Schengen
è una tranquilla cittadina del Lussemburgo.
Pochi saprebbero indicarne l’esistenza su una
carta geografica. Tra le montagne, nel cuore dell’Europa,
ha conservato per secoli la propria anonima e discreta
presenza, ma da anni, con una rilevante torsione semantica,
quel nome connota per gli europei, e non solo, qualcosa
di più di una municipalità. Il referente
reale di quel segno di otto lettere, anzi, è
completamente scomparso dietro il significato secondo
di “libero spazio di circolazione” che
in dieci anni è andato assumendo. Con tutti
i corollari gravidi di senso che anche da una dicitura
così burocratese possono discendere.
Alla fine dello scorso mese il Trattato firmato nel
Comune di Schengen ha festeggiato – senza farandole
e schiamazzi eccessivi a dire il vero - il suo decimo
anniversario.
Adottato nel giugno del 1985, l’accordo per
la libera circolazione delle persone nell’Unione
europea, entrò in vigore solo il 26 marzo del
’95, quando alle frontiere tra Germania, Francia,
Spagna, Portogallo, Belgio, Olanda e Lussemburgo furono
smantellate le dogane e trasferite presso i nuovi
e comuni confini esterni. Piano piano questi limiti
si sono allargati ad accogliere 13 Paesi dell’Ue
più Norvegia ed Islanda e ora il libero spazio
conta al suo interno 300 milioni di persone libere
di muoversi in orizzonti ben più ampi.
Sin dal suo debutto sulla scena internazionale, con
la creazione nel 1951 della Comunità europea
del carbone e dell’acciaio (Ceca), il processo
di costruzione europeo ha sempre trovato alimento
nel puro dominio economico. Il Trattato di Roma nel
1957, l’Atto unico del 1985 per l’istituzione
del mercato interno, i trattati di Maastricht nel
1992 e di Amsterdam nel 1997, hanno in prevalenza
scommesso sui processi di integrazione economica come
mezzi per l’integrazione tout court.
Può bastare per fare l’Europa un mercato
unico dove sono, sembra, solo le merci ad avere cittadinanza?
Ci vorrebbero dei cittadini, ma perché mai
un francese o un italiano dovrebbero sentirsi tali
in uno spazio dove non hanno diritti? Come si fa a
riconoscere una legittimità e a cedere sovranità
a istituzioni con le quali uno spagnolo e uno svedese
non hanno nessun motivo per identificarsi?
Siamo ben lontani dal progetto dei padri fondatori.
Senza un’identità europea, non si fa
l’Europa.
Ma l’identità non preesiste solamente;
si costruisce. E Schengen è proprio quello
che potremmo definire il primo e fondamentale strumento
messo in campo per avviare quel processo di Nation
Building, di quell’ingegneria sociale,
cioè, necessaria per dare agli europei, finalmente,
un’identità e all’ambizioso progetto
europeo una speranza.
Due fattori, tra gli altri, contribuirono in maniera
determinante, secondo lo storico inglese Benedict
Anderson, alla costruzione delle identità nazionali
un paio, e più, di secoli fa: il capitalismo
a stampa e il pellegrinaggio laico nelle capitali.
Del primo, di quei mezzi, cioè, che allora
permisero di creare un immaginario comune, un’immagine
condivisa di comunità, in sostanza ai cittadini
di sentirsi parte di un Noi – stampa nazionale,
letteratura nazionale, etc. - di quello, dicevamo,
oggi nel Vecchio continente non se ne vede quasi traccia.
I vari media non si sono ancora acconciati per creare
una sfera pubblica transnazionale europea. In Italia,
poi, non ne parliamo.
Del pellegrinaggio laico nella Capitale, invece, Schengen
costituisce la premessa necessaria anche se non sufficiente.
Il viaggio dei cittadini nella Capitale riconosciuta
della Nazione, ha contribuito, secoli or sono, in
maniera determinante alla costruzione di quel riconoscimento
e di quell’idea di nazionalità. Da dieci
anni la libera circolazione rende più facile
il pellegrinaggio, ma qual è la Capitale d’Europa
in cui recarsi?
E qui si marca una prima differenza tra quello che
successe all’alba dell’età contemporanea
e la novità di quello che già da tempo
sta succedendo sotto i nostri occhi. Una generazione
intera si sta formando nell’abitudine di considerare
il proprio spazio di movimento molto più ampio
di quello nazionale. Un’intera generazione è
abituata a considerare la varie Capitali europee come
i propri luoghi capitali, i punti di riferimento di
una nuova mappa concettuale, multicentrica e disseminata.
Questa è già l’Europa. È
già da sempre l’Europa.
Nel suo ultimo libro, Jeremy Rifkin, sostiene la particolarità
vincente del sogno europeo (solidale, multilaterale
e pacifista) su quello americano (individualista e
isolazionista). Il volume è dedicato, non a
caso, agli studenti Erasmus, incarnazione di quel
sogno e della sua intima struttura fatta di incontro,
dialogo e scambio.
Ecco, Schengen è un po’ tutto questo.
Almeno sul versante ideale. Poi c’è,
coestensiva alla questione del libero spazio di circolazione,
quella dei suoi confini, dei suoi limiti. Dove finisce
o finirà il libero spazio di circolazione?
Perché perimetrare un territorio è un
problema indissociabile da quello della costruzione
di un’identità.
Codicillo: minacce tenebrose incombono sull’apertura
di Schengen, sulla suddetta costruzione. Come il terrorismo.
O come, spiegano, l’immigrazione clandestina
incontrollata che rischia di sbriciolare il concetto
stesso di confine e, dunque, di spazio interno. In
sostanza i fenomeni della post-modernità mondializzata
e mondializzante.
Conseguenza: i singoli Paesi possono decidere di
sospendere il trattato di Schengen in qualsiasi momento
qualora ragioni di sicurezza dovessero imporsi.
Finale: riuscirà il processo di costruzione
europeo a tenersi in piedi nonostante gli spintoni
degli “effetti collaterali” della mondializzazione?
Riuscirà ad evitare la via dell’isolazionismo
e della chiusura e realizzare la sua intima vocazione
all’apertura, alla tolleranza, alla giustizia?
Avrà la volontà e l’intelligenza
di garantire la sua propria identità attraverso
una politica unitaria che non ne è che il presupposto?
Ai posteri l’ardua sentenza.
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