262 - 02.10.04


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Chiaroscuri di un dibattito controverso
Lapo Pistelli con Mauro Buonocore

Turchia o non Turchia? All’ordine del giorno della politica europea c’è la domanda se l’Unione debba arrivare a comprendere entro i suoi confini Ankara e Istanbul, se la cosa sia giusta, opportuna, accettabile. La questione è complicata, e controversa. Il prossimo 6 ottobre la Commissione dovrà dire se la Turchia è arrivata a rispettare i parametri di democraticità indispensabili all’avvio dei negoziati per l’adesione di un nuovo membro all’Ue. Con tutta probabilità il parere risulterà positivo e a dicembre dovrebbe avviarsi il lungo iter che potrebbe condurre la Turchia a pieno titolo nel club europeo. Ma se molti governi (fra cui Gran Bretagna, Italia, Francia, Germania, Spagna) hanno già dichiarato che il loro voto sarà favorevole, non mancano voci che si dicono assolutamente contrarie all’ipotesi di una Turchia pienamente europea, come quelle dei commissari Bolkestein e Fischler, o quella del cardinale Ratzinger. Le questioni in causa? “L’ingresso potenziale o futuro della Turchia nell’Unione è un tema che pone oggettivamente degli interrogativi e soprattutto ne pone, in termini generali, tre: la dimensioni della Turchia, l’identità culturale dell’Ue e un terzo punto di natura geopolitica”. Sono parole di Lapo Pistelli, eurodeputato del gruppo dell'Alleanza dei Democratici e dei Liberali per l'Europa, esperto di politica internazionale.

Onorevole Pistelli, vogliamo vedere nel dettaglio questi punti?

I punti principali, dicevo, sono tre. Il primo sta nel fatto che la Turchia è un paese dalle grandi dimensioni, quasi settanta milioni di nuovi potenziali cittadini europei fanno di questa adesione una questione che va analizzata con attenzione. In secondo luogo più del novanta per cento di questi cittadini sono di religione musulmana e questo non può essere un dettaglio indifferente, soprattutto se pensiamo al dibattito che ha caratterizzato la discussione sul preambolo della Costituzione europea e sulle radici cristiane dell’Europa, è un tema molto importante che coinvolge l’identità culturale dell’Unione.
Il terzo elemento in gioco è quello che ci spinge a chiederci se la Turchia sia un paese geopoliticamente europeo, se faccia parte del continente Europa; alcuni argomentano che se la risposta a questa domanda è positiva, allora potrebbe esserlo anche per Israele, o per la Russia, o anche per la Tunisia e quindi, piuttosto che di una membership piena sarebbe il caso di parlare di accordi di vicinato, magari migliorando quelli che già ci sono.
A questi punti oggettivi che animano il dibattito io aggiungerei un quarto argomento. Oggi la Turchia è una sorta di cuscinetto che si pone tra l’Europa e il grande Medio Oriente; l’adesione turca metterebbe l’Unione a diretto e strettissimo contatto con l’Iraq, l’Iran, l’Afghanistan, e allora dobbiamo chiederci: è conveniente da un punto di vista geopolitico?

Qual è la sua risposta a queste domande?

Ogni tipo di valutazione deve necessariamente attenersi ai criteri di Copenaghen, prima di ogni altra cosa bisogna quindi verificare se la Turchia soddisfa ora quei criteri che furono fissati come condizioni minime da raggiungere per gli aspiranti membri. Fino a qualche tempo fa il paese turco non poteva nemmeno iniziare i negoziati di adesione perché non rispondeva ai requisiti indispensabili richiesti dalla Ue: aveva in vigore la pena di morte, adottava un sistema di trattamento delle minoranze (dimostrato nelle vicende curde) assolutamente non corrispondente alle esigenze di Copenaghen e manifestava un insufficiente livello di garanzie democratiche in modo particolare nella gestione delle prigioni e nell’amministrazione della giustizia.
Recentemente la Turchia ha fatto dei grandi passi avanti in questi ambiti, però aspettiamo la prima settimana di ottobre, quando la Commissione esprimerà il suo primo parere, poi, entro la fine dell’anno, sarà il Consiglio a prendere una decisione che, è bene sottolinearlo, non riguarda l’adesione o meno della Turchia all’Unione, ma l’avvio o meno di un negoziato di adesione che, in alcuni paesi, è durato fino a dieci, a volte quindici anni.
Certo non possiamo in questo momento avere la posizione, che “Le Monde” ha recentemente attribuito a un ministro francese, di chi propone un lungo negoziato senza adesione. Non possiamo avere con la Turchia un comportamento diverso da quello avuto con gli altri paesi che recentemente sono diventati membri dell’Unione o hanno iniziato il processo di adesione, non possiamo aggiungere criteri a quelli fissati a Copenaghen. Se il negoziato avrà inizio, lungo o breve che sia, dovrà essere portato a termine. E’ evidente, però, che il giorno in cui la Turchia entrasse nell’Unione, questa dovrà aver fatto dei notevoli passi avanti dalla situazione che vive ora, per poter digerire l’impatto dell’adesione turca.

Quali sono questi passi in avanti che l’Unione è chiamata a compiere?

Riguardano la democrazia politica. Ci stiamo affaccendando, oggi, dietro l’approvazione definitiva della Trattato Costituzione. E’ certamente un passo decisivo, ma credo che appena sarà terminato il calvario delle ratifiche, dovremo tenere il dibattito su come cambiare il testo approvato perché questo senza dubbio non risponde a una domanda fondamentale: L’Unione europea vuole essere soltanto una potenza economica o anche una potenza politica? Il livello di integrazione di questioni come la politica estera e la sicurezza è ancora insoddisfacente.

Uno dei temi più controversi e dibattuti che anima la discussione intorno all’eventuale adesione della Turchia riguarda le radici culturali dell’Europa e quello che alcuni vedono come un pericolo di islamizzazione del continente. Non crede che l’apertura di un negoziato con un paese che segna il confine con il mondo musulmano e con il mondo arabo sia un gesto simbolico importante, un’apertura verso l’integrazione delle culture, una risposta allo scontro di civiltà?

Sì, credo di sì. La radice culturale della Turchia è un argomento a doppia lama nel dibattito sull’allargamento. Per un verso ci si può accontentare di dire che l’ingresso nell’Unione di settantamilioni di cittadini turchi di cui moltissimi islamici può avere un impatto fortissimo, la cui portata è tutta da valutare. D’altra parte, però, negli ultimi tre anni abbiamo insistito molto sulla necessità di cercare un dialogo con l’Islam moderato. Allora un paese musulmano ha la certezza di rimanere sul versante democratico del dialogo culturale se gli si offre una prospettiva, mentre, se non gli si concede una sponda, si rischia di cacciarlo nelle mani di cattivi maestri.
Inoltre non si può nascondere il fatto che tanta parte della storia europea si è sviluppata nel dialogo e nel contatto con l’Islam, molta cultura occidentale è imbevuta di riferimenti islamici. Io credo che l’Europa arroccarsi su posizioni prestabilite, ma allo stesso tempo mi accorgo che non è un’idea peregrina quella di chi si chiede se l’Europa ha un confine naturale oppure basta avere alcuni requisiti per farne parte.

La prospettiva di entrare in Europa è stata per la Turchia un catalizzatore di riforme. C’è chi parla di una “rivoluzione silenziosa” per descrivere i progressi nella direzione delle libertà e dello stato di diritto compiuti dal governo di Ankara da quando ha preso corpo l’ipotesi di poter far parte, un giorno, dell’Ue. Possiamo considerare l’allargamento dell’Ue come uno strumento per far crescere le democrazia?

Assolutamente sì. Dopo la caduta del muro di Berlino l’Europa ha offerto ai paesi che erano appartenuti al blocco sovietico una prospettiva, anche se lunga, fatta d’integrazione politica, economica e benessere democratico. E’ stata l’unica vera grande operazione geopolitica degli ultimi dieci anni. Quando, invece, l’Unione non è stata in grado di offrire risposte di questo tipo a situazioni di crisi, ci sono state le guerre, come ad esempio nei Balcani. Non c’è dubbio che oggi l’Ue sia il più grande modello di esportazione pacifica di democrazia e lo dimostra, tra l’altro, il fatto che non solo la Turchia, ma anche i paesi che oggi fanno da cuscinetto tra l’Unione e la Russia, come Ucraina, Bielorussia, Moldavia e Georgia, dimostrino un’aspirazione a stare legati all’Europa, che rappresenta una realtà che ha garantito fino ad oggi più di mezzo secolo di pace, di benessere economico, di prosperità, di integrazione. In giro per il mondo, dal Canada all’Argentina, dall’Indonesia alla Nuova Zelanda, si sente raccontare e invocare la nostra esperienza come il modello-faro possibile. Il bisogno di avere rapporti forti con l’Unione europea si trasforma in un catalizzatore di riforme straordinario per ogni sistema che vi si accosti. Questo è il motivo per cui dovremmo essere più orgogliosi, soprattutto in questi tempi di guerra, nel rivendicare il modello europeo rispetto a quelli che pensano che la democrazia si esporti sulle punte di una baionetta.

Nel suo libro Semestre nero, scritto insieme a Guelfo Fiore (Fazi editore), lei critica la politica estera di Berlusconi sottolineandone l’abbandono di sobrietà. Con definizioni come “politica delle pacche sulle spalle” o “alla Zelig” lei addita i modi del nostro premier che sembra essere attento a rompere i cerimoniali degli incontri internazionali ma che produce solo risultati goffi e inconcludenti. Come giudica l’atteggiamento del governo italiano riguardo all’adesione della Turchia all’Unione europea?

Lo giudico sulla stessa falsa riga che ha caratterizzato la politica estera dell’attuale governo. Uno dei tanti limiti della politica di Berlusconi e della sua attitudine alla personalizzazione è quello di sostituire i rapporti politici con i rapporti personali. Un criterio che si può tradurre così: il capo del governo italiano è amico del premier turco Erdogan ed è testimone di nozze del figlio, quindi la Turchia deve entrare nell’Unione. Questa è una vera idiozia in termini politici. Io non nego che avere rapporti tra leader sia importante, ma sovrapporre rapporti personali a quelli politici diventa un potenziale boomerang. Davanti a un dibattito che ha tutti i chiaroscuri che abbiamo accennato in questa conversazione, immaginare che la Turchia debba entrare a far parte dell’Unione per il solo fatto che siamo amici di Erdogan è una risposta semplificata, sostenuta per altro da Berlusconi che nella sua coalizione convive con la Lega, una forza politica che mi pare tutt’altro che estranea dal fare razzismo a buon mercato sull’Islam. Se noi riuscissimo anche in questo caso ad avere un atteggiamento più sobrio, cioè competente ed attento alle conseguenze che la questione dell’adesione della Turchia all’Ue mette in campo, probabilmente aiuteremo anche la nostra opinione pubblica a vivere con maggior consapevolezza quello che invece si appresta ad essere un passaggio molto delicato.

 

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