273 - 12.03.05


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Usa-Francia,
pace è fatta?
Luca Sebastiani

French fries o freedom fries?
French fries, french fries!!!

Tutto è tornato al suo posto. Compreso il nome delle patatine fritte. Fortunatamente! Voltare pagina e da quella seguente, bianca, scrivere da zero, daccapo, un nuovo capitolo.
Il nuovo corso delle relazione atlantiche riprende da dove si era arenato con la guerra in Iraq. Il contesto storico e le disposizioni personali sono cambiate e ora i due acerrimi nemici, il giovane Presidente della super potenza americana, George W. Bush, e l’anziano Presidente della media potenza francese, Jacques Chirac, possono finalmente sotterrare l’ascia di guerra, gustarsi un pasto in cui ogni portata viene servita con il proprio nome, e, magari, scambiarsi una fumante patatina della pace.

Lontane le liti, è tempo di nuove amicizie

Visti da dopo la turnée di George Dabliù nel Vecchio Continente, ma soprattutto da dopo la cena bruxellese del rude texano con il fine parigino, sembrano lontani i tempi della deriva delle due sponde atlantiche.
Lontani i tempi in cui il leader dei senatori repubblicani, in pieno embargo del brie, sventolava al Senato federale, la faccia livida, una foto della Smart dichiarando acrimonioso di aborrire l’idea “che gli americani siano costretti a guidare quell’auto ridicola”, espressione di quella vecchia Europa così gauschisante e decadente.
Lontani, infine, i tempi in cui l’allora Consigliera alla sicurezza e ora Segretario di Stato, Condoleeza Rice, riassumeva la strategia americana di fronte alla rivolta dei tre alleati europei con la formula: “punire la Francia, ignorare la Germania e perdonare la Russia”.

Con il primo viaggio in Europa del suo secondo mandato presidenziale, Bush Jr ha voluto mostrare una nuova attenzione all’alleato europeo e, calibrando ben bene le tappe del suo tour – cena con Chirac, summit bilaterale in Germania con il Cancelliere Gerhard Schröder e incontro a Bratislava con il presidente russo Vladimir Putin – ricucire gli strappi con i più riottosi.

“Tutte le volte che lo incontro, Jacques è di buon consiglio”, ha detto, come ogni volta, Bush. “Abbiamo sempre avuto relazioni cordiali”, ha risposto, come ogni, volta Chirac. Tra pacche sulle spalle, lazzi e gag varie – compresa quella, appunto, della mangiata di french fries, ribattezzate dagli americani freedom fries per ritorsione ai tempi della crisi – l’incontro tra i due a Bruxelles sembra aver sancito, almeno all’apparenza, l’intenzione di voler stabilire, sulla base dei valori comuni a Usa e Ue, un partenariato transatlantico per promuovere la democrazia. Ma quali i mezzi?

Qualche ”piccola” divergenza

Su questo si è naturalmente glissato, dato che proprio lì permangono le divergenze. Gli europei, e soprattutto la Francia, vogliono trattare con l’Iran per bloccare il suo programma nucleare; gli Stati Uniti vogliono cambiarne il regime. Gli europei, e soprattutto la Francia, vogliono levare l’embargo sulla vendita di armi alla Cina imposto dopo i fatti di Tienanmen dell’89; gli Stati Uniti sono contrari. Gli europei, e soprattutto la Francia, vogliono rendere più stringenti le misure per la salvaguardia dell’ambiente e per il surriscaldamento del mondo; gli Stati Uniti rifiutano Kyoto. Alcuni paesi europei, in prima fila la Francia, vogliono l’annullamento del debito dei paesi in via di sviluppo e l’introduzione di una tassa internazionale per aumentare i prestiti; gli Stati Uniti sono contrari.

Insomma, se è vero che su molti dossier la Francia e gli Usa si sono riavvicinati – l’impegno comune per il ritiro delle truppe siriane dal Libano, l’intenzione comune di favorire il processo di pace in Medio-Oriente – è vero altresì che su molti altri rimangono le divergenze.

Del resto quello del presidente americano era un viaggio di riavvicinamento e soprattutto di “ascolto”, avendo già all’inizio del mese il suo segretario di Stato, “Condi” Rice, esposto alla Francia la strategia americana.

Nuovo capitolo, nuova alleanza

“I partner transatlantici hanno avuto i loro maggiori successi quando hanno rifiutato gli status quo inaccettabili e messo in comune i loro valori al servizio della libertà”, aveva detto Condi l’8 febbraio ai politici, ai giornalisti, ai ricercatori e agli intellettuali riuniti per ascoltarla nell’aula magna dell’Istituto di studi politici di Parigi. Aveva ammesso che sì, c’erano state dei disaccordi in passato, ma che ora era “tempo di superarli e aprire un nuovo capitolo nelle nostre relazioni e un nuovo capitolo nella nostra alleanza”.

L’espressione status quo, e la relativa intenzione a mutarlo, è stata utilizzata dalla segretaria di Stato per ben tre volte. Segno che l’obiettivo della diplomazia americana rimane quello non di conservare l’esistente, ma di rivoluzionarlo, di plasmarlo. Come? Qui sta il punto del contendere che, pur oscurato dalla voglia di ricucire, ben presto riemergerà.
Ne sono convinti gli specialisti di relazioni internazionali francesi che con la Rice hanno discusso nel corso della sua visita a Parigi. Tra di loro ci sono divergenze di analisi, ma tutti sono concordi sul fatto che la questione iraniana sarà quella su cui nei prossimi mesi verrà messa alla prova la nuova alleanza euro-americana.

Il nodo iraniano

“Ho trovato la definizione dell’Iran come Stato totalitario ideologica nel fondo e perfino mal informata” ha osservato Guillaume Parmentier, direttore del Centro francese di studi sugli Stati Uniti, che, oltre a contestare l’analisi del Segretario di Stato, ha anche affermato che un’eventuale prova di forza per impedire l’accesso al nucleare al regime dei mullah, avrebbe come prima conseguenza quella di rinforzare il sostegno interno d’un regime impopolare. “Il miglior modo di farlo cadere è quello di lavorare per aprire il Paese”.

Dominique Moïsi, consigliere dell’Istituto francese di relazioni internazionali, rileva che l’esempio iraniano fornisce la migliore illustrazione della contraddizione della diplomazia americana, “tra la volontà di trasformare il mondo e la volontà di conservarlo. In Iran vogliono allo stesso tempo trasformare il regime e impedire al Paese di accedere al nucleare”, mentre, secondo lui, quest’ultimo obiettivo impedirebbe di raggiungere il primo, consolidando il regime.

Diverso il punto di vista di François Heisbourg, direttore della Fondazione per la ricerca stategica, per il quale è senz’altro vero che c’è un grosso cambiamento nel fatto che i dirigenti americani tendano la mano ai loro partners, ma, aggiunge, “la visione dell’amministrazione Bush sul posto e il ruolo degli Stati Uniti nel mondo, non è assolutamente cambiato”. Secondo quest’ultimo la diplomazia americana sarebbe caratterizzata da un corto circuito tra la visione e l’azione politica dato che “tra la visione e il livello tattico manca il livello strategico”. “Si vede sul caso Iran”, continua, “l’Europa cerca una strada per bloccare il programma nucleare iraniano, mentre gli Usa rispondono di voler cambiare il governo. In queste condizioni non si può considerare di ottenere l’accordo degli americani per levare questa o quella sanzione e quindi negoziare”.

Lista dei pericoli

Discordia sui mezzi, allora, per esportare i “nostri comuni valori”. È veramente cambiato l’atteggiamento degli States? Secondo Jean Daniel, direttore del settimanale Nouvel Observateur, non nella sostanza: “Niente, né nei discorsi pronunciati dalla Rice né in quelli di George Bush, indica cambiamenti nel concetto di guerra preventiva”, scrive Daniel nel suo editoriale, “loro e solo loro possono decidere l’identità del nemico e del dovere che hanno di distruggerlo. Questa concezione è accompagnata dalla missione particolare di esportare la democrazia. Sono interessati”, continua, “più ai diritti di ingerenza politica che ai doveri d’assistenza umanitaria”.

L’amministrazione Bush vuole adoperarsi per la “propagazione della libertà”, ha detto Condi a Parigi, aggiungendo che per far questo bisogna combattere tutto ciò che la libertà minaccia. E ha allegato una lista di pericoli: “terrorismo, proliferazione di armi di distruzione di massa, conflitti regionali e stati tirannici”. Forse, per capire cosa distingue le strategie americana e europea, bisogna guardare a tutto ciò che da questa lista è stato escluso.

Tra tutto ciò che minaccia i popoli e la loro libertà non rientrano, infatti, gli squilibri sociali, i disastri ambientali, le ineguaglianze tra continenti, tra Paesi, tra una parte opulenta del mondo e l’altra che ha fame. Come fa notare Edwy Plenel nel suo editoriale nel magazine de Le Monde, “La libertà di Condoleeza Rice non si preoccupa dell’uguaglianza”.

 

 

 

 

 

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