276 - 29.04.05


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Un po’ di storia,
tra paradossi e virtù
Andrea Borghesi

Il 26 marzo 1995, in virtù degli Accordi firmati dieci anni prima nella piccola città lussemburghese di Schengen, e delle successive integrazioni, cadevano le frontiere interne tra i paesi del blocco dell’Europa centro-occidentale. Germania, Olanda, Belgio, Lussemburgo, Francia, Spagna e Portogallo decidevano di abolire i controlli sistematici delle persone ai confini, di coordinarsi nella lotta alla criminalità organizzata di rilevanza internazionale e di integrare le banche dati delle rispettive forze di polizia. Un fatto storico, emblema della definitiva chiusura delle vicende storiche del Novecento. Altri paesi aderenti all’Unione Europea si assoceranno poi allo spazio di libera circolazione: l’Italia e l’Austria nel 1997, la Grecia nel 2000, Danimarca, Finlandia e Svezia nel 2001, come anche Norvegia e Islanda pur non facenti parte dell’Ue (ma vincolate all’Unione nordica dei passaporti); mentre ne rimarranno fuori Gran Bretagna e Irlanda del Nord, sempre gelose delle proprie prerogative nazionali.

I venti anni che ci separano dal primo accordo tra i paesi del Benelux, la Germania e la Francia del 14 giugno del 1985, vedono succedersi ulteriori specifiche intese. Nel giugno del 1990 il patto a cinque veniva riconfermato, acquisendo successivamente l’adesione di altri 11 paesi, tra comunitari e non. Ma è solo con il Trattato di Amsterdam del 1997 che la convenzione di Schengen entra di diritto nel quadro normativo dell’Unione Europea. Le disposizioni sulla piena libertà di circolazione e di lavoro dei cittadini all’interno dell’Unione sono state poi recepite dalla Costituzione europea firmata a Roma nell’ottobre scorso e in corso di ratifica. Ma con una deroga.

Un protocollo aggiuntivo allegato alla Costituzione prevede, infatti, riprendendo un’analoga disposizione presente nel Trattato sull’allargamento, l’esclusione dell’applicazione dell’acquis di Schengen, cioè dell'insieme risultante dalla Convenzione di base, da quella di attuazione e dall'apparato di norme relative alle modalità di applicazione, ai nuovi paesi membri. Un dispositivo questo che ha un’evidente ricaduta sui diritti delle persone e che si pone anche in contrapposizione con quanto previsto nella stessa prima parte della Costituzione dedicata ai princìpi generali, laddove sancisce la parità assoluta tra tutti i cittadini dei paesi membri.

Ad orientare i Quindici verso questa scelta è stato, da un parte, il timore che si riversasse dall’Est nelle nazioni confinanti (vedi Germania ed Austria) un numero di lavoratori tale da creare squilibri all’interno dei rispettivi mercati del lavoro, dall’altra, il sospetto che i nuovi membri non fossero in grado di controllare adeguatamente le proprie frontiere; nel caso di inserimento nello spazio Schengen, infatti, gli unici veri confini rimarrebbero quelli che dividono Stati-Ue da Stati-extraUe. Secondo quanto previsto dai trattati, i nuovi Stati membri dovranno dotarsi - prima di poter entrare nel “club-Schengen” - di politiche in materia di visti e di apparati di controllo alle frontiere uniformi rispetto a quelli del resto d'Europa, ma soprattutto dovranno adottare legislazioni e politiche in materia di gestione dei flussi migratori che gli impediscano di diventare meta di un'immigrazione clandestina in grado di spostarsi poi senza più controlli nel resto del continente.
Ne risulta il paradosso per il quale paesi non aderenti all’Unione, Norvegia e Islanda, sono inseriti nello spazio di libera circolazione e paesi che ne fanno parte ne sono esclusi.

 

 

 

 

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