Turchia o non Turchia? All’ordine del giorno della
politica europea c’è la domanda se l’Unione
debba arrivare a comprendere entro i suoi confini Ankara
e Istanbul, se la cosa sia giusta, opportuna, accettabile.
La questione è complicata, e controversa. Il
prossimo 6 ottobre la Commissione dovrà dire
se la Turchia è arrivata a rispettare i parametri
di democraticità indispensabili all’avvio
dei negoziati per l’adesione di un nuovo membro
all’Ue. Con tutta probabilità il parere
risulterà positivo e a dicembre dovrebbe avviarsi
il lungo iter che potrebbe condurre la Turchia a pieno
titolo nel club europeo. Ma se molti governi (fra cui
Gran Bretagna, Italia, Francia, Germania, Spagna) hanno
già dichiarato che il loro voto sarà favorevole,
non mancano voci che si dicono assolutamente contrarie
all’ipotesi di una Turchia pienamente europea,
come quelle dei commissari Bolkestein e Fischler, o
quella del cardinale Ratzinger. Le questioni in causa?
“L’ingresso potenziale o futuro della Turchia
nell’Unione è un tema che pone oggettivamente
degli interrogativi e soprattutto ne pone, in termini
generali, tre: la dimensioni della Turchia, l’identità
culturale dell’Ue e un terzo punto di natura geopolitica”.
Sono parole di Lapo Pistelli, eurodeputato del gruppo
dell'Alleanza dei Democratici e dei Liberali per l'Europa,
esperto di politica internazionale.
Onorevole Pistelli, vogliamo vedere nel dettaglio
questi punti?
I
punti principali, dicevo, sono tre. Il primo sta nel
fatto che la Turchia è un paese dalle grandi
dimensioni, quasi settanta milioni di nuovi potenziali
cittadini europei fanno di questa adesione una questione
che va analizzata con attenzione. In secondo luogo
più del novanta per cento di questi cittadini
sono di religione musulmana e questo non può
essere un dettaglio indifferente, soprattutto se pensiamo
al dibattito che ha caratterizzato la discussione
sul preambolo della Costituzione europea e sulle radici
cristiane dell’Europa, è un tema molto
importante che coinvolge l’identità culturale
dell’Unione.
Il terzo elemento in gioco è quello che ci
spinge a chiederci se la Turchia sia un paese geopoliticamente
europeo, se faccia parte del continente Europa; alcuni
argomentano che se la risposta a questa domanda è
positiva, allora potrebbe esserlo anche per Israele,
o per la Russia, o anche per la Tunisia e quindi,
piuttosto che di una membership piena sarebbe il caso
di parlare di accordi di vicinato, magari migliorando
quelli che già ci sono.
A questi punti oggettivi che animano il dibattito
io aggiungerei un quarto argomento. Oggi la Turchia
è una sorta di cuscinetto che si pone tra l’Europa
e il grande Medio Oriente; l’adesione turca
metterebbe l’Unione a diretto e strettissimo
contatto con l’Iraq, l’Iran, l’Afghanistan,
e allora dobbiamo chiederci: è conveniente
da un punto di vista geopolitico?
Qual è la sua risposta a queste domande?
Ogni tipo di valutazione deve necessariamente attenersi
ai criteri di Copenaghen, prima di ogni altra cosa
bisogna quindi verificare se la Turchia soddisfa ora
quei criteri che furono fissati come condizioni minime
da raggiungere per gli aspiranti membri. Fino a qualche
tempo fa il paese turco non poteva nemmeno iniziare
i negoziati di adesione perché non rispondeva
ai requisiti indispensabili richiesti dalla Ue: aveva
in vigore la pena di morte, adottava un sistema di
trattamento delle minoranze (dimostrato nelle vicende
curde) assolutamente non corrispondente alle esigenze
di Copenaghen e manifestava un insufficiente livello
di garanzie democratiche in modo particolare nella
gestione delle prigioni e nell’amministrazione
della giustizia.
Recentemente la Turchia ha fatto dei grandi passi
avanti in questi ambiti, però aspettiamo la
prima settimana di ottobre, quando la Commissione
esprimerà il suo primo parere, poi, entro la
fine dell’anno, sarà il Consiglio a prendere
una decisione che, è bene sottolinearlo, non
riguarda l’adesione o meno della Turchia all’Unione,
ma l’avvio o meno di un negoziato di adesione
che, in alcuni paesi, è durato fino a dieci,
a volte quindici anni.
Certo non possiamo in questo momento avere la posizione,
che “Le Monde” ha recentemente attribuito
a un ministro francese, di chi propone un lungo negoziato
senza adesione. Non possiamo avere con la Turchia
un comportamento diverso da quello avuto con gli altri
paesi che recentemente sono diventati membri dell’Unione
o hanno iniziato il processo di adesione, non possiamo
aggiungere criteri a quelli fissati a Copenaghen.
Se il negoziato avrà inizio, lungo o breve
che sia, dovrà essere portato a termine. E’
evidente, però, che il giorno in cui la Turchia
entrasse nell’Unione, questa dovrà aver
fatto dei notevoli passi avanti dalla situazione che
vive ora, per poter digerire l’impatto dell’adesione
turca.
Quali sono questi passi in avanti che l’Unione
è chiamata a compiere?
Riguardano la democrazia politica. Ci stiamo affaccendando,
oggi, dietro l’approvazione definitiva della
Trattato Costituzione. E’ certamente un passo
decisivo, ma credo che appena sarà terminato
il calvario delle ratifiche, dovremo tenere il dibattito
su come cambiare il testo approvato perché
questo senza dubbio non risponde a una domanda fondamentale:
L’Unione europea vuole essere soltanto una potenza
economica o anche una potenza politica? Il livello
di integrazione di questioni come la politica estera
e la sicurezza è ancora insoddisfacente.
Uno dei temi più controversi e dibattuti
che anima la discussione intorno all’eventuale
adesione della Turchia riguarda le radici culturali
dell’Europa e quello che alcuni vedono come
un pericolo di islamizzazione del continente. Non
crede che l’apertura di un negoziato con un
paese che segna il confine con il mondo musulmano
e con il mondo arabo sia un gesto simbolico importante,
un’apertura verso l’integrazione delle
culture, una risposta allo scontro di civiltà?
Sì, credo di sì. La radice culturale
della Turchia è un argomento a doppia lama
nel dibattito sull’allargamento. Per un verso
ci si può accontentare di dire che l’ingresso
nell’Unione di settantamilioni di cittadini
turchi di cui moltissimi islamici può avere
un impatto fortissimo, la cui portata è tutta
da valutare. D’altra parte, però, negli
ultimi tre anni abbiamo insistito molto sulla necessità
di cercare un dialogo con l’Islam moderato.
Allora un paese musulmano ha la certezza di rimanere
sul versante democratico del dialogo culturale se
gli si offre una prospettiva, mentre, se non gli si
concede una sponda, si rischia di cacciarlo nelle
mani di cattivi maestri.
Inoltre non si può nascondere il fatto che
tanta parte della storia europea si è sviluppata
nel dialogo e nel contatto con l’Islam, molta
cultura occidentale è imbevuta di riferimenti
islamici. Io credo che l’Europa arroccarsi su
posizioni prestabilite, ma allo stesso tempo mi accorgo
che non è un’idea peregrina quella di
chi si chiede se l’Europa ha un confine naturale
oppure basta avere alcuni requisiti per farne parte.
La prospettiva di entrare in Europa è
stata per la Turchia un catalizzatore di riforme.
C’è chi parla di una “rivoluzione
silenziosa” per descrivere i progressi nella
direzione delle libertà e dello stato di diritto
compiuti dal governo di Ankara da quando ha preso
corpo l’ipotesi di poter far parte, un giorno,
dell’Ue. Possiamo considerare l’allargamento
dell’Ue come uno strumento per far crescere
le democrazia?
Assolutamente sì. Dopo la caduta del muro di
Berlino l’Europa ha offerto ai paesi che erano
appartenuti al blocco sovietico una prospettiva, anche
se lunga, fatta d’integrazione politica, economica
e benessere democratico. E’ stata l’unica
vera grande operazione geopolitica degli ultimi dieci
anni. Quando, invece, l’Unione non è
stata in grado di offrire risposte di questo tipo
a situazioni di crisi, ci sono state le guerre, come
ad esempio nei Balcani. Non c’è dubbio
che oggi l’Ue sia il più grande modello
di esportazione pacifica di democrazia e lo dimostra,
tra l’altro, il fatto che non solo la Turchia,
ma anche i paesi che oggi fanno da cuscinetto tra
l’Unione e la Russia, come Ucraina, Bielorussia,
Moldavia e Georgia, dimostrino un’aspirazione
a stare legati all’Europa, che rappresenta una
realtà che ha garantito fino ad oggi più
di mezzo secolo di pace, di benessere economico, di
prosperità, di integrazione. In giro per il
mondo, dal Canada all’Argentina, dall’Indonesia
alla Nuova Zelanda, si sente raccontare e invocare
la nostra esperienza come il modello-faro possibile.
Il bisogno di avere rapporti forti con l’Unione
europea si trasforma in un catalizzatore di riforme
straordinario per ogni sistema che vi si accosti.
Questo è il motivo per cui dovremmo essere
più orgogliosi, soprattutto in questi tempi
di guerra, nel rivendicare il modello europeo rispetto
a quelli che pensano che la democrazia si esporti
sulle punte di una baionetta.
Nel suo libro Semestre nero, scritto insieme
a Guelfo Fiore (Fazi editore), lei critica la politica
estera di Berlusconi sottolineandone l’abbandono
di sobrietà. Con definizioni come “politica
delle pacche sulle spalle” o “alla Zelig”
lei addita i modi del nostro premier che sembra essere
attento a rompere i cerimoniali degli incontri internazionali
ma che produce solo risultati goffi e inconcludenti.
Come giudica l’atteggiamento del governo italiano
riguardo all’adesione della Turchia all’Unione
europea?
Lo giudico sulla stessa falsa riga che ha caratterizzato
la politica estera dell’attuale governo. Uno
dei tanti limiti della politica di Berlusconi e della
sua attitudine alla personalizzazione è quello
di sostituire i rapporti politici con i rapporti personali.
Un criterio che si può tradurre così:
il capo del governo italiano è amico del premier
turco Erdogan ed è testimone di nozze del figlio,
quindi la Turchia deve entrare nell’Unione.
Questa è una vera idiozia in termini politici.
Io non nego che avere rapporti tra leader sia importante,
ma sovrapporre rapporti personali a quelli politici
diventa un potenziale boomerang. Davanti a un dibattito
che ha tutti i chiaroscuri che abbiamo accennato in
questa conversazione, immaginare che la Turchia debba
entrare a far parte dell’Unione per il solo
fatto che siamo amici di Erdogan è una risposta
semplificata, sostenuta per altro da Berlusconi che
nella sua coalizione convive con la Lega, una forza
politica che mi pare tutt’altro che estranea
dal fare razzismo a buon mercato sull’Islam.
Se noi riuscissimo anche in questo caso ad avere un
atteggiamento più sobrio, cioè competente
ed attento alle conseguenze che la questione dell’adesione
della Turchia all’Ue mette in campo, probabilmente
aiuteremo anche la nostra opinione pubblica a vivere
con maggior consapevolezza quello che invece si appresta
ad essere un passaggio molto delicato.
Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti
da fare? Scriveteci il vostro punto di vista a
redazione@caffeeuropa.it