C’è
anche la mano di Filippo Andreatta dietro al “Welcome
Mr. President” con cui Romano Prodi, con scandalo
della sinistra radicale, ha accolto il viaggio di
George W. Bush in Europa, seppellendo la vecchia battaglia
dialettica sulla guerra in Iraq. Professore di Relazioni
internazionali all’Università di Parma,
il figlio dell’ex ministro della Difesa del
governo Prodi, Andreatta è uno dei quattro
giovani studiosi cui l’ex presidente della Commissione
europea ha affidato la “Fabbrica”, l’elaborazione
del programma del centrosinistra (a lui spetta la
politica estera). “Questo viaggio di Bush ratifica
un decisivo cambiamento di rotta”, spiega Andreatta,
che ama gli Stati Uniti, ha studiato a Londra e New
York, e per il quale non si può parlare di
Europa e Usa come di “due Occidenti divisi”.
Il Vecchio continente però, avverte, deve darsi
da fare, deve proiettarsi con più coraggio
nel mondo, evitare l’olandizzazione, cioè
di “ritirarsi a vita privata, godersi il suo
continente ricco e pacifico, un po’ come ha
fatto l’Olanda dopo un grande periodo di coinvolgimento
globale nel Seicento”. Il rischio? Che tra vent’anni
l’Europa non conti più nulla sullo scenario
globale.
Professor Andreatta, qual è il bilancio
del viaggio di Bush in Europa?
Il bilancio è estremamente positivo. Dal punto
di vista simbolico, e la politica internazionale è
fatta anche di simboli, c’è il riconoscimento
dell’importanza strategica delle istituzioni
europee. Ma soprattutto, dal punto di vista dei contenuti,
c’è un tentativo di ricostruire un forte
rapporto transatlantico che non solo è nelle
mie preferenze ideologiche ma è anche una necessità
assoluta di fronte alla difficoltà del sistema
internazionale e in particolare di fronte alla stabilizzazione
dell’Iraq. Gli Usa da soli o con solo pochi
alleati non riescono a trovare le risorse economiche,
militari, ma anche e soprattutto politiche e di consenso
necessarie per affrontare i temi che ci stanno davanti.
Rimangono però delle questioni aperte.
A questo punto forse preoccupano più le divisioni
su Cina e Iran, piuttosto che quelle sull’Iraq?
La questione dell’Iraq rimane ancora aperta.
In ogni caso una delle ragioni per cui l’Iraq
è stata una pagina incerta nella stabilizzazione
delle relazioni internazionali è il fatto che
ha distratto l’attenzione da problemi che anche
due-tre anni fa sapevamo essere di fondamentale importanza.
Il problema della proliferazione, molto più
che in Iraq, è vivo in Iran e in Corea del
Nord, e su quello spero che riusciremo ad affrontare
con unità la questione, perché è
evidente che solo una comunità internazionale
unita riuscirebbe ad avere la meglio sulla proliferazione.
Su questo, soprattutto sulla Corea del Nord, è
necessario anche un ruolo della Cina, e lì
si aprono tutte le ambiguità del rapporto tra
Occidente e Cina nei prossimi dieci anni. Da un lato
è una grande potenza economica e regionale
di cui non si può fare a meno per risolvere
i problemi, dall’altro permangono una dittatura,
problemi con i diritti umani, incertezza riguardo
alle questioni di politica estera, e penso a Taiwan,
ai rapporti con il Giappone e a tutta la stabilità
regionale.
C’è chi ha parlato di Europa
e Usa come di due Occidenti. E’ d’accordo?
L’Occidente è una entità culturale
che nella mia visione ha delle estensioni anche in
Asia, e quindi non è limitato a un’area
geografica o a un’area linguistico-razziale.
Se esiste l’Occidente, è senz’altro
uno, è un concetto universalista nato dall’illuminismo
e da tutte le evoluzioni culturali precedenti. Pertanto
non esistono più Occidenti. Se non esiste un
unico Occidente, non parliamo affatto di Occidente.
Però recentemente molti studiosi americani
come Jeremy Rifkin e T.R. Reid, sottolineano le differenze
tra Europa e Usa. Lei tende invece a sottovalutarle?
No, le differenze ci sono, ma ci sono anche tra Kerry
e Bush, sugli stessi temi: l’uso unilaterale
della forza, la guerra preventiva, l’importanza
delle organizzazioni internazionali, il multilateralismo.
Quindi il problema è più l’attuale
amministrazione. L’Occidente diviso da Bush,
come scrive Habermas?
No, non arriverei a dire questo. Il problema è
politico, non di strutture geografiche o geopolitiche
che portano gli interessi dei paesi ad essere diversi.
Abbiamo di fronte una grande incertezza nel sistema
internazionale, che fa sì che abbiamo delle
divisioni, varie idee diverse su come affrontare queste
incertezze. E’ una cosa normale. Sulle opzioni
politiche ci si divide e speriamo che il naturale
processo di ritorno all’unità e al consenso
sia più rapido del processo di aggravamento
dei problemi.
Una differenza sta nell’atteggiamento
della politica estera. Gli Stati Uniti sembrano più
propositivi, sia militarmente sia politicamente. Consideriamo
che una crisi come quella in Corea del Nord vede completamente
assente, per tanti motivi, l’Ue. L’Europa
è un po’ timida, un po’ fuori dai
processi della globalizzazione politica?
C’è anzitutto una dimensione di potere,
per cui gli Usa sono senz’altro una potenza
globale, con interessi in tutte le regioni del mondo,
anche e soprattutto nell’Asia pacifica. Mentre
l’Europa, inferiore di rango, è soprattutto
una potenza regionale o comunque che si proietta solo
sul proprio emisfero. Penso all’Africa, dove
l’Ue sta sviluppando grosse operazioni, oppure
il Medio Oriente, la zona dell’ex impero sovietico.
Ma il raggio d’influenza non arriva a tutto
il globo. E in secondo luogo c’è una
questione di strumenti. Gli Usa sono una potenza matura,
che ha gli strumenti in tutti i campi, economico politico
e militare. L’Ue ha una eterogeneità
nella capacità militare, rispetto invece alle
capacità economiche e politiche, che soprattutto
in questioni come la proliferazione nucleare viene
a pesare. L’Europa deve decidere se diventare
grande, matura, e quindi dotarsi di uno spettro completo
di strumenti di politica estera.
Ma l’Europa può e dovrebbe essere
più presente nel mondo?
A mio avviso non ha scelta. L’unica alternativa
sarebbe quella di ritirarsi a vita privata, godersi
il suo continente ricco e pacifico, un po’ come
ha fatto l’Olanda dopo un grande periodo di
coinvolgimento globale nel Seicento. Si chiama olandizzazione,
ma era possibile nel Seicento: di fronte alle sfide
dell’ambiente, dell’economia globale e
del terrorismo noi non abbiamo l’opzione di
ritirarci dietro un muro immaginario, perché
subiremmo le conseguenze di quello che succede nel
mondo senza potere influire.
Mi permetta di sottoporla a un gioco. Usa, Ue, Cina,
India, Giappone, Brasile e Russia. Quale sarà
la gerarchia delle potenze tra 15 anni?
Aggiro la domanda, perché non credo nelle gerarchie,
credo negli equilibri, e pertanto credo che il potere
generi dei contropoteri. L’Ue dovrà lottare
per essere una potenza di primo piano tra 15-20 anni.
Le dimensioni economiche delle forze emergenti, come
Cina India e Russia sono tali per cui le singole economie
nazionali non sono più delle grandi economie
industriali ma sono piccole come dimensioni. Mi interessa
di più sapere quali saranno gli allineamenti
tra queste potenze, e spero che, come oggi, troveremo
tutte le potenze che lei ha nominato bene o male allineate
dalla stessa parte per la soluzione dei problemi globali,
la grande domanda è se invece non saranno divise
in due blocchi contrapposti entro 15 o 20 anni.
Ma lei ha recentemente citato un dato preoccupante
sullo scenario del 2050…
E’ vero. Nel 2050 nessuna delle economie europee
sarà più nel G7: le 4 di oggi saranno
sostituite da Brasile, Russia, India e Cina. Il baricentro
del mondo si sta spostando, e l’Europa deve
proiettarsi in quelle aree, fare da cerniera fra l’Occidente
e i paesi emergenti del pianeta. Sviluppando una politica
estera degna di questo nome, e una difesa comune che
non stravolgerebbe affatto la sua vocazione civile,
ma che le farebbe anzi risparmiare molti soldi: attualmente
su quattro dollari spesi nel mondo in armi, uno è
speso dai singoli paesi europei.
A proposito di Oriente, togliere l’embargo
alle armi alla Cina non è un po’ tradire
i valori dell’Europa?
A mio avviso sì. L’Europa ha difeso i
valori civili, i diritti umani, anche con un recente
successo in Ucraina, inaspettato ma nondimeno spettacolare.
Ha difeso il principio dell’esportazione pacifica
della democrazia anche con la critica all’esportazione
forzosa della democrazia in Iraq. Questa è
la sua vocazione e il suo grande successo in Europa
orientale, e quindi la sua missione è esportare
questo tipo di idee. Giocare come le politiche di
potenza dell’Ottocento su un certo cinismo e
realismo che vede la Cina come una grande potenza
con cui comunque bisogna avere a che fare sebbene
sia un regime assolutamente non democratico e repressivo
nei confronti dei diritti umani, mi sembra che non
valga la candela.
C’è una differenza di atteggiamento
verso gli Usa tra la Commissione Prodi e quella Barroso?
No. C’è una differenza degli Stati Uniti
rispetto alle loro relazioni con l’Ue. La prima
amministrazione Bush, quella della guerra preventiva
e unilaterale, è anche l’amministrazione
della divisione dell’Ue in vecchia e nuova Europa,
la prima da sempre ad avere un atteggiamento critico
verso l’Ue. Questo viaggio ratifica un decisivo
cambiamento di rotta ed è questo il dato più
rilevante degli ultimi anni.
La propaganda antieuropea parla sempre della
divisione dell’Europa, dalla politica alla lingua
alla società. Ma in fondo Greenberg e Huntington
ci dimostrano che anche gli Usa, quanto a divisioni,
hanno anch’essi sempre più problemi…
Esiste un sentimento antieuropeo negli Usa che è
una delle cose più preoccupanti che ci sia,
e anche in Europa passa questa vulgata della debolezza
dell’Europa. Bisogna fare una distinzione tra
le divisioni, che sono legittime e che esistono, e
invece la capacità istituzionale di decidere,
ovvero di superare quelle decisioni e alla fine di
prendere una decisione. Gli Usa, nati nel 1776, hanno
sviluppato una capacità di risolvere istituzionalmente
questioni di questo tipo cent’anni dopo, dopo
la guerra di secessione e verso la fine dell’Ottocento,
quando hanno cominciato una politica estera degna
di questo nome. L’Europa è in qualche
modo già abbastanza in anticipo rispetto a
quella tabella di marcia. Sono tempi molto lunghi,
e sono cose che è necessario riuscire a cambiare
nei prossimi 15-20 anni, se l’Europa vuole avere
una voce. Questa è la grande sfida di questa
generazione.
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