ragionevole di primo acchito, ma occorre soffermarsi
meglio su che cosa intendiamo per industria manifatturiera.
Beninteso, c’è l’inevitabile e
naturale “dinamica economica strutturale”,
che vede mutare continuamente il peso dei macrosettori
di attività (la struttura dell’economia,
appunto). E oggi sempre più rilevante diviene,
quantitativamente parlando, il peso dei servizi al
posto dell’industria, così come in epoche
passate l’industria sostituì mano a mano
le attività agricole. C’è questo
fenomeno, e c’è poi anche un fenomeno
di delocalizzazione di attività strettamente
produttive dai nostri ricchi paesi dell’Occidente
verso l’Oriente: sia quello a noi prossimo (i
nuovi paesi membri dell’Ue) sia quello lontano
(l’Asia).
L’analisi della Commissione europea, nei suoi
documenti del biennio 2002-2004, è che la delocalizzazione
abbia sinora interessato unicamente le attività
a bassa intensità tecnologica ed elevata intensità
di manodopera. Il trasferimento di tali attività
è tuttavia spesso accompagnato dal mantenimento
o dalla creazione di posti di lavoro in Europa in
comparti del terziario quali il design, il marketing
e la distribuzione”. Se a ciò uniamo
le attività di ricerca e sviluppo e quelle
di trasferimento tecnologico, tutt’e due strettamente
connesse all’industria manifatturiera, mi pare
un punto fondamentale: il punto fondamentale.
Nel senso che l’industria manifatturiera
rappresenta ancora il cuore dell’innovazione,
del progresso tecnologico…
Esatto. Tutte queste attività legate all’industria
sono vitali, e se un paese se ne priva perde il cervello
delle attività manifatturiere. Certo, ancora
nel 1970, nella media dei paesi dell’Ue, dall’industria
veniva il 30% del valore della produzione. Oggi la
percentuale è scesa certamente sotto il 20%,
al 17-18% circa. Ma in queste percentuali c’è
una grande componente di quelle attività “intelligenti”
che rendono forte e innovativa un’economia.
C’è poi, sempre incorporato in queste
percentuali, il saper fare dei nostri imprenditori
e della nostra forza lavoro, che non si improvvisa
e che consente a paesi di antica industrializzazione
di innalzare continuamente il livello tecnologico
delle loro produzioni.
Detto questo, però, non crede che
l’Europa pensi ancora più alla politica
agricola (Pac) che a quella industriale?
In termini strettamente di bilancio potremmo dire
che non c’è partita. Difatti, pur con
le riforme che l’hanno interessata negli ultimi
anni, ancora nei primi anni Duemila (l’elaborazione
è tratta dal “Rapporto Sapir”)
la Pac assorbiva una quota del budget comunitario
superiore al 40%, anzi vicina al 45%. Ai progetti
di ricerca scientifica finanziati dal budget comunitario
andava invece una cifra che è circa un decimo
di quella della Pac, cioè il 4,1%. Per fortuna
qualcosa si sta muovendo più nel profondo.
Intanto sul versante della Pac un’ulteriore
riforma, imposta dall’allargamento, è
stata messa a punto e manifesterà i suoi effetti
negli anni successivi. E si è ricominciato
finalmente a parlare di politica industriale. Non
è che nel budget della Comunità ci sia
un capitolo di spesa che sia chiama “politica
industriale”, a somiglianza di quello per la
Pac. Però nella seconda grande voce di bilancio,
quella dei fondi strutturali e di coesione (che vale
il 35% circa del totale), c’è per esempio
il fondo sociale europeo, ci sono altri fondi che
concorrono al finanziamento delle attività
di formazione del capitale umano, che sono uno dei
volti nuovi della politica industriale. Insomma, una
ipotetica riclassificazione del bilancio comunitario
per dirci che cosa già oggi si spende per una
politica industriale moderna dovrebbe portare a sommare
quantomeno quello che si spende per la ricerca più
quello che si spende per la formazione del capitale,
ma credo anche per le grandi rete infrastrutturali.
Certo, molto resta da fare e, al di là delle
risorse che si metteranno assieme, le direzioni nuove
che la politica industriale europea si propone di
prendere sono quelle del completamento effettivo del
mercato interno, della rottura dei monopoli che ancora
permangono, e così via (quello che in gergo
viene chiamato approccio “orizzontale”,
per distinguerlo da quello “verticale”,
centrato su settori industriali ad hoc che
pur esiste e ha una sua importanza per le industrie
high-tech).
Si può dire che l’allargamento
ad est rappresenti un vantaggio per la politica industriale
europea?
Gli economisti non hanno la sfera di cristallo, o
la bacchetta magica di Harry Potter, però possiamo
dire, stando ai fatti, che dopo più di un decennio
di “sospensione” (così la chiamiamo
nel libro) della politica industriale, proprio in
coincidenza con l’allargamento si sia ricominciato
a parlarne. La Commissione Prodi prendeva le mosse
proprio da qui, dall’allargamento, tanto che
intitolava la sua prima comunicazione del dicembre
2002 “La politica industriale in un’Europa
allargata”. Nel nostro libro, il saggio del
professor Amato, “Politica industriale e politica
della concorrenza nell’Europa unita”,
mostra che dopo gli anni ’90, improntati giustamente
alle liberalizzazioni e alle privatizzazioni, oggi
che “il mondo è arrivato dentro il nostro
mercato comune, allora noi dobbiamo riposizionare
e misurare la competitività delle nostre imprese
non più entro i confini europei, ma entro quelli
dell’economia globale. Ed ecco che le regole
della concorrenza diventano una parte dell’insieme,
ma non sono autosufficienti per lo sviluppo”.
Ma perché, in concreto, l’allargamento
è un vantaggio?
Una buona parte degli economisti propende per l’ipotesi
del win-win game, del gioco a somma positiva,
perché ci siamo allargati verso paesi che non
sono una terra di nessuno: sono paesi che hanno avuto
in alcuni casi tradizioni manifatturiere di grande
importanza, che hanno una forza lavoro addestrata
e dei giovani con una buona istruzione tecnica. Di
più: sono paesi che hanno specializzazioni
nei settori manifatturieri a più basso contenuto
tecnologico dei nostri, a noi complementari. Tra le
nostre eccellenze, che andrebbero consolidate, negli
apparecchi di telecomunicazione, negli aeromobili,
nell’industria automobilistica, nella farmaceutica,
nella chimica, nella meccanica di precisione, e la
loro specializzazione nella meccanica di base o nel
tessile, nella lavorazione del legno e così
via, vi è una complementarietà. Tutte
le imprese dell’Ue a 25 operano poi su un mercato
interno che, con l’allargamento ai dieci nuovi
entrati, si è fatto più grande, con
tutte le possibilità che questo apre (maggiori
economie di scala, riconfigurazione della catena del
valore, e così via).
Se si parla di mercato europeo, non sarebbe
ormai necessario pensare ad aziende sovranazionali,
a una intensificazione dei processi di “mergers
and acquisitions” (fusioni e acquisizioni)?
Questo è uno dei punti fondamentali. Credo
che all’idea dei cosiddetti “campioni
europei” occorra dedicare una riflessione molto
seria. Nel primo capitolo del libro, richiamo la tesi
del professor Alexis Jacquemin, grande economista
recentemente scomparso, che in un testo uscito nel
1987 – La Nuova Economia Industriale —
già intravedeva questo scenario. Ossia, per
dirla con le sue parole, “la necessità
di formulare una politica industriale europea concertata
che permetta di superare le strategie settoriali lungo
le linee nazionali”. Allora, la Cee doveva affrontare
solo (si fa per dire) Usa e Giappone; oggi, come minimo,
anche Cina e India. Il fatto di avere in alcuni settori,
che si collocano sulla frontiera tecnologica (biotecnologie
e scienze della vita, tecnologie dell’informazione
e della comunicazione, eccetera), delle imprese autenticamente
sovranazionali nate per iniziativa di più paesi
europei, che in queste imprese conferiscono i loro
asset migliori, mi pare una via obbligata, oltre che
razionale (sono settori infatti sia a elevata intensità
di ricerca, sia a elevate economie di scala). Non
a caso Airbus e StMicroelectronics, i due esempi che
tutti citiamo come due casi di eccellenze europee,
sono due “campioni europei” proprio in
questo senso. Operano in settori importanti dal punto
di vista tecnologico, come l’aeronautica e i
semiconduttori, e affrontano con successo una competizione
davvero mondiale. Sono imprese che affrontano altresì
quotidianamente il vaglio dei mercati finanziari.
E anche da questo punto di vista, come sono lontani
gli anni dei “campioni nazionali”!
Lei è tra gli studiosi che stanno
lavorando al programma di Prodi. Negli Stati Uniti
il democratico Kerry, per conquistare gli operai dell’America
profonda, aveva promesso di battersi contro le delocalizzazioni
all’estero. Come si muoverà a proposito
Prodi: sceglierà il liberalismo del suo amico
Mario Monti o il protezionismo di Fausto Bertinotti?
Su “Governare per” – che è
la cosa di cui direttamente mi occupo con gli amici
e colleghi Filippo Andreatta, Gregorio Gitti e Salvatore
Vassallo — abbiamo già dedicato, non
a caso, molto spazio proprio a questi temi: alla centralità
della manifattura, all’innovazione, alla competitività.
Siamo partiti da una lucidissima analisi di Marcello
De Cecco, secondo cui senza industria manifatturiera
il paese non ce la può certamente fare a ripartire.
E questo è coerente, anche qui non per un accidente
della storia, con quello che Romano Prodi ha lasciato
venendo via da Bruxelles: il nuovo disegno della politica
industriale europea, giacché è la manifattura
il cuore del progresso tecnologico.
Ma quindi lei avverte con fastidio o con
favore le delocalizzazioni da parte delle industrie
italiane?
Ad alcune delocalizzazioni non c’è alternativa.
Con costi del lavoro diversi nelle diverse aree geografiche
del mondo, con la rivoluzione nei mezzi di trasporto
e di comunicazione, con l’affacciarsi di nuovi
protagonisti sulla scena mondiale, le delocalizzazioni
sono naturali in certi settori industriali, e soprattutto
in determinate fasi produttive: settori e fasi in
cui il costo della manodopera è il fattore
più rilevante. Altra cosa però è
comportarsi come le industrie americane o tedesche,
che sono andate in Cina e vi hanno insediato molti
stabilimenti produttivi. Non a caso una percentuale
altissima delle esportazioni cinesi di fatto sono
esportazioni “americane”, per non parlare
poi dello sforzo corale del sistema-paese Germania.
Qualcosa si sta muovendo anche in Italia, come dimostrano
le due visite del Presidente Ciampi, accompagnato
dal Presidente di Confindustria Montezemolo, proprio
in Cina e India: due grandi (potenziali) mercati per
il made in Italy.
In un eventuale governo Prodi si farà
tesoro dell’esperienza di Bruxelles, crede cioè
che ci sarà spazio per personalità come
quelle di Mario Monti o di Tommaso Padoa-Schioppa?
Tutti i cittadini italiani che hanno a cuore le sorti
dell’Italia in Europa, ed io posso risponderle
solo a questo titolo, sono orgogliosi di come queste
due personalità ci hanno rappresentato in questi
anni. E gli stessi cittadini si augurano di vederli
ancora servire il paese.
Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti
da fare? Scriveteci il vostro punto di vista a
redazione@caffeeuropa.it