Questione
complicata quella dei confini europei, dei suoi limiti.
Da un punto di vista simbolico, storico o semplicemente
geografico. Senza voler tirare in ballo una complessità
che vede incrociare processi di costruzione identitaria
con elementi economici, processi storici con livelli
simbolici, si è già nell’eccezione
quando si osservi una carta geografica dell’Unione
europea.
Quando, mettiamo nel 2008, uno studente della scuola
media dovrà ripetere la sua lezioncina di geografia
esordirà, come tutti abbiamo fatto, dai confini,
dichiarando con certezza che l’Europa confina
a Nord col mare e la Norvegia, a Ovest con il mare,
a Sud con il mare e con la Turchia - ma solo per qualche
anno - a Est con Moldavia, Ucraina, Bielorussia e
Russia e, qui viene il bello, al Centro con Croazia,
Bosnia-Erzegovina, Serbia-Montenegro, Macedonia e
Albania.
Non si erano mai visti dei confini al centro, un
buco, su una cartina politica. Ma questo esattamente
sono i Balcani per l’Europa che si va costruendo.
Un buco nero; che sta lì a ricordare gli errori
e le omissioni del passato, l’omissis
e gli orrori di una guerra dentro casa; e, ora, i
problemi inediti di un’integrazione che appare
ancora lontana da venire.
Nessuno mette in dubbio che i vari Paesi emersi dalla
disgregazione della Jugoslavia e l’Albania debbano
naturalmente far parte dell’Ue. È solo
che, muovendosi nel solco dell’esperienza dei
negoziati condotti negli anni passati con i Paesi
che fanno parte della famiglia europea dal primo maggio
scorso, l’Ue si trova di fronte uno scenario
completamente differente e molto più difficile.
Nel 1999 venne messo appunto un apposito Processo
di stabilizzazione e associazione (Psa) che definiva
le linnee guida sulle quali condurre i rapporti con
i Paesi balcanici, i quali d’allora, però,
si muovono in ordine sparso, tra timidi progressi,
balzi all’indietro e stagnazione.
Per ora solo la Croazia – in vigore dall’1
febbraio - e la Macedonia – in vigore dall’1
aprile 2004 - hanno sottoscritto con l’Unione
l’Accordo di stabilizzazione e associazione
(Asa), tappa necessaria che nella fase di pre-adesione
stabilisce gli obiettivi, in materia di riforme, da
raggiungere prima di avviare i veri e propri negoziati
di adesione – previsti per la prossima primavera
per entrambi.
Gli altri Paesi navigano ancora in alto mare.
Del resto sono almeno tre i fattori che fanno della
questione balcanica una novità.
Il primo concerne la tradizione culturale e politica
di questi Paesi. Tranne la Croazia, infatti, gli altri
sono appartenuti all’Impero ottomanno e anche
se questo fatto non implica niente per determinismo
storico - tra l’altro smentito dall’adesione
ad esempio di Grecia, Romania e Bulgaria - d’altra
parte segna in quei popoli una vocazione europea che
potremmo definire “scettica”.
Il secondo fattore inedito concerne la natura stessa
di questi Stati. Finora hanno aderito all’Ue
Stati-nazione dall’identità salda e dai
confini certi. Ora lo stesso non si può dire
dei Paesi dell’ex Jugoslavia e tanto meno dell’Albania.
La Serbia è doppiamente fragile a causa dei
suoi legami federali con il Montenegro – tanto
che l’Ue, assumendo un “approccio realista”,
ha deciso di condurre i negoziati in maniera parallela
– e per le incertezze sul futuro statuto del
Kosovo, ora amministrato dalle Nazioni Unite e dove
lo scorso marzo si sono riaccese le violenze etniche
tra serbi e albanesi.
La Bosnia-Erzegovina, sotto protettorato a nove anni
dalla fine della guerra, vede ancora la presenza sul
suo suolo di una forza di pace - il cui comando è
stato rilevato a dicembre dall’Europa che ha
dato il cambio alla Nato – segno che la situazione
non è affatto normalizzata. Le elezioni dell’ottobre
2004 vi si sono svolte con regolarità, ma i
partiti nazionalisti serbo (Sds), croato (Hdz) e musulmano
(Sda) hanno mantenuto le loro posizioni di preminenza.
Anche in Macedonia le tensioni etniche non sono scongiurate.
Evitata la guerra civile e lo smembramento dello Stato
nel 2001 con gli accordi di pace di Ohrin, lo scorso
novembre i nazionalisti macedoni sono riusciti a convocare
un referendum per l’abolizione di una legge
sulla decentralizzazione, chiave di quegli accordi.
Secondo i nazionalisti la legge sarebbe stata concepita
per premiare gli albanesi, ma dopo gli appelli dell’Ue
a boicottare le urne, il referendum è stato
annullato per il mancato raggiungimento del quorum.
La stessa Albania sembra minacciata nei suoi confini
da quelle parti politiche che sognano ancora la “grande
Albania” e brigano per realizzarla.
Terzo fattore e terzo ostacolo sulla strada dell’adesione,
legato ai due precedenti, è naturalmente l’eredità
delle guerre degli anni Novanta che hanno isolato
i Paesi dei Balcani dal contesto europeo, distrutto
le loro economie e devastato il tessuto sociale.
Se la Croazia è riuscita a sanare la situazione
economica - anche grazie ad un settore turistico negli
ultimi anni in forte crescita - e ora bussa alla porta
dell’Ue, la Macedonia, l’Albania e la
Bosnia-Erzegovina sono ancora tra i Paesi più
poveri d’Europa, con crescite stagnanti e corruzioni
generalizzate.
Ma al di là delle devastazioni materiali che
hanno provocato, le guerre hanno altresì messo
i militari nella condizione di poter accumulare un
potere eccessivo e alla criminalità di dilagare
e costruirsi propri potentati locali. Una delle condizioni
poste dall’Unione all’adesione di questi
Paesi è la collaborazione attiva con il Tribunale
penale internazionale per l’ex Jugoslavia (Tpij)
attraverso la consegna dei criminali di guerra ricercati
per crimini contro l’umanità.
Alla fine dello scorso gennaio, l’alto rappresentante
della politica estera e di sicurezza, Javier Solana,
ha annullato una visita a Belgrado nel corso della
quale si sarebbe dovuto discutere degli studi di fattibilità
per un Accordo di stabilizzazione e associazione proprio
per la mancanza di collaborazione delle autorità
serbe con il tribunale dell’Aja.
Il primo ministro Vojislav Kustunica, da sempre tiepido
con il Tpij, si trova alla testa di un governo di
minoranza pro-europeo e quindi pro-collaborazione,
ma per sostenersi ha bisogno anche dell’appoggio
del Partito socialista serbo (Sps) di Slobodan Milosevic,
assolutamente contrario, ovviamente, alla consegna
dei criminali di guerra.
Anche la Croazia sta attraversando un periodo di grave
crisi nei suoi rapporti con le istituzioni europee
a causa della mancata collaborazione con i magistrati
dell’Aja. Alla fine di gennaio il commissario
europeo all’allargamento, Ollo Rehn, ha minacciato,
infatti, di rinviare a data imprecisata l’apertura
dei negoziati di adesione previsti per il 17 marzo,
qualora le autorità di Zagabria non consegnassero
al Tpij il generale Ante Gotovina, perseguito per
aver “pianificato, preparato ed eseguito”,
con altri, i crimini commessi nel 1995 in occasione
dell’offensiva contro i serbi di Krajina.
Tra quanto tempo, dunque, quel buco nero al centro
della cartina geografica europea si colorerà
di blu? Nessuno si azzarda a fare previsioni, ma tutti
sono più o meno concordi sul fatto che ci vorrà
del tempo per sbrogliare, più che la matassa,
la poltiglia balcanica. Le tre fasi successive di
stabilizzazione, transizione e integrazione, che hanno
segnato il processo di adesione degli altri Paesi,
sembrano qui essere meno utili con questa sequenza.
Forse, per uscire dall’impasse balcanica,
come qualcuno suggerisce, bisognerebbe provare un’altra
logica, quella della simultaneità.
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