Chi si ricorda della “strategia di Lisbona”?
Forse in parecchi, visto che ad essa si fa riferimento
ogni qualvolta si intenda sottolineare, in discorsi
altisonanti, le sorti magnifiche di un’Unione
europea destinata a portare prosperità ai propri
cittadini e al mondo intero con il suo originale modello
di sviluppo.
Ma quell’impegno, che i capi di Stato e di Governo
europei sottoscrissero nella capitale lusitana nel
2000, conteneva anche un margine temporale entro il
quale “l’economia della conoscenza più
competitiva del mondo” si sarebbe dovuta realizzare:
il 2010.
Mancano ancora cinque anni, ma si è ben lontani
dai traguardi, a dir la verità un po’
utopistici anche allora, che ci si era prefissati.
La crescita va molto a rilento, con una media del
2% nell’Europa storica (più alta in Lussemburgo,
4%, Svezia, 3,7%, e Gran Bretagna, 3,3%; più
bassa in Italia e Portogallo, 1,3%) e performances
migliori nei Paesi di recente adesione; la disoccupazione
è ancora massiccia; il ritardo nello sviluppo
delle tecnologie avanzate è grande; gli investimenti
in ricerca sono molto al di sotto dell’obiettivo
previsto del 3% del Pil. Da aggiungere, dinamica forse
allora mal percepita, la concorrenza crescente delle
potenze emergenti – Cina, India, Brasile –
anche nei settori avanzati, con processi di delocalizzazione
che non minacciano più soltanto i settori manifatturieri,
ma anche quelli dei servizi e delle attività
ad alto valore aggiunto. Insomma, bilancio ben negativo
se non solo non si è sulla strada di diminuire
lo scarto con gli Stati Uniti, ma si rischia di rincorrere
gli emergenti.
Concordi sulla presa d’atto della débâcle,
i capi di Stato e di Governo intendono dare una sterzata
e rilanciare la strategia di Lisbona la prossima primavera,
nel corso del Consiglio d’Europa che si svolgerà
a marzo. Tra guerra in Iraq, attentati di Madrid,
lotta al terrorismo e corollari di divisione che ne
sono seguiti, infatti, gli ultimi anni sono passati
senza che un ragionamento serio sugli obiettivi socio-ecomonici
strategici comuni sia stato affrontato.
È la Commissione nuova di zecca del Presidente
José Manuel Barroso che si è assunta
l’onere del rilancio della visione di Lisbona
con un programma che, seppur ancora in via di elaborazione,
ha già individuato gli elementi su cui puntare
e quelli, invece, da mondare. L’emanazione politica
della Commissione è chiara e non stupisce allora
l’impronta delle proposte che si appresta a
fare (2 febbraio): competitività come priorità
assoluta e oscuramento degli altri due obiettivi elaborati
nel 2000 – frutto di altri equilibri politici,
allora più spostati verso sinistra –
il sociale e lo sviluppo sostenibile.
“Più occupazione in un’Europa attrattiva
e innovativa”, in sostanza, più liberalismo,
più liberalizzazioni e più competizione
per crescere e creare impiego. È lo slogan
contenuto in una nota inviata ai suoi colleghi dal
commissario all’impresa e all’industria,
e vice presidente della Commissione stessa, il tedesco
Günter Verheugen, incaricato di coordinare gli
sforzi di Bruxelles proprio in tema di competitività.
Secondo i piani di quest’ultimo, discussi l’11
gennaio scorso da un gruppo di commissari da lui stesso
diretti, l’Unione europea dovrà concentrare
mezzi ed energia nei tre campi dell’occupazione,
dell’innovazione e del concetto tedesco di attrattività
(Standort), fissando dieci priorità
che dovranno essere perseguite simultaneamente “poiché
si rinforzeranno mutualmente”. Il commissario
tedesco intende inoltre rilanciare la politica industriale
- almeno nei settori di punta - anche per non tirarsi
addosso le critiche che invece erano piovute sulla
Commissione precedente, colpevole, secondo Francia
e Germania, di aver abbandonato a sé l’industria.
Va da sé che per aumentare la competitività
esterna dell’Ue, bisogna aumentare anche quella
interna. La commissaria alla concorrenza, l’olandese
Neelie Kroes, è infatti intenzionata ad aumentare
le azioni rivolte alla liberalizzazione, anche in
quei settori più impermeabili e protetti da
alcuni Stati - leggi Francia - quali quello dell’energia
o dei trasporti. Ma non basta: la Commissione intende
introdurre elementi concorrenziali anche nel settore
dei servizi.
Questo il quadro programmatico di fondo, le linee
guida. Ora inizia la mediazione, la delicata negoziazione,
che già si annuncia difficile, del bilancio
comunitario per il periodo 2007-2013. Per mettere
in campo la rinnovata strategia “lusitana”
bisognerà convogliare risorse da un settore
all’altro, spostare soldi e finanziamenti da
qua a là. Ora, in questi casi chi sta là
dove si vogliono sottrarre risorse – mettiamo
che riceva finanziamenti di sostegno in quanto regione
agricola o depressa – alzerà la voce
e bisognerà dargli qualcos’altro in cambio.
Ma non tutti sono favorevoli all’innalzamento
della spesa, anzi, un agguerrito gruppetto (Francia,
Germania, Gran Bretagna, Olanda, Svezia, Austria)
è deciso a mantenerla al di qua della soglia
invalicabile dell’1% del Pil europeo.
Su questioni come queste si innestano poi altri elementi
che peseranno sull’esercizio del dare e avere
e sulle politiche che, una volta stabilite, verranno
perseguite. In molti Paesi, per fare solo un esempio,
sono previste consultazioni popolari per l’approvazione
del Trattato costituzionale europeo e il successo
di quest’ultimo non è affatto scontato
ovunque. La Commissione intende liberalizzare i servizi
e renderli concorrenziali? Il rischio è che
poi i francesi, molto sensibili al tema, votino contro
la Costituzione.
Insomma, delineato il programma, ora inizia il lavoro
sporco e delicato della mediazione politica tra 25
interessi diversi che devono farsi uno.
Il Primo ministro lussemburghese Jean-Claude Juncker,
presidente di turno dell’Unione, si è
detto fiducioso e speranzoso di, con il sostegno della
Commissione, trovare un compromesso entro la fine
della sua presidenza, cioè la fine di giugno.
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