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“Il problema vero si chiama rappresentanza”
Luigi Bonanate con Mauro Buonocore

La storia cammina, gli equilibri internazionali cambiano e di conseguenza anche le istituzioni politiche hanno bisogno di ritocchi che le adattino ai tempi, le migliorino e le rendano capaci di dare risposte concrete al mondo contemporaneo. E l’Onu non fa eccezione.
Luigi Bonanate, esperto di relazioni diplomatiche e presidente del Corso di Laurea in Studi internazionali all’Università di Torino, mette l’accento su come la Nazioni Unite siano oggetto di alcuni luoghi comuni che faremo bene a spazzare via: “L’Onu è il riflesso dei rapporti di forza internazionali, anche se siamo abituati a pensare che sia una creatura autonoma e autosufficiente, è un’organizzazione che non ha affatto una sua soggettività sostanziale, ma è il prodotto dell’incontro di diplomatici, di rappresentanti ufficiali dei diversi paesi membri. Il fatto che sia onnicomprensiva, che vi appartengano praticamente tutti gli stati del mondo, non ne garantisce minimamente la democraticità. Se ad esempio c’è un conflitto tra Stati Uniti e Iraq non c’è nessuna ragione per cui l’Onu sia in grado di intervenire sedando questa crisi, perché tra i rappresentanti che la compongono ci sono diplomatici che fanno riferimento a posizioni americane e altri che invece sono molto vicini all’Iraq e ai rispettivi amici e alleati. Le Nazioni Unite quindi non sono che lo specchio della politica internazionale. Ciò non toglie che in futuro l’Onu possa acquistare un peso sempre crescente, ma per fare questo bisogna mettere mano alla sua struttura”.

Invece, concretamente, la riforma dell’Onu sta prendendo strade diverse.

Come dicevo si può partire dal Consiglio di sicurezza e dare avvio a una riforma che ha almeno due dimensioni diverse, il diritto di veto e il numero dei membri.
La storia dell’Onu ci ha insegnato che fino ad ora l’esercizio del diritto di veto è stato una sgradevole finzione giuridica e, fatta eccezione per le questioni coloniali di Francia e Gran Bretagna, si è tradotto in una prerogativa effettiva reale e concreta di due soli paesi, gli Usa e l’Urss; pochissimi sono stati i casi in cui Cina, Francia e Regno Unito abbiano potuto esercitarlo in piena autonomia.
Il diritto di veto è uno strumento che stabilisce una sorta di gerarchia mondiale, e non possiamo non renderci conto che ci troviamo di fronte a un clamoroso autogol antidemocratico: ammettere una gerarchia di potenza all’interno dell’Onu significa accogliere il principio per cui il paese più forte abbia il diritto a detenere più potere e di conseguenza più capacità decisionale, situazione questa che sembrerebbe assolutamente inaccettabile. Di conseguenza, l’unica soluzione parrebbe l’abolizione del diritto di veto.

Quanto al numero dei membri del Consiglio di sicurezza i problemi e le discussioni riguardano i seggi permanenti, visto che il numero dei membri a rotazione è già stato ampliato in passato.
L’idea che circola è quella di estendere il numero dei seggi permanenti utilizzando un criterio che si fondi su una rappresentanza continentale e geografica, per cui si assegnerebbe un posto al Giappone per l’Asia, al Brasile per l’America Latina, al Sudafrica per il continente africano e la Germania per l’Europa.
E’ una proposta che, se per un verso mira a far entrare nel Consiglio rappresentanti di zone geografiche che ne sono state tradizionalmente escluse, dall’altra non tiene conto che ciascun rappresentante dovrebbe farsi carico delle istanze del suo continente. Possiamo realisticamente immaginare che il Sudafrica possa rappresentare tutta l’Africa? Ovviamente no, per tutta una serie di ragioni culturali, storiche, politiche, antropologiche. E allora anche la rappresentanza continentale non è necessariamente indice di un’accresciuta democraticità.
Il problema vero riguarda la rappresentanza: a che livello stabiliamo che si ponga la rappresentanza politica?

Fra gli esempi da lei citati, la Germania è quello che più ci riguarda da vicino perché tocca la questione della possibilità che nel Consiglio di sicurezza un seggio permanente vada all’Unione europea.

Il caso tedesco, a mio avviso, sembra il più facile da risolvere, semplicemente perché ritengo assolutamente insensata e infondata la richiesta della Germania di avere un seggio permanente tutto per sé. Non parlo in modo polemico, italo-centrico o anti-tedesco; la Germania è un paese molto importante dell’Europa contemporanea, ma non ha nessuna ragione prevalente su quella degli altri membri dell’Ue ad avere un simile ruolo nell’Onu. O meglio, la richiesta tedesca ha un senso nella misura in cui sono beneficiarie di un posto permanente la Francia e la Gran Bretagna. L’unica e corretta soluzione sarebbe che queste ultime rinunciassero, la Germania non chiedesse un seggio proprio e l’Unione Europea possa così beneficiare di un posto di rilievo.

Ancora una volta gli interessi dei singoli stati entrano in contraddizione con le ambizioni dell’Unione a presentarsi come soggetto attivo nella politica internazionale. Francia, Regno Unito e Germania agiscono secondo aspirazioni individuali, mentre un grande sforzo del Trattato per la Costituzione è stato quello di individuare una figura di ministro degli esteri europeo che sappia essere portavoce dell’Ue nella politica mondiale. Viene da chiedersi: che cosa è l’Unione europea? Qual è la sua identità?

Questo rimane il grande quesito, una domanda rispetto alla quale, lo confesso, sono molto ottimista.
L’Ue è un unicum nella storia e nella teoria della politica mondiale, non è mai esistita alcuna creatura politica che le sia stata simile. L’Unione costruisce su se stessa, in modo incrementale, la sua nuova immagine del mondo e nei suoi cinquant’anni di vita ha fatto passi straordinari che ovviamente non sono completi né finiti. Dieci anni fa l’idea di una politica estera comune sarebbe stata ridicola, così come lo era l’idea di una cittadinanza europea, i passaggi sono tanti, straordinari e straordinariamente solidi perché non si è mai tornati indietro su nessuna decisione, si sono fatti miglioramenti sempre piccoli ma che sono sempre andati in avanti e questo è molto importante per una creatura artificiale come l’Ue.

La proposta di un seggio permanente per l’Ue nel Consiglio di sicurezza dell’Onu viene descritta in genere con due aggettivi: irrealistica o prematura. Lei quale sceglie?

Tra i due direi che è un’idea soltanto prematura. Il passaggio necessario sta nel riportare Francia e Gran Bretagna alla condizione di membri comuni, una necessità di cui anche i due paesi sono a conoscenza; la consapevolezza storica internazionale dei francesi e degli inglesi oggi non è quella delle grandi potenze, prova ne sia l’atteggiamento che ha il governo britannico verso gli Usa per capire che non si sente alla pari con una superpotenza. Quello che intendo dire è che la storia cammina, la Francia del ‘600 non è la Francia di oggi, l’importante è che questo non porti la Germania ad assumere posizioni individualistiche, bisognerebbe dire: lo scenario internazionale è cambiato, il nostro ruolo come singoli stati è cambiato, partecipiamo insieme al nuovo corso.

Di fronte alla possibilità che la Germania si veda riconosciuto un seggio permanente, molti si dicono d’accordo a patto che la rappresentanza tedesca lo gestisca in un'ottica europea, magari attraverso uno stretto coordinamento con Solana. Crede sia un’idea realizzabile?

Credo che questo sarebbe un vero pasticcio, è un “volere e non potere”. Perché mai dovrebbe essere la Germania a rappresentare l’Unione, ha forse una migliore tradizione internazionalistica rispetto agli altri membri? Ha una migliore capacità diplomatica che la porterebbe a parlare a nome dell’Unione in sede Onu? E perché, ad esempio, la Germania e non il Belgio che è la sede dell’Unione? Tutto ciò non ha senso: o è l’Unione europea che siede nel palazzo di vetro, oppure ciascuno vada all’Onu per conto suo.

 

 

 

 

 

 

 

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