Filippo Andreatta,
Alla ricerca dell’ordine mondiale.
L’Occidente di fronte alla guerra,
il Mulino, 2004, pagg. 160, euro10,50
Dopo il crollo del bipolarismo, il venir meno di
storici equilibri politici nel panorama mondiale e
il proliferare del terrorismo internazionale, le categorie
di unilateralismo e multilateralismo sono ancora sufficienti,
da sole, per regolare un sistema internazionale? E
quale deve essere la posizione dell’Occidente
- inteso non tanto in senso geografico quanto come
l’insieme delle società industriali e
post-industriali – in un panorama internazionale
che si presenta così confuso e complesso?
Da queste domande parte l’analisi di Filippo
Andreatta che, nel suo Alla ricerca dell’ordine
mondiale. L’Occidente di fronte alla guerra,
osserva
un mondo molto più eterogeneo e frammentato
di quanto non sia quello ipotizzato nei modelli finora
utilizzati per descrivere i sistemi internazionali.
Il semplicismo manicheo che vuole contrapposti neoconservatorismo
e visioni no global, dice Andreatta, non basta più:
è necessario un cambiamento, una terza via
anche nell’ordine delle relazioni internazionali.
L’ordine fondato sul bipolarismo, antecedente
alla fine della guerra fredda, ha lasciato il posto
ad un dis-ordine precario (“anarchico”
addirittura, per usare una definizione ricorrente
nel libro), dovuto alla mancanza di un governo mondiale
capace di una visione unitaria: con la fine della
guerra fredda l’Occidente non ha sempre mantenuto
quella visione unitaria necessaria e sono emerse quelle
tensioni che hanno impedito, e impediscono, un’azione
comune. Quale, dunque, la strada per uscire dal caos?
L’unilateralismo profondamente americano (l’orgoglio
nazionale democratico americano è un carattere
fondante e caratteristico della nazione-continente)
ed il multilateralismo tipicamente europeo (una tradizione
più antica della democrazia stessa che si è
sublimato nel processo di integrazione dei paesi europei)
mostrano la loro inadeguatezza: il delicato equilibrio
tra politica di concerto e concezione offensiva della
difesa collettiva, anche.
La concezione offensiva della difesa collettiva da
parte delle democrazie ha visto cadere il proprio
motivo di esistere, la grande minaccia sovietica,
e le democrazie tendono a coalizzarsi contro le non-democrazie
sviluppando una teoria binaria della politica internazionale:
in pace tra loro e in conflitto con le non-democrazie.
L’esportazione della democrazia diviene, quindi,
il mezzo privilegiato per il mantenimento della pace
ma - e questo il maggiore limite - la democrazia richiede
innanzi tutto il consenso di chi è autogovernato
e per questo non è una formula che si possa
imporre dall’alto. Non solo:”si potrebbe
generare una profezia che si auto-realizza nel senso
che le misure per proteggersi da una eventuale minaccia
potrebbero indurre quella minaccia a manifestarsi
concretamente”.
La politica di concerto invece, laddove la difesa
collettiva spinge le democrazie a contrapporsi alle
non-democrazie, si muove per cooptazione nel tentativo
di limitare la pericolosità degli stati non
democratici preferendo una via diplomatica, e non
duale, nella gestione delle relazioni internazionali.
Nel pregio sta anche il maggiore difetto e limite:
l’adattabilità e la flessibilità
della politica di concerto la vede anche vulnerabile
dal punto di vista etico - muoversi nell’ottica
del coinvolgimento di tutti gli stati/attori significa
inevitabilmente il venir meno di criteri di selezione
degli ultimi - ed esposta al rischio di una eccessiva
discrezionalità dei negoziati se non addirittura
all’inazione nel caso di mancato accordo tra
le potenze.
Dopo il 1989 e fino al 2001 questi due ordini, prosegue
Andreatta, sono rimasti compatibili: l’Onu (la
politica di concerto) ha implementato le risoluzioni
collettive con l’appoggio delle potenze democratiche
occidentali; queste hanno attuato una politica di
stabilizzazione con il consenso e la legittimazione
dell’Onu. Al processo di democratizzazione si
è cercato di contribuire dotandosi di un sistema
internazionale il più ordinato e cooperativo
possibile.
Questo fino al 2001.
L’11 settembre 2001, insieme alle torri gemelle,
sono crollate anche le premesse fondamentali per il
mantenimento di questo equilibrio: una grande potenza
non democratica si è contrapposta all’Occidente
mostrando le contraddizioni e i limiti della difesa
collettiva e del concerto e la percezione della minaccia
proveniente dai cosiddetti Stati canaglia
si è fatta insostenibile da parte della più
influente delle potenze, gli Stati Uniti, colpiti
nel vivo e sul proprio territorio come mai era accaduto
negli ultimi due secoli.
Quale allora, la strada da seguire per cercare di
costruire un nuovo ordine internazionale, quando i
modelli utilizzati finora hanno dimostrato la loro
inadeguatezza di fronte agli avvenimenti degli ultimi
anni? Qual è la terza via delle relazioni internazionali?
Un compromesso tra unilateralismo di stampo americano
e multilateralismo europeo, ci suggerisce Andreatta:
un nuovo ordine multilaterale che permetta di giovare
della natura flessibile e dinamica della tradizione
europea in fatto di politica estera e nel quale la
potenza americana svolga funzione di leadership piuttosto
che di egemonia; un nuovo ordine multilaterale dove
l’Onu possa rinascere a tutore della politica
internazionale, un luogo d’incontro che faccia
dell’autoritas la propria forza perché
“l’importanza dell’Onu oggi è
più internazionale, nel senso di garantire
il coinvolgimento dei principali attori, che sovranazionale,
nel senso di una capacità autonoma di intervento
oltre a quella degli stati membri”.
Utopico, naturalmente, aspettarsi di ritrovare un
equilibrio funzionale ed efficace in tempi brevi:
“anche in Europa, zona pacificata per eccellenza,
l’attuale fase è stata raggiunta dopo
processi di liberalizzazione e di democratizzazione
durati due secoli e dopo la violenza delle guerre
mondiali, che ha dimostrato ampiamente le potenzialità
distruttive della civiltà occidentale. I cambiamenti
sociali e di mentalità avvengono solo nel lungo
periodo, e anche nella sfera internazionale, pertanto,
il rafforzamento dell’ordine potrà avvenire
solo con pazienza, e, data la posta in gioco, con
molta prudenza”.
Prudenza, volontà (e capacità) di adeguare
i modelli ai cambiamenti dello scenario internazionale
e tanta pazienza: come dice il proverbio, in fondo,
la pazienza è la virtù dei forti.
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