“Il
trattato di Schengen ha avuto un grande valore simbolico
e tutt’oggi rappresenta uno strumento per avvicinare
l’Ue a nuovi Paesi, come è successo anche
con Islanda e Norvegia”. Se gli si chiede una
definizione sul trattato che dieci anni fa ha iniziato
ad abbattere le barriere dei confini interni dell’Ue,
Giovanni Buttarelli risponde con chiare e brevi parole.
Presidente dell’Autorità comune di controllo
Schengen (Acc) fino al 2003, Buttarelli continua anche
oggi a occuparsi di tematiche connesse con lo storico
trattato, ma come segretario generale del Garante
per la protezione dei dati personali presieduto da
Stefano Rodotà.
“Anche se i Paesi dell’Est ancora non
possono partecipare a Schengen” dice Buttarelli
del rapporto tra Schengen e i nuovi membri dell’Ue
“è proprio su impulso dell’ingresso
dei nuovi dieci membri che si sta passando a una banca
dati a fini di polizia di seconda generazione, il
Sis II, la più grande del mondo in materia”.
Buttarelli racconta anche come il tema delle frontiere
e del terrorismo abbia allontanato negli ultimi anni
Ue e Usa, e chiude il suo bilancio sui dieci anni
dall’entrata in vigore di Schengen con una speranza
tutta europea: “Dalle polizie nazionali sono
affluite alla sede dell’Europol a l’Aja
meno informazioni di quanto ci si aspettasse, e tuttavia
l’obiettivo di una vera polizia europea, unica
anche nel nome e nei simboli, prima o poi si avvererà”.
Sono passati vent’anni da quando cinque
dei sei paesi fondatori (Italia esclusa), firmando
l’Accordo di Schengen decisero di creare un
territorio senza frontiere interne, e ne sono passati
dieci da quel 1995 in cui finalmente il trattato entrò
in vigore. Qual è stato il significato storico
di Schengen?
L’Unione europea è nata per condividere
alcuni obiettivi che vanno al di là dei profili
economici, e tuttavia alcune nuove opportunità
sul piano istituzionale, commerciale, professionale
ed economico si sono rivelate utili, sul piano dell’immagine
quotidiana, per consolidare la coesione dell’Europa.
Tra tutte, la libera circolazione delle persone attraverso
le frontiere, permessa dall’Accordo di Schengen,
ha però assunto nel quotidiano un valore simbolico
ancora più decisivo. Poteva sembrare una cosa
semplice, ma ci si è arrivati – e ancora
solo sul piano normativo – appena nel 1985,
dopo quasi trent’anni dal Trattato di Roma:
tanto tempo solo per mettersi d’accordo sul
concetto. E da allora sono stati necessari quasi altri
dieci anni perché quell’accordo potesse
entrare effettivamente in applicazione.
E da quel 1995 che cosa è cambiato?
In questi ultimi dieci anni sono stati fatti invece
assai maggiori passi in avanti. E’ stata impressa
un’accelerazione decisiva alla materia, tracciando
il percorso che permetterà di aderire ai princìpi
di Schengen i nuovi dieci Paesi dell’allargamento.
Ma non solo. Si sono gettate le basi per recuperare
quei due membri che, come è noto, avevano inizialmente
deciso di non partecipare a Schengen, ovvero Gran
Bretagna e Irlanda. Inoltre, si è già
tracciato il percorso per Paesi come Bulgaria e Romania,
prossimi al futuro ingresso nell’Ue. L’accordo
di Schengen, il cui acquis viene assorbito
nel Trattato della Costituzione per l’Europa
perdendo così il suo diretto “logo”,
è particolare. L’ingresso nell’Ue
non comporta automaticamente la partecipazione a Schengen,
e dunque l’abolizione delle frontiere: ogni
membro deve prima dimostrare di aver attuato le misure
necessarie, di poter rispettare i criteri dello “Schengen
action plan”. D’altra parte, è
possibile che esso si ampli a Paesi che non sono membri
dell’Ue, come è già successo con
Islanda e Norvegia: non è una prospettiva impraticabile
giuridicamente, e può rappresentare così
uno strumento per avvicinare l’Ue a nuovi Paesi.
A proposito dei PECO, i membri dell’Europa
centrale e orientale, non crede che fino a quando
Schengen non varrà anche per loro, i cittadini
di quei paesi rimarranno europei di serie B?
Indubbiamente il principio dell’abolizione delle
frontiere è un valore aggiunto, non da poco.
Tuttavia, dobbiamo ricordare che l’ingresso
dei Paesi dell’Est è avvenuto tramite
un’accelerazione, e l’ingresso in sé
è già stato un segno molto importante.
E’ quindi inevitabile una certa gradualità
iniziale, e ci vuole del tempo affinché vengano
attuate alcune misure, perché si rendano i
loro sistemi compatibili con i nostri. Ma, anche qui,
si stanno facendo grandi passi avanti, tanto è
vero che il Sistema d’Informazione Schengen
di seconda generazione, il cosiddetto Sis II, è
stato pensato anche e soprattutto per i nuovi dieci
membri, per aumentare l’efficienza della cooperazione.
Di che si tratta? Qual è la differenza
tra Sis I e Sis II?
Il Sis è probabilmente la più grande
banca dati del mondo a fini di polizia, ed è
stato pensato per operare nei 13 membri Ue che partecipano
a Schengen, nonché per Norvegia e Islanda.
Consente alle forze di polizia di accedere a dati
su specifici individui (ricercati, scomparsi, testimoni,
sorvegliati) o su beni persi o rubati. Il Sis ha rappresentato
una prima svolta per la cooperazione tra le polizie
europee, che prima di Schengen poteva cooperare a
livello internazionale attraverso Interpol –
che rimane utilmente attiva – ma poiché
non era in grado di operare anche nei nuovi dieci,
è stato necessario sviluppare una banca dati
di seconda generazione, il Sis II appunto. Proprio
il 15 marzo è stato pubblicato un regolamento
che consente già, in alcuni punti, un’evoluzione
dal Sis I al Sis II, ed è un’evoluzione
che mi soddisfa particolarmente, perché il
Consiglio dell’Ue recepisce quasi integralmente
le indicazioni che formulai, come presidente dell’Acc,
in rappresentanza dell’Autorità. Sono
state create nuove categorie di dati, c’è
un maggiore scambio, e cambierà la concezione
di fondo. Si sta passando da un sistema statico a
uno dinamico. Con il Sis I, cadute le “ragioni”
per tenere un dato, ad esempio su una persona ricercata,
quel dato veniva cancellato. Con il Sis II avremo
un sistema più dinamico, basato come Europol
anche su “file intelligenti”. Questo pone,
ha detto l’Acc, il problema di adeguare regola
e garanzie.
Fino a che punto è arrivata la cooperazione
tra le polizie europee? Ci sono ancora aspetti su
cui lavorare?
La cooperazione ha funzionato abbastanza, ma c’è
ancora un problema di stimolare di più l’iniziativa
reciproca. Le varie forze di polizia sono d’accordo
su un’intensa collaborazione, ma la cultura
europea della cooperazione ha bisogno dei suoi tempi
fisiologici per affinare procedure, vincere lentenze
e resistenze burocratiche soprattutto sul modo di
lavorare, investire tecnologicamente, superare piccole
gelosie. Ci vuole tempo. Europol è un buon
sistema e si stima in una sua ulteriore evoluzione.
Quanto ai contenuti, a L’Aja sono però
affluite in passato meno informazioni di quello che
ci si aspettasse. L’Italia, va detto, su questo
punto ha premuto molto: abbiamo avuto diverse cariche
importanti in Sis e in Europol, e sempre siamo stati
all’avanguardia. Ora si sta guardando alla possibilità
di interrogazione incrociata Sis-Eurojust-Europol
e occorre riflettere se questa integrazione non renda
quindi superflui altri “caricamenti” di
dati nell’uno o nell’altro sistema, anche
per prevenire duplicazioni. Su un altro punto, restando
al nostro Paese, oggi difettiamo: dovremmo dare più
ascolto alle pronunce della Corte europea dei diritti
dell’uomo, che non hanno solo effetti “morali”.
L’11 gennaio, ad esempio, nel caso “Sciacca
contro Italia”, siamo stati condannati perché
in una conferenza stampa di polizia sono stati diffusi
alla stampa dati e notizie la cui diffusione è
stata ritenuta non proporzionata oltre che non regolata
dalla legge.
Ma si arriverà, secondo lei, ad una
polizia europea, magari unica anche nel nome e nei
simboli?
Questo è un obiettivo che prima o poi si avvererà.
Magari non subito, ma già il pm europeo, ad
esempio, sta facendo grandi passi in avanti, e Europol
sta accumulando nuove competenze.
C’è oggi, in merito ai temi
del trattato di Schengen, un’impostazione diversa
tra Ue e Stati Uniti? Pensiamo ai controlli alle frontiere,
al rispetto della privacy…
Su alcuni punti sì, non c’è dubbio.
L’Europa ha affrontato il post-11 settembre
dando alla sicurezza la massima importanza, ma è
stata più attenta alle ricadute a lungo termine.
Ha tentato in vari Paesi di evitare misure ingiustificate,
di non comprimere eccessivamente i diritti dei cittadini.
Lo stesso non è purtroppo accaduto negli Stati
Uniti, dove i diritti alla privacy sono stati di recente
sacrificati troppo in nome della lotta al terrorismo.
Un esempio ce lo offre la polemica sul Pnr, il Passenger
Name Record. Le autorità americane chiesero
l’accesso ai dati contenuti nei sistemi di prenotazione
e distribuzione delle compagnie aeree (i dati Pnr)
con modalità ritenute sproporzionate dagli
europei. Gli Stati Uniti minacciavano, in caso di
mancato accordo, controlli minuziosi e lunghi dei
passeggeri e dei membri dell’equipaggio all’arrivo,
pesanti sanzioni pecuniarie e persino la perdita dei
diritti di atterraggio. Allora, come in altre occasioni,
il Gruppo dei Garanti europei si espresse assai negativamente
su questo tipo di soluzioni americane, soprattutto
se confrontata con quelle, analoghe, allo studio in
Australia e Canada. Privacy e sicurezza non sono in
antitesi, sono l’uso il presupposto per un’efficace
vita dell’altra. Il problema non è incrementare
o meno la sicurezza: occorre vedere le modalità
in rapporto a finalità e obiettivi. Noi europei
siamo più francamente attenti alle modalità
proporzionate dei modi in cui raggiungere l’obiettivo.
Vogliamo sapere anche come si raccolgono e conservano
in concreto le impronte digitali, dove sono tenuti
quei dati e per quanto tempo. Nella Costituzione europea
ci sono ben due articoli sui diritti dei cittadini
nel trattamento dei dati personali. Questa è
la nostra tradizione, e la rispettiamo.
Però il terrorismo è un’emergenza.
Siamo andati a rileggerci il testo dell’Accordo
di Schengen dell’85, e allora quella parola
non era nemmeno citata. Il terrorismo internazionale
ha stravolto il senso di Schengen?
Il terrorismo è un’emergenza che dobbiamo
tutti contrastare senza esitazioni, ma, come ha detto
il Gruppo dei Garanti europei, la risposta delle Istituzioni
non deve svilire quei diritti che proprio l’azione
terroristica può avere come obiettivo di depotenziare.
Il Gruppo dei Garanti europei ha dichiarato che “nella
lotta contro il terrorismo occorre tutelare le libertà
individuali e i diritti fondamentali, compresi il
rispetto della vita privata e la protezione dei dati”.
Il terrorismo mira a mettere in crisi la struttura
democratica, a creare caos e paura. Una democrazia
deve rispondere con serenità, rimanendo salda
proprio nei momenti critici.
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