267 - 11.12.04


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Affaire Buttiglione, ovvero:
come cresce la democrazia europea
Lucia Serena Rossi

La bocciatura della candidatura di Rocco Buttiglione da parte delle Commissioni del Parlamento europeo e la sua sostituzione nella squadra di Barroso sono state analizzate molto più sotto il profilo delle idee e del comportamento dell’aspirante Commissario che non sotto quello delle implicazioni (e delle cause) istituzionali connesse al caso. Implicazioni che sono rilevanti e aiuterebbero a comprendere meglio la vicenda (ed anche a sdrammatizzarla).

Se in Italia, il polverone sollevato dal caso è particolarmente denso (data la facile strumentalizzazione, in un senso o nell’altro, a fini di politica interna), l’affaire Buttiglione ha fatto discutere anche all’estero, saldandosi, più per il momento storico che per reali comunanze, con il dibattito sulla possibilità o meno di includere la religione fra i valori fondamentali dell’Unione.

Costituisce senz’altro un’evoluzione positiva il fatto che il dibattito parlamentare tocchi i grandi temi della libertà di pensiero, dei valori religiosi, ed esplori i confini della correttezza politica. Ma la drammatizzazione dello scontro evoca un’idea di Europa monolitica ed intransigente, che non risponde alla sua realtà e al suo progetto, che è di pluralismo e tolleranza.

L’intera vicenda è stata e continua ad essere banalizzata. Da un lato c’è chi vede Buttiglione trasfigurarsi in martire cristiano, strega cacciata, Giovanna d’Arco della libertà di pensiero e di religione. Dall’altro vi è chi lo dipinge come (lui) cacciatore di streghe e peccatori, epigono di un pensiero fondamentalista ultracattolico e arcicuriale, dunque di per sé incompatibile con una visione laica del potere e con i valori dell’Unione europea.

Ma, a dire il vero, se si analizzano alla lettera le parole dette sia da Buttiglione sia dai membri del PE, nessuna delle due opposte visioni riesce di per sé a dare una spiegazione pienamente convincente della dinamica dei fatti. Per capire come e perché certi comportamenti abbiano potuto provocare una vera e propria crisi istituzionale nell’Unione, è necessario spostare il punto di osservazione, esaminando non “Buttiglione nel caso PE”, ma piuttosto “il PE nel caso Buttiglione”. Il Parlamento non è stato infatti lo sfondo della vicenda, ma il suo attore principale.

E in quest’ottica sorgono una serie di quesiti. Perché per la prima volta dalla sua storia il Parlamento europeo ha minacciato di votare la sfiducia delle Commissione se il suo Presidente non avesse apportato delle modifiche alla squadra? Perché un giudizio così severo su alcuni commissari? Perché, pur avendo dato un giudizio negativo su quattro commissari, il PE si è subito accontentato di vederne sostituiti solo due?

Per comprendere quel che è successo, bisogna ripercorrere brevemente la storia del Parlamento europeo. Al momento della sua creazione, nei Trattati originari, era un’istituzione simbolica, dotata di poteri meno che simbolici. Un’Assemblea delle assemblee, eletta non direttamente dai cittadini, ma dai Parlamenti nazionali, che il Consiglio doveva consultare prima di emanare un atto comunitario, ma il cui parere poteva tranquillamente disattendere. Dal momento in cui cominciò ad essere eletto a suffragio universale, forte della sua accresciuta legittimazione politica, il Parlamento europeo ha ingaggiato una battaglia, che non si è più arrestata, per ampliare i propri poteri.

Sventolando la bandiera del “deficit democratico”, Il PE è riuscito, ad ogni revisione dei trattati istitutivi, ad entrare sempre più incisivamente nelle procedure decisionali. L’Atto unico gli attribuì un ruolo importante, ma non ancora decisivo, con la procedura di cooperazione; il Trattato di Maastricht introdusse la codecisione (procedura che ne faceva un vero e proprio colegislatore paritario rispetto al Consiglio dei ministri), la cui portata è stata poi estesa ad un numero crescente di materie dai Trattati di Amsterdam e di Nizza. Parallelamente sono cresciuti anche i suoi poteri di controllo sulle altre istituzioni: gli è stato riconosciuto il potere di chiedere alla Corte di Giustizia l’annullamento degli atti della Commissione o del Consiglio, e si è creato il meccanismo della “doppia fiducia”, con cui deve approvare prima il Presidente della Commissione (designato dai capi di Stato e di Governo) e poi la Commissione nel suo insieme (i cui membri sono designati dagli stessi capi di Stato in accordo con il Presidente, che le funzioni da attribuire a ciascun Commissario).

Va detto che, sino ad un certo momento, all’interno del triangolo decisionale dell’Unione (formato da Commissione, Consiglio dei ministri e Parlamento) vi era una naturale “alleanza” fra Commissione e Parlamento, basato su un approccio “comunitario” e sovranazionale rispetto a quello più intergovernativo del Consiglio. Soprattutto davanti alla Corte di Giustizia, la Commissione fu un alleato fidato, che si fece carico degli interessi del Parlamento quando esso, inizialmente, non aveva la legittimazione per agire in giudizio.
Ma progressivamente, con l’aumento dei propri poteri, il Parlamento ha avuto sempre meno bisogno del tradizionale alleato e si è reso conto che proprio il controllo sulla Commissione diventava la nuova occasione per accrescere ulteriormente il proprio peso.

La prima prova di forza si è avuta con la Commissione Santer (alla fine del cui mandato si verificarono attriti con il Parlamento che la portarono a dimettersi in blocco con alcuni mesi di anticipo rispetto alla naturale scadenza). Il clima era ormai cambiato e, anche se non vi sono state crisi, il rapporto con la Commissione Prodi è stato improntato a una vigilanza stretta e severa, così come si è via via accresciuta l’indipendenza del Parlamento nei confronti dei Governi degli Stati membri. Il Parlamento europeo sta coltivando una sua fierezza istituzionale e una memoria storica che non si cancellano, ma anzi si rafforzano, ad ogni successiva elezione.

Il momento dell’approvazione della Commissione è per il Parlamento un’occasione cruciale, in cui può innanzitutto esercitare il suo potere nei confronti dei Governi degli Stati membri, i quali necessitano del suo consenso per nominare la Commissione. Ma soprattutto costituisce il momento dell’imprinting della Commissione, quello in cui il Parlamento rivendica una fedeltà a sé che deve essere pari, ma anche superiore, a quella che la Commissione mostra nei confronti dei Governi. Non si deve dimenticare peraltro che, pur essendo la Commissione inizialmente designata dai Governi nel Consiglio europeo, è solo il Parlamento che può obbligarla a dimettersi nel corso del suo mandato. Pur tenendo conto delle sue divisioni interne e della necessità di contemperare diverse visioni, il Parlamento rivendica il diritto ad una Commissione in cui possa rispecchiarsi.

In questo quadro era abbastanza evidente che l’approvazione della Commissione Barroso, qualunque fosse stata la sua composizione, non sarebbe stata né un inchino a decisioni già prese dai Governi, né una mera formalità. Il Parlamento si apprestava a trasformare un controllo, che era stato sino ad allora formale, in un controllo effettivo e di merito.
L’approvazione dello stesso Barroso era stata un atto obbligato, per sostanziale mancanza di concorrenti, ma non era stata esente da recriminazioni: il Presidente della Commissione suscitava in ampi settori del Parlamento diffidenza per il suo troppo acceso atlantismo (aveva firmato la lettera degli Otto), per il suo tiepido europeismo, ma soprattutto per il timore di una sua scarsa autonomia rispetto ai Governi e dunque al Consiglio. E pur avallandone la nomina con un voto ampiamente positivo, il Parlamento si riservava di esercitare un controllo severo sulla squadra che egli avrebbe proposto.

Questa era dunque la situazione che la squadra di Barroso avrebbe dovuto affrontare,una situazione che non doveva essere sottovalutata e che imponeva cautela. La reazione compatta e furente dell’istituzione alle esternazioni berlusconiane nel caso Schulz avrebbero dovuto mettere in guardia i politici nazionali (tanto più in quanto aspiranti commissari) sulla facile infiammabilità del dibattito in seno al Parlamento europeo.

Se dunque una trappola era stata tesa non era ad personam, ma contro tutta l’istituzione, che è stata colpita là dove ha prestato il fianco. Ribaditi i suoi poteri ed ottenuta soddisfazione in via di principio, il Parlamento (per il momento) si ritira vittorioso dal campo di battaglia, pronto a dimostrarsi condiscendente anche se non tutti i commissari criticati sono stati sostituiti.

La vera battaglia si è giocata non sul terreno dei valori (questi ultimi sono stati solo le armi), ma su quello della crescita della democrazia in Europa. Lo stesso Buttiglione, forse, se avesse conosciuto più a fondo la situazione, non sarebbe caduto nella trappola istituzionale. Egli è vittima non dei propri valori, ma di uno scontro di poteri fra istituzioni, cui ha improvvidamente offerto il casus belli più eclatante.

L’autrice è ordinario di Diritto dell’Unione europea, Università di Bologna

 

 

 

 

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