La bocciatura della candidatura di
Rocco Buttiglione da parte delle Commissioni del Parlamento
europeo e la sua sostituzione nella squadra di Barroso
sono state analizzate molto più sotto il profilo
delle idee e del comportamento dell’aspirante
Commissario che non sotto quello delle implicazioni
(e delle cause) istituzionali connesse al caso. Implicazioni
che sono rilevanti e aiuterebbero a comprendere meglio
la vicenda (ed anche a sdrammatizzarla).
Se in Italia, il polverone sollevato dal caso è
particolarmente denso (data la facile strumentalizzazione,
in un senso o nell’altro, a fini di politica
interna), l’affaire Buttiglione ha
fatto discutere anche all’estero, saldandosi,
più per il momento storico che per reali comunanze,
con il dibattito sulla possibilità o meno di
includere la religione fra i valori fondamentali dell’Unione.
Costituisce senz’altro un’evoluzione
positiva il fatto che il dibattito parlamentare tocchi
i grandi temi della libertà di pensiero, dei
valori religiosi, ed esplori i confini della correttezza
politica. Ma la drammatizzazione dello scontro evoca
un’idea di Europa monolitica ed intransigente,
che non risponde alla sua realtà e al suo progetto,
che è di pluralismo e tolleranza.
L’intera vicenda è stata e continua
ad essere banalizzata. Da un lato c’è
chi vede Buttiglione trasfigurarsi in martire cristiano,
strega cacciata, Giovanna d’Arco della libertà
di pensiero e di religione. Dall’altro vi è
chi lo dipinge come (lui) cacciatore di streghe e
peccatori, epigono di un pensiero fondamentalista
ultracattolico e arcicuriale, dunque di per sé
incompatibile con una visione laica del potere e con
i valori dell’Unione europea.
Ma, a dire il vero, se si analizzano alla lettera
le parole dette sia da Buttiglione sia dai membri
del PE, nessuna delle due opposte visioni riesce di
per sé a dare una spiegazione pienamente convincente
della dinamica dei fatti. Per capire come e perché
certi comportamenti abbiano potuto provocare una vera
e propria crisi istituzionale nell’Unione, è
necessario spostare il punto di osservazione, esaminando
non “Buttiglione nel caso PE”, ma piuttosto
“il PE nel caso Buttiglione”.
Il Parlamento non è stato infatti lo sfondo
della vicenda, ma il suo attore principale.
E in quest’ottica sorgono una serie di quesiti.
Perché per la prima volta dalla sua storia
il Parlamento europeo ha minacciato di votare la sfiducia
delle Commissione se il suo Presidente non avesse
apportato delle modifiche alla squadra? Perché
un giudizio così severo su alcuni commissari?
Perché, pur avendo dato un giudizio negativo
su quattro commissari, il PE si è subito accontentato
di vederne sostituiti solo due?
Per comprendere quel che è successo, bisogna
ripercorrere brevemente la storia del Parlamento europeo.
Al momento della sua creazione, nei Trattati originari,
era un’istituzione simbolica, dotata di poteri
meno che simbolici. Un’Assemblea delle assemblee,
eletta non direttamente dai cittadini, ma dai Parlamenti
nazionali, che il Consiglio doveva consultare prima
di emanare un atto comunitario, ma il cui parere poteva
tranquillamente disattendere. Dal momento in cui cominciò
ad essere eletto a suffragio universale, forte della
sua accresciuta legittimazione politica, il Parlamento
europeo ha ingaggiato una battaglia, che non si è
più arrestata, per ampliare i propri poteri.
Sventolando la bandiera del “deficit democratico”,
Il PE è riuscito, ad ogni revisione dei trattati
istitutivi, ad entrare sempre più incisivamente
nelle procedure decisionali. L’Atto unico gli
attribuì un ruolo importante, ma non ancora
decisivo, con la procedura di cooperazione; il Trattato
di Maastricht introdusse la codecisione (procedura
che ne faceva un vero e proprio colegislatore paritario
rispetto al Consiglio dei ministri), la cui portata
è stata poi estesa ad un numero crescente di
materie dai Trattati di Amsterdam e di Nizza. Parallelamente
sono cresciuti anche i suoi poteri di controllo sulle
altre istituzioni: gli è stato riconosciuto
il potere di chiedere alla Corte di Giustizia l’annullamento
degli atti della Commissione o del Consiglio, e si
è creato il meccanismo della “doppia
fiducia”, con cui deve approvare prima il Presidente
della Commissione (designato dai capi di Stato e di
Governo) e poi la Commissione nel suo insieme (i cui
membri sono designati dagli stessi capi di Stato in
accordo con il Presidente, che le funzioni da attribuire
a ciascun Commissario).
Va detto che, sino ad un certo momento, all’interno
del triangolo decisionale dell’Unione (formato
da Commissione, Consiglio dei ministri e Parlamento)
vi era una naturale “alleanza” fra Commissione
e Parlamento, basato su un approccio “comunitario”
e sovranazionale rispetto a quello più intergovernativo
del Consiglio. Soprattutto davanti alla Corte di Giustizia,
la Commissione fu un alleato fidato, che si fece carico
degli interessi del Parlamento quando esso, inizialmente,
non aveva la legittimazione per agire in giudizio.
Ma progressivamente, con l’aumento dei propri
poteri, il Parlamento ha avuto sempre meno bisogno
del tradizionale alleato e si è reso conto
che proprio il controllo sulla Commissione diventava
la nuova occasione per accrescere ulteriormente il
proprio peso.
La prima prova di forza si è avuta con la
Commissione Santer (alla fine del cui mandato si verificarono
attriti con il Parlamento che la portarono a dimettersi
in blocco con alcuni mesi di anticipo rispetto alla
naturale scadenza). Il clima era ormai cambiato e,
anche se non vi sono state crisi, il rapporto con
la Commissione Prodi è stato improntato a una
vigilanza stretta e severa, così come si è
via via accresciuta l’indipendenza del Parlamento
nei confronti dei Governi degli Stati membri. Il Parlamento
europeo sta coltivando una sua fierezza istituzionale
e una memoria storica che non si cancellano, ma anzi
si rafforzano, ad ogni successiva elezione.
Il momento dell’approvazione della Commissione
è per il Parlamento un’occasione cruciale,
in cui può innanzitutto esercitare il suo potere
nei confronti dei Governi degli Stati membri, i quali
necessitano del suo consenso per nominare la Commissione.
Ma soprattutto costituisce il momento dell’imprinting
della Commissione, quello in cui il Parlamento rivendica
una fedeltà a sé che deve essere pari,
ma anche superiore, a quella che la Commissione mostra
nei confronti dei Governi. Non si deve dimenticare
peraltro che, pur essendo la Commissione inizialmente
designata dai Governi nel Consiglio europeo, è
solo il Parlamento che può obbligarla a dimettersi
nel corso del suo mandato. Pur tenendo conto delle
sue divisioni interne e della necessità di
contemperare diverse visioni, il Parlamento rivendica
il diritto ad una Commissione in cui possa rispecchiarsi.
In questo quadro era abbastanza evidente che l’approvazione
della Commissione Barroso, qualunque fosse stata la
sua composizione, non sarebbe stata né un inchino
a decisioni già prese dai Governi, né
una mera formalità. Il Parlamento si apprestava
a trasformare un controllo, che era stato sino ad
allora formale, in un controllo effettivo e di merito.
L’approvazione dello stesso Barroso era stata
un atto obbligato, per sostanziale mancanza di concorrenti,
ma non era stata esente da recriminazioni: il Presidente
della Commissione suscitava in ampi settori del Parlamento
diffidenza per il suo troppo acceso atlantismo (aveva
firmato la lettera degli Otto), per il suo tiepido
europeismo, ma soprattutto per il timore di una sua
scarsa autonomia rispetto ai Governi e dunque al Consiglio.
E pur avallandone la nomina con un voto ampiamente
positivo, il Parlamento si riservava di esercitare
un controllo severo sulla squadra che egli avrebbe
proposto.
Questa era dunque la situazione che la squadra di
Barroso avrebbe dovuto affrontare,una situazione che
non doveva essere sottovalutata e che imponeva cautela.
La reazione compatta e furente dell’istituzione
alle esternazioni berlusconiane nel caso Schulz avrebbero
dovuto mettere in guardia i politici nazionali (tanto
più in quanto aspiranti commissari) sulla facile
infiammabilità del dibattito in seno al Parlamento
europeo.
Se dunque una trappola era stata tesa non era ad
personam, ma contro tutta l’istituzione,
che è stata colpita là dove ha prestato
il fianco. Ribaditi i suoi poteri ed ottenuta soddisfazione
in via di principio, il Parlamento (per il momento)
si ritira vittorioso dal campo di battaglia, pronto
a dimostrarsi condiscendente anche se non tutti i
commissari criticati sono stati sostituiti.
La vera battaglia si è giocata non sul terreno
dei valori (questi ultimi sono stati solo le armi),
ma su quello della crescita della democrazia in Europa.
Lo stesso Buttiglione, forse, se avesse conosciuto
più a fondo la situazione, non sarebbe caduto
nella trappola istituzionale. Egli è vittima
non dei propri valori, ma di uno scontro di poteri
fra istituzioni, cui ha improvvidamente offerto il
casus belli più eclatante.
L’autrice è ordinario di Diritto
dell’Unione europea, Università di Bologna
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