French
fries o freedom fries?
French fries, french fries!!!
Tutto è tornato al suo posto. Compreso il nome
delle patatine fritte. Fortunatamente! Voltare pagina
e da quella seguente, bianca, scrivere da zero, daccapo,
un nuovo capitolo.
Il nuovo corso delle relazione atlantiche riprende
da dove si era arenato con la guerra in Iraq. Il contesto
storico e le disposizioni personali sono cambiate
e ora i due acerrimi nemici, il giovane Presidente
della super potenza americana, George W. Bush, e l’anziano
Presidente della media potenza francese, Jacques Chirac,
possono finalmente sotterrare l’ascia di guerra,
gustarsi un pasto in cui ogni portata viene servita
con il proprio nome, e, magari, scambiarsi una fumante
patatina della pace.
Lontane le liti, è tempo di nuove
amicizie
Visti da dopo la turnée di George
Dabliù nel Vecchio Continente, ma soprattutto
da dopo la cena bruxellese del rude texano con il
fine parigino, sembrano lontani i tempi della deriva
delle due sponde atlantiche.
Lontani i tempi in cui il leader dei senatori repubblicani,
in pieno embargo del brie, sventolava al
Senato federale, la faccia livida, una foto della
Smart dichiarando acrimonioso di aborrire l’idea
“che gli americani siano costretti a guidare
quell’auto ridicola”, espressione di quella
vecchia Europa così gauschisante e
decadente.
Lontani, infine, i tempi in cui l’allora Consigliera
alla sicurezza e ora Segretario di Stato, Condoleeza
Rice, riassumeva la strategia americana di fronte
alla rivolta dei tre alleati europei con la formula:
“punire la Francia, ignorare la Germania e perdonare
la Russia”.
Con il primo viaggio in Europa del suo secondo mandato
presidenziale, Bush Jr ha voluto mostrare una nuova
attenzione all’alleato europeo e, calibrando
ben bene le tappe del suo tour – cena
con Chirac, summit bilaterale in Germania con il Cancelliere
Gerhard Schröder e incontro a Bratislava con
il presidente russo Vladimir Putin – ricucire
gli strappi con i più riottosi.
“Tutte le volte che lo incontro, Jacques è
di buon consiglio”, ha detto, come ogni volta,
Bush. “Abbiamo sempre avuto relazioni cordiali”,
ha risposto, come ogni, volta Chirac. Tra pacche sulle
spalle, lazzi e gag varie – compresa quella,
appunto, della mangiata di french fries,
ribattezzate dagli americani freedom fries
per ritorsione ai tempi della crisi – l’incontro
tra i due a Bruxelles sembra aver sancito, almeno
all’apparenza, l’intenzione di voler stabilire,
sulla base dei valori comuni a Usa e Ue, un partenariato
transatlantico per promuovere la democrazia. Ma quali
i mezzi?
Qualche ”piccola” divergenza
Su questo si è naturalmente glissato, dato
che proprio lì permangono le divergenze. Gli
europei, e soprattutto la Francia, vogliono trattare
con l’Iran per bloccare il suo programma nucleare;
gli Stati Uniti vogliono cambiarne il regime. Gli
europei, e soprattutto la Francia, vogliono levare
l’embargo sulla vendita di armi alla Cina imposto
dopo i fatti di Tienanmen dell’89; gli Stati
Uniti sono contrari. Gli europei, e soprattutto la
Francia, vogliono rendere più stringenti le
misure per la salvaguardia dell’ambiente e per
il surriscaldamento del mondo; gli Stati Uniti rifiutano
Kyoto. Alcuni paesi europei, in prima fila la Francia,
vogliono l’annullamento del debito dei paesi
in via di sviluppo e l’introduzione di una tassa
internazionale per aumentare i prestiti; gli Stati
Uniti sono contrari.
Insomma, se è vero che su molti dossier la
Francia e gli Usa si sono riavvicinati – l’impegno
comune per il ritiro delle truppe siriane dal Libano,
l’intenzione comune di favorire il processo
di pace in Medio-Oriente – è vero altresì
che su molti altri rimangono le divergenze.
Del resto quello del presidente americano era un
viaggio di riavvicinamento e soprattutto di “ascolto”,
avendo già all’inizio del mese il suo
segretario di Stato, “Condi” Rice, esposto
alla Francia la strategia americana.
Nuovo capitolo, nuova alleanza
“I partner transatlantici hanno avuto i loro
maggiori successi quando hanno rifiutato gli status
quo inaccettabili e messo in comune i loro valori
al servizio della libertà”, aveva detto
Condi l’8 febbraio ai politici, ai giornalisti,
ai ricercatori e agli intellettuali riuniti per ascoltarla
nell’aula magna dell’Istituto di studi
politici di Parigi. Aveva ammesso che sì, c’erano
state dei disaccordi in passato, ma che ora era “tempo
di superarli e aprire un nuovo capitolo nelle nostre
relazioni e un nuovo capitolo nella nostra alleanza”.
L’espressione status quo, e la relativa intenzione
a mutarlo, è stata utilizzata dalla segretaria
di Stato per ben tre volte. Segno che l’obiettivo
della diplomazia americana rimane quello non di conservare
l’esistente, ma di rivoluzionarlo, di plasmarlo.
Come? Qui sta il punto del contendere che, pur oscurato
dalla voglia di ricucire, ben presto riemergerà.
Ne sono convinti gli specialisti di relazioni internazionali
francesi che con la Rice hanno discusso nel corso
della sua visita a Parigi. Tra di loro ci sono divergenze
di analisi, ma tutti sono concordi sul fatto che la
questione iraniana sarà quella su cui nei prossimi
mesi verrà messa alla prova la nuova alleanza
euro-americana.
Il nodo iraniano
“Ho trovato la definizione dell’Iran come
Stato totalitario ideologica nel fondo e perfino mal
informata” ha osservato Guillaume Parmentier,
direttore del Centro francese di studi sugli Stati
Uniti, che, oltre a contestare l’analisi del
Segretario di Stato, ha anche affermato che un’eventuale
prova di forza per impedire l’accesso al nucleare
al regime dei mullah, avrebbe come prima conseguenza
quella di rinforzare il sostegno interno d’un
regime impopolare. “Il miglior modo di farlo
cadere è quello di lavorare per aprire il Paese”.
Dominique Moïsi, consigliere dell’Istituto
francese di relazioni internazionali, rileva che l’esempio
iraniano fornisce la migliore illustrazione della
contraddizione della diplomazia americana, “tra
la volontà di trasformare il mondo e la volontà
di conservarlo. In Iran vogliono allo stesso tempo
trasformare il regime e impedire al Paese di accedere
al nucleare”, mentre, secondo lui, quest’ultimo
obiettivo impedirebbe di raggiungere il primo, consolidando
il regime.
Diverso il punto di vista di François Heisbourg,
direttore della Fondazione per la ricerca stategica,
per il quale è senz’altro vero che c’è
un grosso cambiamento nel fatto che i dirigenti americani
tendano la mano ai loro partners, ma, aggiunge, “la
visione dell’amministrazione Bush sul posto
e il ruolo degli Stati Uniti nel mondo, non è
assolutamente cambiato”. Secondo quest’ultimo
la diplomazia americana sarebbe caratterizzata da
un corto circuito tra la visione e l’azione
politica dato che “tra la visione e il livello
tattico manca il livello strategico”. “Si
vede sul caso Iran”, continua, “l’Europa
cerca una strada per bloccare il programma nucleare
iraniano, mentre gli Usa rispondono di voler cambiare
il governo. In queste condizioni non si può
considerare di ottenere l’accordo degli americani
per levare questa o quella sanzione e quindi negoziare”.
Lista dei pericoli
Discordia sui mezzi, allora, per esportare i “nostri
comuni valori”. È veramente cambiato
l’atteggiamento degli States? Secondo Jean Daniel,
direttore del settimanale Nouvel Observateur,
non nella sostanza: “Niente, né nei discorsi
pronunciati dalla Rice né in quelli di George
Bush, indica cambiamenti nel concetto di guerra preventiva”,
scrive Daniel nel suo editoriale, “loro e solo
loro possono decidere l’identità del
nemico e del dovere che hanno di distruggerlo. Questa
concezione è accompagnata dalla missione particolare
di esportare la democrazia. Sono interessati”,
continua, “più ai diritti di ingerenza
politica che ai doveri d’assistenza umanitaria”.
L’amministrazione Bush vuole adoperarsi per
la “propagazione della libertà”,
ha detto Condi a Parigi, aggiungendo che per far questo
bisogna combattere tutto ciò che la libertà
minaccia. E ha allegato una lista di pericoli: “terrorismo,
proliferazione di armi di distruzione di massa, conflitti
regionali e stati tirannici”. Forse, per capire
cosa distingue le strategie americana e europea, bisogna
guardare a tutto ciò che da questa lista è
stato escluso.
Tra tutto ciò che minaccia i popoli e la loro
libertà non rientrano, infatti, gli squilibri
sociali, i disastri ambientali, le ineguaglianze tra
continenti, tra Paesi, tra una parte opulenta del
mondo e l’altra che ha fame. Come fa notare
Edwy Plenel nel suo editoriale nel magazine de Le
Monde, “La libertà di Condoleeza
Rice non si preoccupa dell’uguaglianza”.
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