Roma. Chissà quanti giornalisti
c’erano a Philadelphia, il 17 settembre 1787,
quando George Washington e James Madison firmarono la
Costituzione americana. Quando il 29 ottobre 2004, a
Roma, l’Europa firma la sua, i cronisti accreditati
sono 1500. Sono chiusi nel ghetto del centro stampa
di via dei Cerchi, e il loro entusiasmo è pressoché
nullo. L’unico guizzo della giornata è
quando Silvio Berlusconi appare sullo schermo. I giornalisti
italiani hanno sbadigliato tutta la mattina. Mentre
gli inviati stranieri siedono frenetici e laboriosi
davanti ai laptop, i nostri conquistano i divani della
saletta. Da lì, in un sottoghetto tutto italiano,
assistono alla cerimonia.
Sarà che vivere il grande Evento dal ghetto
dei cronisti è quasi come seguirlo da casa,
e che i Fischer, gli Chirac, gli Zapatero, i Blair
(ognuno inserisca i suoi preferiti, non c’è
problema), sono così vicini, a un centinaio
di metri in linea d’aria, ma in realtà
così lontani. Sarà che ora i referendum
nazionali potrebbero vanificare tutto, o che il testo
nessuno l’ha letto perché “è
illeggibile”. Sarà per tutto questo che
la mattina passa via con calma eccessiva, e non c’è
la febbre della grande svolta della nostra storia
continentale. Nessuna emozione, ad esempio, per l’alveare
delle centinaia di cronisti venuti da tutto il mondo:
seduti ai computer, sembrano una redazione unica,
impressionante, ma quasi nessuno interagisce con gli
altri.
Passa inosservata la giornalista di Radio Romania,
un casco seducente di capelli neri, giacca beige e
jeans a vita bassa. Nessuno si fila nemmeno la provocante
inviata di Tele Bulgaria, che sfarfalleggia esuberante
e preoccupata chiedendo l’aiuto dei tecnici
informatici. L’inviato di El Pais parla al telefono
de “el caso Buttiglione”. I cronisti orientali,
fedeli allo stereotipo, spolpastrellano diligenti
sulle tastiere, e seguono la cerimonia collegati a
Internet. Gli spagnoli con gli spagnoli, i francesi
con i francesi, e così via.
Tra i nostri, Concita de Gregorio di la Repubblica
è la più disciplinata: seduta sul bracciolo
del divano annota svogliata sul taccuino (“Ma
Barroso ha concluso in francese o in portoghese?”).
Si guarda intorno distratta e scruta le colleghe.
“Ma queste sedie pacchiane, di chi è
il merito, di Zeffirelli?”, polemizza la cronista
de l’Unità. Maurizio Caprara, del Corriere
della Sera, viene intervistato da una rete araba,
e il suo inglese è all’altezza della
situazione. “Scemo e più scemo”,
commenta un altro quando compaiono in video Ciampi
e Prodi. In un prefabbricato a parte stanno le televisioni.
La Sattanino, per il Tg2, sgambetta solitaria e seriosa,
mentre quelli della tedesca Zdf preparano la diretta.
C’è un sussulto quando si sparge la
voce che le hostess stanno consegnando le buste-ricordo
per i cronisti: 4 bicchieri con il simbolo dell’Europa,
una penna, un’agendina e una cravatta kitsch
con la E dell’euro. Qualche operatore, cui non
spetterebbe la busta, prova a fare il furbo e intimorisce
la hostess. Qualche altro ripassa al bancone e prova
a chiederne una seconda (fregato, perché ogni
consegna viene registrata elettronicamente tramite
il pass). (“T’a sei presa, a busta?”,
“Io me ne so’ ppreso ddue”, “Io,
quando torno a casa, mi’ moje me caccia de casa,
avemo buttato propio adesso tutti i coccetti dei viaggi”).
C’è un altro sussulto al momento
del buffet, faraonico. Qualcuno presagisce e profetizza:
“E’ meglio che vi sbrigate, tra dieci
minuti la situazione sarà incontrollabile”.
Ma parmigiana, rigatoni, salsicce, panna cotta, vino
e quant'altro non bastano a risollevare gli animi.
C’è fame, ma non c’è ressa.
C’è fila, ma non c’è, neanche
lì, entusiasmo.
Svogliati si guarda, dal terrazzino che dà
su via Petroselli, una Roma blindata e insolitamente
deserta. Senti che la sostanza dell’evento è
lontana, che le voci e i tic dei protagonisti rimangono
sullo schermo, e ti abbandoni anche tu sul divano,
nel sottoghetto. Si fa uno strano silenzio quando
arriva il momento della firma italiana. Non è
solo curiosità, come quella che aveva accompagnato
il passaggio dei volti stranieri. C’è
forse un’emozione mista a una strana vergogna,
la coscienza che Silvio Berlusconi sia la persona
meno adatta a rappresentarci in un momento così
alto della nostra storia, punto d’arrivo di
secoli di guerre e viaggi, di cultura e commercio,
di eroi e d’errori.
Il busto del premier, impettito e eccezionalmente
serioso davanti al librone che fa la Storia, quando
invade lo schermo strappa il paragone con Mussolini
anche a chi alla teoria del “regime” non
crede. Il paradosso di uno dei giorni più importanti
dell’Europa è questo: che a ospitare
questa festa sia il primo ministro italiano meno europeista
degli ultimi cinquant’anni.
Quando Silvio Berlusconi firma, e traccia a forma
di funghetto l’iniziale del suo cognome, i giornalisti
italiani si ammutoliscono e fanno due passi in avanti,
cercano un varco tra i colleghi e si assiepano davanti
allo schermo, ridacchiando ostentatamente, all’unisono.
“E’ un grande!”, urla uno, solitario
dal fondo, ma sfugge se voglia difenderlo o se aggiunga
derisione a derisione. Ma come può, chi crede
in questo Evento, farselo rovinare dal fatto che la
firma dell’Italia porti quel funghetto? Philadelphia
1787 – Roma 2004: il cronista europeista, stretto
tra mille pensieri, scuote la testa, e, quando scatta
nella sala l’applauso liberatorio, risolve il
conflitto interiore in un sorriso commosso.
Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti
da fare? Scriveteci il vostro punto di vista a
redazione@caffeeuropa.it