
Nonostante le incertezze ed i mercanteggiamenti protrattisi
sino all'ultimo minuto, il 18 giugno la Presidenza irlandese
è riuscita a fare accettare ai 25 Capi di Stato
e di Governo il testo del Trattato-Costituzione. Un
capolavoro di testardaggine e di diplomazia, quello
del premier irlandese Ahern, che è riuscito a
tagliare il traguardo della staffetta costituzionale,
ricuperando i ritardi del suo predecessore italiano.
Anche se non certo un capolavoro, il prodotto finale
è comunque il passo più significativo
sin qui compiuto sulla strada del processo di costituzionalizzazione
dell'Europa. Il progetto di Trattato-Costituzione presentato
poco meno di un anno fa da Giscard è uscito alquanto
malconcio dalle forche caudine della conferenza intergovernativa.
Il negoziato è stato condotto da alcuni Governi
veramente al limite della buona fede. Gli inglesi in
particolare, con la consueta abilità e spregiudicatezza
negoziale, hanno incassato in anticipo il prezzo di
un ipotetico (e assolutamente incerto) sì al
futuro referendum sulla Costituzione, imponendo regole
che sembrano mirare solo a rendere più difficili
le decisioni dell'Unione.
Il Trattato-Costituzione è comunque qualcosa
di nuovo: non è più un trattato e non
è ancora una costituzione, almeno nel senso tradizionale
(anche se forse fuorviante) del termine. Nonostante
la sua natura ibrida (argutamente Jean Paul Jacquè,
in "
Il progetto di Trattato-Costituzione.
Verso una nuova architettura dell'Unione europea, a
cura di LS Rossi, Giuffrè 2004, l'ha paragonato
ad un pipistrello, metà topo e metà uccello),
si deve riconoscere che essa segna una tappa importante,
anche se certo non definitiva, di un processo evolutivo
in corso.
Ci si può chiedere se, alla fine, sia stato opportuno
mantenere il termine "Costituzione", atto
a provocare, nel bene e nel male, ondate emotive. E'
indubbio che, se non si fosse utilizzato, le cose sarebbero
state più semplici, il negoziato meno agguerrito
e talune critiche (come ad esempio quelle sulla mancanza
di riferimento alle radici cristiane) meno aspre. Ma,
d'altro canto, va riconosciuto che il termine è
stato impiegato perché è ormai maturata
nella coscienza europea un'esigenza precisa, che ormai
non poteva più essere elusa. Di emozioni l'Europa
ha bisogno, per contrastare la crescente apatia dei
suoi cittadini. L'indifferenza, la non conoscenza, la
disconnessione democratica con un potere che ormai regola
tanti aspetti della vita quotidiana dei cittadini non
è indice di sistema politico sano.
Certo, il Trattato-Costituzione, nella sua versione
finale, rivela ancora uno sfasamento complessivo fra
il bisogno di Costituzione e la volontà politica
dei governanti europei di rispondere adeguatamente a
tale bisogno. Tale sfasamento di per sé non sarebbe
patologico, perché apparterrebbe alla dinamica
di un processo evolutivo, se lo si potesse considerare
temporaneo. Va però rilevato che il negoziato
ha mantenuto, accentuato e forse posto le basi per una
radicalizzazione delle molteplici fratture interne già
prodottesi in Europa, che potrebbero mettere in discussione
la continuità stessa di questo processo.
In questo senso la Costituzione porta con sé
una pesante scommessa: potrà rinsaldare o spaccare
definitivamente l'Unione, potrà agire da collante
o potrà essere il cuneo che trasforma le crepe
in faglie. Potrà chiudere una fase di crisi strisciante
o invece aprirne una conclamata. Si tratta di una scommessa
che riveste implicazioni determinanti per il futuro
dell'Unione stessa.
La fase attuale, che si apre con la firma del Trattato-Costituzione
e che si dovrebbe concludere con sua la ratifica,
è estremamente delicata e pericolosa. La Costituzione
ora entra in un limbo giuridico, per cui non è
più un progetto, ma non è ancora diritto
vigente. Per entrare in vigore, necessita infatti
di venticinque ratifiche nazionali, una per ogni Stato
membro. E considerando che molti Paesi hanno già
annunciato un referendum - e che fra questi Paesi,
alcuni, come Regno Unito, Danimarca e Irlanda, sono
pervasi da forti ondate di euroscetticismo -, la sorte
del Trattato-Costituzione è fortemente a rischio.
Quasi dando per scontato il fallimento di uno o più
referendum nazionali, alcuni Stati (Francia e Germania,
ma dietro a loro se ne aggiungerebbero altri) già
parlano di andare avanti comunque, formando una sorta
di avanguardia costituzionale. In questa ipotesi anche
l'Italia sarebbe chiamata a decidere se seguire la
sua inclinazione profonda e la sua storia di Paese
fondatore e fortemente europeista, o invece le nuove
sirene euroambigue e filoatlantiche di matrice governativa.
Occorre dunque cominciare a riflettere sugli scenari
possibili che si aprirebbero nel caso che uno o più
Stati membri non ratifichino il Trattato-Costituzione
e gli altri vogliano invece proseguire nell'integrazione.
Va subito detto che l'ipotesi di lasciar coesistere
del Trattato-Costituzione (che vincolerebbe solo gli
Stati che lo ratificassero), con il sistema di Nizza
(che dovrebbe restare in vigore fra questi ultimi e
tutti gli altri) è un'ipotesi astratta, giuridicamente
possibile, ma nella realtà impraticabile. Il
sistema che è stato previsto dal nuovo Trattato
non può coesistere con le versioni precedenti
dello stesso. Sol per fare un paio di esempi, la struttura
istituzionale del Trattato-Costituzione non è
sovrapponibile a quella attuale, né si può
ipotizzare che la Carta dei diritti fondamentali vincoli
le istituzioni dell'Unione solo nei confronti dei cittadini
degli Stati membri che hanno ratificato detto Trattato.
Rimangono dunque tre opzioni, di cui si cercherà
qui di esaminare brevemente la portata giuridica e
le implicazioni politiche: 1) lasciar cadere per il
momento il progetto costituzionale, utilizzando il
debole strumento delle cooperazioni rafforzate previste
dai trattati vigenti, 2) mantenere la struttura attuale,
cercando al contempo di instaurare un nocciolo duro,
esterno all'Unione, con gli strumenti del diritto
internazionale, oppure 3) provocare la rottura del
sistema attuale, rifondandone uno nuovo su scala più
ridotta e più integrata.
Nella prima ipotesi, in base al diritto vigente,
i margini per avanzare sarebbero molto esigui. Lo
strumento delle cooperazioni rafforzate, proprio per
la sua complessità e i limiti di cui è
stato circondato sin dalla sua introduzione (ad Amsterdam)
non è sin qui mai stato utilizzato. Un numero
minimo di otto Stati potrebbe lanciare la cooperazione,
che deve comunque restare aperta a tutti gli altri
che volessero in seguito aggiungersi. Tale strumento
permetterebbe forse qualche modesta integrazione sul
piano sociale, nello spazio di libertà, sicurezza
e giustizia e, più difficilmente, in materia
fiscale e di politica estera. Ma certo non ci darebbe
una Costituzione, una Carta dei diritti o una riformulazione
del quadro istituzionale. Sul piano politico, lasciar
cadere il progetto costituzionale perché uno
Stato lo rifiuta, anche se costituirebbe un comodo
alibi per certi Governi, avrebbe una ripercussione
fortemente negativa agli occhi dei cittadini di tutti
gli altri Stati. Dopo un dibattito che, indipendentemente
dai toni positivi o negativi, è stato finalmente
ampio e coinvolgente, l'appiattimento sullo status
quo sarebbe un segnale di fallimento e di impotenza
che renderebbe l'Unione ancora meno credibile.
Nella seconda ipotesi, che ha un precedente illustre
negli Accordi di Schengen, si potrebbe avanzare in
un maggior numero di settori, ad esempio nella difesa,
e con un minor numero di costrizioni rispetto alla
prima ipotesi. Il nucleo di testa sperimenterebbe
modelli avanzati di integrazione che potrebbero poi
aprirsi ad altri Stati membri (ma a discrezione di
quelli che ne fanno già parte) ed in futuro
confluire in una nuova revisione dei Trattati. Resterebbero
però ancora fuori gli aspetti istituzionali,
la nuova tipologia degli atti, la precisazione delle
competenze, e la Carta dei diritti fondamentali, insomma
il nocciolo forte della Costituzione. Dal punto di
vista politico, questa opzione baratta la Costituzione
con un ampio minimo comune denominatore. Si rinuncia
a rompere l'assetto esistente, che vincola venticinque
Stati, accontentandosi di progredire su scala più
integrata là dove si può e con chi ci
sta. Anche se la concordia e la legittimità
giuridica apparirebbero formalmente rispettate, si
determinerebbero comunque divisioni, antagonismi,
spinte centrifughe e schieramenti di campo.
Nella terza ipotesi, alcuni Stati dovrebbero uscire
dai trattati attuali, può essere il caso del
Regno Unito o di altri che rigettano la Costituzione,
e in tal caso quest'ultima potrebbe entrare in vigore
fra quanti l'hanno ratificata, negoziando con i partners
uscenti un accordo sul libero mercato e su altri aspetti
che preservi una base comune di integrazione. Da un
punto di vista politico, si tratterebbe di una soluzione
amichevole e civile, di un divorzio consensuale, e
probabilmente non definitivo. Sarebbe inoltre una
soluzione equa: gli Stati che vogliono la Costituzione
potrebbero averla, senza imporla a quelli che non
la desiderano e questi ultimi non impedirebbero agli
altri di adottarla. Il mercato ed altri aspetti dell'integrazione
attuale non verrebbero sacrificati, pur emergendo
un'Europa a cerchi concentrici, con marcata differenze
di integrazione politica. L'Europa diventerebbe un
grande soggetto commerciale, di cui una parte sarebbe
anche integrata costituzionalmente.
Tuttavia, poiché non è giuridicamente
possibile cacciare fuori uno Stato, tale soluzione
presuppone che lo Stato decida spontaneamente e graziosamente
di uscire. Se questo non avviene, non rimane che un'altra
variante di questa ipotesi, assai più dolorosa,
illegittima ai sensi del diritto comunitario attuale,
anche se giustificabile (ma non è il caso di
approfondire i dettagli in questa sede), sul piano
del diritto internazionale.
In tal caso, dovrebbero essere gli Stati che vogliono
la Costituzione ad uscire dall'Unione attuale, rifondando
una nuova realtà istituzionale e costituzionale.
Gli altri potrebbero essere d'accordo (e si ricadrebbe
in un ipotesi simile a quella precedente) oppure potrebbero
opporsi, invocando il diritto comunitario vigente.
In quest'ultimo caso si arriverebbe ad una frattura
insanabile, che segnerebbe la fine dell'attuale processo
di integrazione e l'inizio di una nuova fase costituente.
Certo di tratta di un'arma "atomica", che
sarebbe meglio non dover utilizzare. Ma forse (come
insegna la teoria della deterrenza) il fatto di sapere
che i Paesi che desiderano una Costituzione sono intenzionati
a ricorrere ad una simile arma potrebbe indurre gli
altri Stati a non sabotare il processo di costituzionalizzazione.
Questa è dunque la grande scommessa in corso.
Se utilizziamo le categorie delle teorie del caos,
la Costituzione ci appare come un evento catastrofico,
in grado comunque di modificare la natura dell'Unione
attuale: o facendole compiere un salto evolutivo,
o aprendo una crisi insanabile che porti ad una sua
rifondazione.
La battaglia sul futuro del Trattato-Costituzione
comincia ora e verrà combattuta a colpi di
ratifiche, in un confronto fra Governi e parlamenti
nazionali che non sarà privo di ambiguità.
Per tale ragione mi sembra che l'idea di tenere un
referendum (anche solo consultivo) in tutti gli Stati,
nonostante i rischi che comporta, diventi opportuna
almeno per due ragioni. Innanzitutto, data la posta
in gioco, che, come si è visto, va oltre quella
di un ennesimo accordo di revisione, non tanto per
il contenuto del Trattato-Costituzione, quanto per
la sue implicazioni sul futuro dell'attuale Unione,
è bene chiedere ai cittadini di fare delle
scelte. In secondo luogo, lasciare che solo i Paesi
incerti o contrari consultino i propri cittadini significa
dare voce solo agli euroscettici, con una pericolosa
identificazione fra "il popolo europeo"
e i popoli consultati.
E' invece opportuno che anche i Governi favorevoli
abbiano alle loro spalle un voto popolare, che non
solo li legittimi, ma anche li impegni a compiere
tutti i passi necessari per progredire, eventualmente
in un nucleo di testa, verso un'Unione costituzionalizzata.
Certo i referendum comportano un rischio di manipolazione
dell'opinione pubblica e di strumentalizzazione a
fini di politica interna. Tali rischi potrebbero però
essere diminuiti da un'azione di informazione efficace,
energica, capillare e veritiera, che dovrebbe essere
promossa dalla Commissione europea, in sinergia (pluralistica
e non gerarchica) con Governi, enti locali, scuole,
organi culturali e di informazione, per chiarire ai
cittadini, in termini semplici e sintetici, qual'è
il valore aggiunto del Trattato-Costituzione.
L'autore è ordinario di Diritto dell'UE, Università
di Bologna
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