
In un editoriale apparso sul Corriere della Sera (“Le
illusioni introno a Kerry”), Angelo Panebianco
ha scritto che “la santificazione di Kerry”,
attuata dal centrosinistra italiano e dai mezzi di comunicazione
ad esso vicini, “prepara tempi duri” per
la stessa coalizione: “Se vincerà Kerry,
e una volta accertato che alle differenze di stile rispetto
a Bush non corrisponderanno differenze di sostanza,
il centrosinistra si troverà a fronteggiare i
contraccolpi indotti dalle aspettative deluse del suo
elettorato”. Dello stesso avviso del professore
bolognese non sono però i Democratici americani,
e segnatamente il think tank di Washington
Brookings
Institution , molto vicino al partito di John Kerry
e Bill Clinton.
In un articolo pubblicato dal Financial Times, Philip
Gordon, che alla Brookings è direttore del
centro sui rapporti tra Usa e Europa, ha scritto che
“Kerry offre la chance di un disgelo transatlantico”.
“Gli europei dovrebbero essere attenti a evitare
aspettative irrealistiche”, ammette Gordon,
che firma l’articolo insieme al francese Dominique
Moisi e spiega che “la crescita del potere militare
e economico americano e la necessità di affrontare
il terrorismo produrranno tendenze unilateraliste
in ogni amministrazione statunitense”. “Tuttavia
– aggiunge – l’opportunità
per un nuovo inizio (fresh start) sotto John
Kerry sarebbe effettiva”. I governi dell’Ue,
e non solo la Vecchia Europa, vedono di buon occhio
un cambio alla Casa Bianca, e, secondo Gordon, Bruxelles
e Washington, nei sei mesi successivi all’elezione
del democratico, dovrebbero compiere ciascuno cinque
passi per rilanciare l’alleanza.
Gli Stati Uniti, prima di tutto, dovrebbero cambiare
stile e toni, smettendo l’atteggiamento punitivo
verso quanti non approvarono l’intervento in
Iraq, atteggiamento arrogante e infruttuoso. Dovrebbero
condividere con gli alleati il potere che hanno a
Baghdad, impegnarsi fortemente per la pace nel conflitto
israelo-palestinese, magari facendo dell’ex
presidente Clinton l’inviato speciale in Medio
oriente. Compito di Kerry sarebbe anche quello di
restaurare l’autorità morale degli Usa,
punendo i colpevoli delle torture di Abu Ghraib, risolvendo
la questione legale di Guantanamo e incoraggiando
le società musulmane aperte. Infine, Washington
dovrebbe tornare al multilateralismo su temi come
il clima, il trattato sui test nucleari e la Corte
internazionale.
Da parte sua, anche l’Europa dovrebbe cambiare
stile e toni, chiarendo che i passati conflitti erano
dovuti all’opposizione alle politiche dell’amministrazione
Bush, e non ad un più generico antiamericanismo.
Dovrebbe contribuire alla ricostruzione dell’Iraq,
se non con l’invio consistente di truppe (reso
arduo dall’attuale caos), almeno con la cancellazione
del debito, l’addestramento e l’equipaggiamento
della polizia locale, l’aiuto in settori come
la sanità e la giustizia. Gli europei dovrebbero
poi mostrare severità nei confronti della minaccia
nucleare dell’Iran (di cui sono il maggior partner
commerciale), tema sul quale, altrimenti, è
sicuro anche con l’amministrazione Kerry uno
scontro che potrebbe ricordare le divisioni sull’Iraq.
Loro compito sarebbe anche quello di assistere il
ritiro israeliano da Gaza, per poi giocare in quell’area
un ruolo-chiave finanziario e in materia di sicurezza.
Infine il vecchio continente dovrebbe diventare un
partner militare all’altezza, per poter essere
preso più sul serio da Washington.
Gordon non nega le differenze tra i due continenti,
ma considera esagerata la contrapposizione del neocon
Robert Kagan (“Gli americani vengono da Marte,
gli europei da Venere”) e ricorda come Europa
e Stati Uniti appartengano ad una stessa cultura,
e perseguano obiettivi comuni. “Il futuro dell’Occidente
è a rischio”, scrive lo stesso Gordon
in una “Lettera all’Europa” pubblicata
dalla rivista “Prospect”, in cui chiede
di guardarsi da un indebolimento della Nato e da una
rivalità politica tra le due parti in Africa,
Asia e Medio Oriente. Gordon propone un nuovo “new
deal”, un patto con gli europei che nasca dalla
consapevolezza, condivisa nel dopoguerra da Harry
Truman e dall’ex segretario di Stato Dean Acheson,
che per vincere una guerra “bisogna vincere
i cuori e le menti del mondo tanto quanto bisogna
mostrare la propria forza”. Il giudizio sull’attuale
politica americana è a volte molto duro, come
quando scrive che “la nostra autorità
morale è ai minimi storici”, che “la
nostra risposta all’opposizione europea alla
guerra in Iraq è stata ‘Old Europe’
e ‘freedom fries’”, che il forte
appoggio mostrato ad Ariel Sharon ha tolto credibilità
agli Usa nel processo di pace.
Il rappresentante della Brookings non si pone in nettissima
contrapposizione con l’amministrazione Bush,
come quando, interpretando l’atteggiamento ambiguo
o favorevole assunto da molti Democratici durante
la guerra in Iraq, spiega che l’intervento “era
rischioso, ma non folle”, o come quando apprezza
le aperture degli ultimi mesi del Presidente americano.
Gordon riconosce però che questo “new
deal” occidentale sarebbe decisamente più
facile da realizzare sotto un’amministrazione
Kerry. E dello stesso parere è l’intellettuale
europeo a cui “Prospect” ha chiesto di
rispondere alla lettera dell’osservatore della
Brookings, ovvero lo storico britannico Timothy Garton
Ash, il quale spiega che l’Iraq, un caos di
cui per il 90% sono responsabili gli Usa e solo per
il 10% gli europei, non può essere il campo
su cui verificare lo stato dell’alleanza. Prima
bisognerà sapere chi siede alla Casa Bianca.
Quella tra Europa e Stati Uniti è insomma,
come sintetizza Gordon, “an alliance waiting
for november”.
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