Il
26 marzo 1995, in virtù degli Accordi firmati
dieci anni prima nella piccola città lussemburghese
di Schengen, e delle successive integrazioni, cadevano
le frontiere interne tra i paesi del blocco dell’Europa
centro-occidentale. Germania, Olanda, Belgio, Lussemburgo,
Francia, Spagna e Portogallo decidevano di abolire
i controlli sistematici delle persone ai confini,
di coordinarsi nella lotta alla criminalità
organizzata di rilevanza internazionale e di integrare
le banche dati delle rispettive forze di polizia.
Un fatto storico, emblema della definitiva chiusura
delle vicende storiche del Novecento. Altri paesi
aderenti all’Unione Europea si assoceranno poi
allo spazio di libera circolazione: l’Italia
e l’Austria nel 1997, la Grecia nel 2000, Danimarca,
Finlandia e Svezia nel 2001, come anche Norvegia e
Islanda pur non facenti parte dell’Ue (ma vincolate
all’Unione nordica dei passaporti); mentre ne
rimarranno fuori Gran Bretagna e Irlanda del Nord,
sempre gelose delle proprie prerogative nazionali.
I venti anni che ci separano dal primo accordo tra
i paesi del Benelux, la Germania e la Francia del
14 giugno del 1985, vedono succedersi ulteriori specifiche
intese. Nel giugno del 1990 il patto a cinque veniva
riconfermato, acquisendo successivamente l’adesione
di altri 11 paesi, tra comunitari e non. Ma è
solo con il Trattato di Amsterdam del 1997 che la
convenzione di Schengen entra di diritto nel quadro
normativo dell’Unione Europea. Le disposizioni
sulla piena libertà di circolazione e di lavoro
dei cittadini all’interno dell’Unione
sono state poi recepite dalla Costituzione europea
firmata a Roma nell’ottobre scorso e in corso
di ratifica. Ma con una deroga.
Un protocollo aggiuntivo allegato alla Costituzione
prevede, infatti, riprendendo un’analoga disposizione
presente nel Trattato sull’allargamento, l’esclusione
dell’applicazione dell’acquis
di Schengen, cioè dell'insieme risultante
dalla Convenzione di base, da quella di attuazione
e dall'apparato di norme relative alle modalità
di applicazione, ai nuovi paesi membri. Un dispositivo
questo che ha un’evidente ricaduta sui diritti
delle persone e che si pone anche in contrapposizione
con quanto previsto nella stessa prima parte della
Costituzione dedicata ai princìpi generali,
laddove sancisce la parità assoluta tra tutti
i cittadini dei paesi membri.
Ad orientare i Quindici verso questa scelta è
stato, da un parte, il timore che si riversasse dall’Est
nelle nazioni confinanti (vedi Germania ed Austria)
un numero di lavoratori tale da creare squilibri all’interno
dei rispettivi mercati del lavoro, dall’altra,
il sospetto che i nuovi membri non fossero in grado
di controllare adeguatamente le proprie frontiere;
nel caso di inserimento nello spazio Schengen, infatti,
gli unici veri confini rimarrebbero quelli che dividono
Stati-Ue da Stati-extraUe. Secondo quanto previsto
dai trattati, i nuovi Stati membri dovranno dotarsi
- prima di poter entrare nel “club-Schengen”
- di politiche in materia di visti e di apparati di
controllo alle frontiere uniformi rispetto a quelli
del resto d'Europa, ma soprattutto dovranno adottare
legislazioni e politiche in materia di gestione dei
flussi migratori che gli impediscano di diventare
meta di un'immigrazione clandestina in grado di spostarsi
poi senza più controlli nel resto del continente.
Ne risulta il paradosso per il quale paesi non aderenti
all’Unione, Norvegia e Islanda, sono inseriti
nello spazio di libera circolazione e paesi che ne
fanno parte ne sono esclusi.
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