257 - 10.07.04


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Un futuro a rischio
Lucia Serena Rossi

Nonostante le incertezze ed i mercanteggiamenti protrattisi sino all'ultimo minuto, il 18 giugno la Presidenza irlandese è riuscita a fare accettare ai 25 Capi di Stato e di Governo il testo del Trattato-Costituzione. Un capolavoro di testardaggine e di diplomazia, quello del premier irlandese Ahern, che è riuscito a tagliare il traguardo della staffetta costituzionale, ricuperando i ritardi del suo predecessore italiano.

Anche se non certo un capolavoro, il prodotto finale è comunque il passo più significativo sin qui compiuto sulla strada del processo di costituzionalizzazione dell'Europa. Il progetto di Trattato-Costituzione presentato poco meno di un anno fa da Giscard è uscito alquanto malconcio dalle forche caudine della conferenza intergovernativa. Il negoziato è stato condotto da alcuni Governi veramente al limite della buona fede. Gli inglesi in particolare, con la consueta abilità e spregiudicatezza negoziale, hanno incassato in anticipo il prezzo di un ipotetico (e assolutamente incerto) sì al futuro referendum sulla Costituzione, imponendo regole che sembrano mirare solo a rendere più difficili le decisioni dell'Unione.

Il Trattato-Costituzione è comunque qualcosa di nuovo: non è più un trattato e non è ancora una costituzione, almeno nel senso tradizionale (anche se forse fuorviante) del termine. Nonostante la sua natura ibrida (argutamente Jean Paul Jacquè, in "Il progetto di Trattato-Costituzione. Verso una nuova architettura dell'Unione europea, a cura di LS Rossi, Giuffrè 2004, l'ha paragonato ad un pipistrello, metà topo e metà uccello), si deve riconoscere che essa segna una tappa importante, anche se certo non definitiva, di un processo evolutivo in corso.

Ci si può chiedere se, alla fine, sia stato opportuno mantenere il termine "Costituzione", atto a provocare, nel bene e nel male, ondate emotive. E' indubbio che, se non si fosse utilizzato, le cose sarebbero state più semplici, il negoziato meno agguerrito e talune critiche (come ad esempio quelle sulla mancanza di riferimento alle radici cristiane) meno aspre. Ma, d'altro canto, va riconosciuto che il termine è stato impiegato perché è ormai maturata nella coscienza europea un'esigenza precisa, che ormai non poteva più essere elusa. Di emozioni l'Europa ha bisogno, per contrastare la crescente apatia dei suoi cittadini. L'indifferenza, la non conoscenza, la disconnessione democratica con un potere che ormai regola tanti aspetti della vita quotidiana dei cittadini non è indice di sistema politico sano.

Certo, il Trattato-Costituzione, nella sua versione finale, rivela ancora uno sfasamento complessivo fra il bisogno di Costituzione e la volontà politica dei governanti europei di rispondere adeguatamente a tale bisogno. Tale sfasamento di per sé non sarebbe patologico, perché apparterrebbe alla dinamica di un processo evolutivo, se lo si potesse considerare temporaneo. Va però rilevato che il negoziato ha mantenuto, accentuato e forse posto le basi per una radicalizzazione delle molteplici fratture interne già prodottesi in Europa, che potrebbero mettere in discussione la continuità stessa di questo processo.

In questo senso la Costituzione porta con sé una pesante scommessa: potrà rinsaldare o spaccare definitivamente l'Unione, potrà agire da collante o potrà essere il cuneo che trasforma le crepe in faglie. Potrà chiudere una fase di crisi strisciante o invece aprirne una conclamata. Si tratta di una scommessa che riveste implicazioni determinanti per il futuro dell'Unione stessa.

La fase attuale, che si apre con la firma del Trattato-Costituzione e che si dovrebbe concludere con sua la ratifica, è estremamente delicata e pericolosa. La Costituzione ora entra in un limbo giuridico, per cui non è più un progetto, ma non è ancora diritto vigente. Per entrare in vigore, necessita infatti di venticinque ratifiche nazionali, una per ogni Stato membro. E considerando che molti Paesi hanno già annunciato un referendum - e che fra questi Paesi, alcuni, come Regno Unito, Danimarca e Irlanda, sono pervasi da forti ondate di euroscetticismo -, la sorte del Trattato-Costituzione è fortemente a rischio.
Quasi dando per scontato il fallimento di uno o più referendum nazionali, alcuni Stati (Francia e Germania, ma dietro a loro se ne aggiungerebbero altri) già parlano di andare avanti comunque, formando una sorta di avanguardia costituzionale. In questa ipotesi anche l'Italia sarebbe chiamata a decidere se seguire la sua inclinazione profonda e la sua storia di Paese fondatore e fortemente europeista, o invece le nuove sirene euroambigue e filoatlantiche di matrice governativa.

Occorre dunque cominciare a riflettere sugli scenari possibili che si aprirebbero nel caso che uno o più Stati membri non ratifichino il Trattato-Costituzione e gli altri vogliano invece proseguire nell'integrazione.
Va subito detto che l'ipotesi di lasciar coesistere del Trattato-Costituzione (che vincolerebbe solo gli Stati che lo ratificassero), con il sistema di Nizza (che dovrebbe restare in vigore fra questi ultimi e tutti gli altri) è un'ipotesi astratta, giuridicamente possibile, ma nella realtà impraticabile. Il sistema che è stato previsto dal nuovo Trattato non può coesistere con le versioni precedenti dello stesso. Sol per fare un paio di esempi, la struttura istituzionale del Trattato-Costituzione non è sovrapponibile a quella attuale, né si può ipotizzare che la Carta dei diritti fondamentali vincoli le istituzioni dell'Unione solo nei confronti dei cittadini degli Stati membri che hanno ratificato detto Trattato.

Rimangono dunque tre opzioni, di cui si cercherà qui di esaminare brevemente la portata giuridica e le implicazioni politiche: 1) lasciar cadere per il momento il progetto costituzionale, utilizzando il debole strumento delle cooperazioni rafforzate previste dai trattati vigenti, 2) mantenere la struttura attuale, cercando al contempo di instaurare un nocciolo duro, esterno all'Unione, con gli strumenti del diritto internazionale, oppure 3) provocare la rottura del sistema attuale, rifondandone uno nuovo su scala più ridotta e più integrata.

Nella prima ipotesi, in base al diritto vigente, i margini per avanzare sarebbero molto esigui. Lo strumento delle cooperazioni rafforzate, proprio per la sua complessità e i limiti di cui è stato circondato sin dalla sua introduzione (ad Amsterdam) non è sin qui mai stato utilizzato. Un numero minimo di otto Stati potrebbe lanciare la cooperazione, che deve comunque restare aperta a tutti gli altri che volessero in seguito aggiungersi. Tale strumento permetterebbe forse qualche modesta integrazione sul piano sociale, nello spazio di libertà, sicurezza e giustizia e, più difficilmente, in materia fiscale e di politica estera. Ma certo non ci darebbe una Costituzione, una Carta dei diritti o una riformulazione del quadro istituzionale. Sul piano politico, lasciar cadere il progetto costituzionale perché uno Stato lo rifiuta, anche se costituirebbe un comodo alibi per certi Governi, avrebbe una ripercussione fortemente negativa agli occhi dei cittadini di tutti gli altri Stati. Dopo un dibattito che, indipendentemente dai toni positivi o negativi, è stato finalmente ampio e coinvolgente, l'appiattimento sullo status quo sarebbe un segnale di fallimento e di impotenza che renderebbe l'Unione ancora meno credibile.

Nella seconda ipotesi, che ha un precedente illustre negli Accordi di Schengen, si potrebbe avanzare in un maggior numero di settori, ad esempio nella difesa, e con un minor numero di costrizioni rispetto alla prima ipotesi. Il nucleo di testa sperimenterebbe modelli avanzati di integrazione che potrebbero poi aprirsi ad altri Stati membri (ma a discrezione di quelli che ne fanno già parte) ed in futuro confluire in una nuova revisione dei Trattati. Resterebbero però ancora fuori gli aspetti istituzionali, la nuova tipologia degli atti, la precisazione delle competenze, e la Carta dei diritti fondamentali, insomma il nocciolo forte della Costituzione. Dal punto di vista politico, questa opzione baratta la Costituzione con un ampio minimo comune denominatore. Si rinuncia a rompere l'assetto esistente, che vincola venticinque Stati, accontentandosi di progredire su scala più integrata là dove si può e con chi ci sta. Anche se la concordia e la legittimità giuridica apparirebbero formalmente rispettate, si determinerebbero comunque divisioni, antagonismi, spinte centrifughe e schieramenti di campo.

Nella terza ipotesi, alcuni Stati dovrebbero uscire dai trattati attuali, può essere il caso del Regno Unito o di altri che rigettano la Costituzione, e in tal caso quest'ultima potrebbe entrare in vigore fra quanti l'hanno ratificata, negoziando con i partners uscenti un accordo sul libero mercato e su altri aspetti che preservi una base comune di integrazione. Da un punto di vista politico, si tratterebbe di una soluzione amichevole e civile, di un divorzio consensuale, e probabilmente non definitivo. Sarebbe inoltre una soluzione equa: gli Stati che vogliono la Costituzione potrebbero averla, senza imporla a quelli che non la desiderano e questi ultimi non impedirebbero agli altri di adottarla. Il mercato ed altri aspetti dell'integrazione attuale non verrebbero sacrificati, pur emergendo un'Europa a cerchi concentrici, con marcata differenze di integrazione politica. L'Europa diventerebbe un grande soggetto commerciale, di cui una parte sarebbe anche integrata costituzionalmente.

Tuttavia, poiché non è giuridicamente possibile cacciare fuori uno Stato, tale soluzione presuppone che lo Stato decida spontaneamente e graziosamente di uscire. Se questo non avviene, non rimane che un'altra variante di questa ipotesi, assai più dolorosa, illegittima ai sensi del diritto comunitario attuale, anche se giustificabile (ma non è il caso di approfondire i dettagli in questa sede), sul piano del diritto internazionale.
In tal caso, dovrebbero essere gli Stati che vogliono la Costituzione ad uscire dall'Unione attuale, rifondando una nuova realtà istituzionale e costituzionale. Gli altri potrebbero essere d'accordo (e si ricadrebbe in un ipotesi simile a quella precedente) oppure potrebbero opporsi, invocando il diritto comunitario vigente. In quest'ultimo caso si arriverebbe ad una frattura insanabile, che segnerebbe la fine dell'attuale processo di integrazione e l'inizio di una nuova fase costituente. Certo di tratta di un'arma "atomica", che sarebbe meglio non dover utilizzare. Ma forse (come insegna la teoria della deterrenza) il fatto di sapere che i Paesi che desiderano una Costituzione sono intenzionati a ricorrere ad una simile arma potrebbe indurre gli altri Stati a non sabotare il processo di costituzionalizzazione.

Questa è dunque la grande scommessa in corso. Se utilizziamo le categorie delle teorie del caos, la Costituzione ci appare come un evento catastrofico, in grado comunque di modificare la natura dell'Unione attuale: o facendole compiere un salto evolutivo, o aprendo una crisi insanabile che porti ad una sua rifondazione.
La battaglia sul futuro del Trattato-Costituzione comincia ora e verrà combattuta a colpi di ratifiche, in un confronto fra Governi e parlamenti nazionali che non sarà privo di ambiguità. Per tale ragione mi sembra che l'idea di tenere un referendum (anche solo consultivo) in tutti gli Stati, nonostante i rischi che comporta, diventi opportuna almeno per due ragioni. Innanzitutto, data la posta in gioco, che, come si è visto, va oltre quella di un ennesimo accordo di revisione, non tanto per il contenuto del Trattato-Costituzione, quanto per la sue implicazioni sul futuro dell'attuale Unione, è bene chiedere ai cittadini di fare delle scelte. In secondo luogo, lasciare che solo i Paesi incerti o contrari consultino i propri cittadini significa dare voce solo agli euroscettici, con una pericolosa identificazione fra "il popolo europeo" e i popoli consultati.

E' invece opportuno che anche i Governi favorevoli abbiano alle loro spalle un voto popolare, che non solo li legittimi, ma anche li impegni a compiere tutti i passi necessari per progredire, eventualmente in un nucleo di testa, verso un'Unione costituzionalizzata.
Certo i referendum comportano un rischio di manipolazione dell'opinione pubblica e di strumentalizzazione a fini di politica interna. Tali rischi potrebbero però essere diminuiti da un'azione di informazione efficace, energica, capillare e veritiera, che dovrebbe essere promossa dalla Commissione europea, in sinergia (pluralistica e non gerarchica) con Governi, enti locali, scuole, organi culturali e di informazione, per chiarire ai cittadini, in termini semplici e sintetici, qual'è il valore aggiunto del Trattato-Costituzione.

L'autore è ordinario di Diritto dell'UE, Università di Bologna

 





 

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