273 - 12.03.05


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“Ma non parliamo
di Occidenti divisi”
Filippo Andreatta con
Daniele Castellani Perelli

C’è anche la mano di Filippo Andreatta dietro al “Welcome Mr. President” con cui Romano Prodi, con scandalo della sinistra radicale, ha accolto il viaggio di George W. Bush in Europa, seppellendo la vecchia battaglia dialettica sulla guerra in Iraq. Professore di Relazioni internazionali all’Università di Parma, il figlio dell’ex ministro della Difesa del governo Prodi, Andreatta è uno dei quattro giovani studiosi cui l’ex presidente della Commissione europea ha affidato la “Fabbrica”, l’elaborazione del programma del centrosinistra (a lui spetta la politica estera). “Questo viaggio di Bush ratifica un decisivo cambiamento di rotta”, spiega Andreatta, che ama gli Stati Uniti, ha studiato a Londra e New York, e per il quale non si può parlare di Europa e Usa come di “due Occidenti divisi”. Il Vecchio continente però, avverte, deve darsi da fare, deve proiettarsi con più coraggio nel mondo, evitare l’olandizzazione, cioè di “ritirarsi a vita privata, godersi il suo continente ricco e pacifico, un po’ come ha fatto l’Olanda dopo un grande periodo di coinvolgimento globale nel Seicento”. Il rischio? Che tra vent’anni l’Europa non conti più nulla sullo scenario globale.

Professor Andreatta, qual è il bilancio del viaggio di Bush in Europa?

Il bilancio è estremamente positivo. Dal punto di vista simbolico, e la politica internazionale è fatta anche di simboli, c’è il riconoscimento dell’importanza strategica delle istituzioni europee. Ma soprattutto, dal punto di vista dei contenuti, c’è un tentativo di ricostruire un forte rapporto transatlantico che non solo è nelle mie preferenze ideologiche ma è anche una necessità assoluta di fronte alla difficoltà del sistema internazionale e in particolare di fronte alla stabilizzazione dell’Iraq. Gli Usa da soli o con solo pochi alleati non riescono a trovare le risorse economiche, militari, ma anche e soprattutto politiche e di consenso necessarie per affrontare i temi che ci stanno davanti.

Rimangono però delle questioni aperte. A questo punto forse preoccupano più le divisioni su Cina e Iran, piuttosto che quelle sull’Iraq?

La questione dell’Iraq rimane ancora aperta. In ogni caso una delle ragioni per cui l’Iraq è stata una pagina incerta nella stabilizzazione delle relazioni internazionali è il fatto che ha distratto l’attenzione da problemi che anche due-tre anni fa sapevamo essere di fondamentale importanza. Il problema della proliferazione, molto più che in Iraq, è vivo in Iran e in Corea del Nord, e su quello spero che riusciremo ad affrontare con unità la questione, perché è evidente che solo una comunità internazionale unita riuscirebbe ad avere la meglio sulla proliferazione. Su questo, soprattutto sulla Corea del Nord, è necessario anche un ruolo della Cina, e lì si aprono tutte le ambiguità del rapporto tra Occidente e Cina nei prossimi dieci anni. Da un lato è una grande potenza economica e regionale di cui non si può fare a meno per risolvere i problemi, dall’altro permangono una dittatura, problemi con i diritti umani, incertezza riguardo alle questioni di politica estera, e penso a Taiwan, ai rapporti con il Giappone e a tutta la stabilità regionale.

C’è chi ha parlato di Europa e Usa come di due Occidenti. E’ d’accordo?

L’Occidente è una entità culturale che nella mia visione ha delle estensioni anche in Asia, e quindi non è limitato a un’area geografica o a un’area linguistico-razziale. Se esiste l’Occidente, è senz’altro uno, è un concetto universalista nato dall’illuminismo e da tutte le evoluzioni culturali precedenti. Pertanto non esistono più Occidenti. Se non esiste un unico Occidente, non parliamo affatto di Occidente.

Però recentemente molti studiosi americani come Jeremy Rifkin e T.R. Reid, sottolineano le differenze tra Europa e Usa. Lei tende invece a sottovalutarle?

No, le differenze ci sono, ma ci sono anche tra Kerry e Bush, sugli stessi temi: l’uso unilaterale della forza, la guerra preventiva, l’importanza delle organizzazioni internazionali, il multilateralismo.

Quindi il problema è più l’attuale amministrazione. L’Occidente diviso da Bush, come scrive Habermas?

No, non arriverei a dire questo. Il problema è politico, non di strutture geografiche o geopolitiche che portano gli interessi dei paesi ad essere diversi. Abbiamo di fronte una grande incertezza nel sistema internazionale, che fa sì che abbiamo delle divisioni, varie idee diverse su come affrontare queste incertezze. E’ una cosa normale. Sulle opzioni politiche ci si divide e speriamo che il naturale processo di ritorno all’unità e al consenso sia più rapido del processo di aggravamento dei problemi.

Una differenza sta nell’atteggiamento della politica estera. Gli Stati Uniti sembrano più propositivi, sia militarmente sia politicamente. Consideriamo che una crisi come quella in Corea del Nord vede completamente assente, per tanti motivi, l’Ue. L’Europa è un po’ timida, un po’ fuori dai processi della globalizzazione politica?

C’è anzitutto una dimensione di potere, per cui gli Usa sono senz’altro una potenza globale, con interessi in tutte le regioni del mondo, anche e soprattutto nell’Asia pacifica. Mentre l’Europa, inferiore di rango, è soprattutto una potenza regionale o comunque che si proietta solo sul proprio emisfero. Penso all’Africa, dove l’Ue sta sviluppando grosse operazioni, oppure il Medio Oriente, la zona dell’ex impero sovietico. Ma il raggio d’influenza non arriva a tutto il globo. E in secondo luogo c’è una questione di strumenti. Gli Usa sono una potenza matura, che ha gli strumenti in tutti i campi, economico politico e militare. L’Ue ha una eterogeneità nella capacità militare, rispetto invece alle capacità economiche e politiche, che soprattutto in questioni come la proliferazione nucleare viene a pesare. L’Europa deve decidere se diventare grande, matura, e quindi dotarsi di uno spettro completo di strumenti di politica estera.

Ma l’Europa può e dovrebbe essere più presente nel mondo?

A mio avviso non ha scelta. L’unica alternativa sarebbe quella di ritirarsi a vita privata, godersi il suo continente ricco e pacifico, un po’ come ha fatto l’Olanda dopo un grande periodo di coinvolgimento globale nel Seicento. Si chiama olandizzazione, ma era possibile nel Seicento: di fronte alle sfide dell’ambiente, dell’economia globale e del terrorismo noi non abbiamo l’opzione di ritirarci dietro un muro immaginario, perché subiremmo le conseguenze di quello che succede nel mondo senza potere influire.


Mi permetta di sottoporla a un gioco. Usa, Ue, Cina, India, Giappone, Brasile e Russia. Quale sarà la gerarchia delle potenze tra 15 anni?


Aggiro la domanda, perché non credo nelle gerarchie, credo negli equilibri, e pertanto credo che il potere generi dei contropoteri. L’Ue dovrà lottare per essere una potenza di primo piano tra 15-20 anni. Le dimensioni economiche delle forze emergenti, come Cina India e Russia sono tali per cui le singole economie nazionali non sono più delle grandi economie industriali ma sono piccole come dimensioni. Mi interessa di più sapere quali saranno gli allineamenti tra queste potenze, e spero che, come oggi, troveremo tutte le potenze che lei ha nominato bene o male allineate dalla stessa parte per la soluzione dei problemi globali, la grande domanda è se invece non saranno divise in due blocchi contrapposti entro 15 o 20 anni.

Ma lei ha recentemente citato un dato preoccupante sullo scenario del 2050…

E’ vero. Nel 2050 nessuna delle economie europee sarà più nel G7: le 4 di oggi saranno sostituite da Brasile, Russia, India e Cina. Il baricentro del mondo si sta spostando, e l’Europa deve proiettarsi in quelle aree, fare da cerniera fra l’Occidente e i paesi emergenti del pianeta. Sviluppando una politica estera degna di questo nome, e una difesa comune che non stravolgerebbe affatto la sua vocazione civile, ma che le farebbe anzi risparmiare molti soldi: attualmente su quattro dollari spesi nel mondo in armi, uno è speso dai singoli paesi europei.

A proposito di Oriente, togliere l’embargo alle armi alla Cina non è un po’ tradire i valori dell’Europa?

A mio avviso sì. L’Europa ha difeso i valori civili, i diritti umani, anche con un recente successo in Ucraina, inaspettato ma nondimeno spettacolare. Ha difeso il principio dell’esportazione pacifica della democrazia anche con la critica all’esportazione forzosa della democrazia in Iraq. Questa è la sua vocazione e il suo grande successo in Europa orientale, e quindi la sua missione è esportare questo tipo di idee. Giocare come le politiche di potenza dell’Ottocento su un certo cinismo e realismo che vede la Cina come una grande potenza con cui comunque bisogna avere a che fare sebbene sia un regime assolutamente non democratico e repressivo nei confronti dei diritti umani, mi sembra che non valga la candela.

C’è una differenza di atteggiamento verso gli Usa tra la Commissione Prodi e quella Barroso?

No. C’è una differenza degli Stati Uniti rispetto alle loro relazioni con l’Ue. La prima amministrazione Bush, quella della guerra preventiva e unilaterale, è anche l’amministrazione della divisione dell’Ue in vecchia e nuova Europa, la prima da sempre ad avere un atteggiamento critico verso l’Ue. Questo viaggio ratifica un decisivo cambiamento di rotta ed è questo il dato più rilevante degli ultimi anni.

La propaganda antieuropea parla sempre della divisione dell’Europa, dalla politica alla lingua alla società. Ma in fondo Greenberg e Huntington ci dimostrano che anche gli Usa, quanto a divisioni, hanno anch’essi sempre più problemi…

Esiste un sentimento antieuropeo negli Usa che è una delle cose più preoccupanti che ci sia, e anche in Europa passa questa vulgata della debolezza dell’Europa. Bisogna fare una distinzione tra le divisioni, che sono legittime e che esistono, e invece la capacità istituzionale di decidere, ovvero di superare quelle decisioni e alla fine di prendere una decisione. Gli Usa, nati nel 1776, hanno sviluppato una capacità di risolvere istituzionalmente questioni di questo tipo cent’anni dopo, dopo la guerra di secessione e verso la fine dell’Ottocento, quando hanno cominciato una politica estera degna di questo nome. L’Europa è in qualche modo già abbastanza in anticipo rispetto a quella tabella di marcia. Sono tempi molto lunghi, e sono cose che è necessario riuscire a cambiare nei prossimi 15-20 anni, se l’Europa vuole avere una voce. Questa è la grande sfida di questa generazione.

 

 

 

 

 

 

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