253 - 15.05.04


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La ferita del confine orientale
Andrea Borghesi


L’allargamento ad Est dell’Unione rappresenta la possibilità di superare, seppure parzialmente, uno dei problemi che l’Italia ha ereditato dal Novecento, dalle guerre mondiali, dalla contrapposizione tra blocchi: la questione del suo confine orientale. Una ferita quella sottile linea che dalle alpi Giulie scende a sud fino al mare, fino a Trieste, la città “incastrata” in una piccola striscia di terra. Una ferita che ha sanguinato per quasi cent’anni, fin dal primo conflitto mondiale, passando attraverso il secondo, attraverso le violenze nazifasciste e le foibe titine, lo sradicamento di centinaia di migliaia di italiani, le delusioni degli accordi internazionali sulla sistemazione delle frontiere.
Una questione, il confine orientale, che ha segnato la storia d’Italia. A testimoniarlo sta quanto avvenne nel nostro paese all’indomani dei due conflitti mondiali. 1919, la mancata annessione del territorio di Fiume, scatena una durissima battaglia politica di cui è protagonista Gabriele D’Annunzio. L’idea della “vittoria mutilata” si rivela in quel contesto uno straordinario vettore di propaganda per i nazionalisti capace di indebolire la classe dirigente liberale italiana, già duramente impegnata, pur nella sua inadeguatezza, nel far fronte alle enormi difficoltà economiche e sociali del Paese. La guerra, infatti, aveva modificato radicalmente l’Italia, che si era definitivamente trasformata in un paese industriale e che vedeva fronteggiarsi sulla scena pubblica masse in fermento, divise tra sogni di palingenesi sociale e aspettative di modernizzazione del paese. Anche lì vanno trovate le motivazioni della successiva affermazione del fascismo.
1945, l’Italia sconfitta subisce il diktat degli alleati su Istria e Dalmazia che diventano merce di scambio nella più generale risistemazione delle zone d’influenza tra i due blocchi; la Jugoslavia titina, estremo lembo occidentale del campo sovietico, è considerato paese vincitore ed ottiene praticamente tutto. A settembre del 1945 un accordo con gli alleati, poi riconfermato alla conferenza di pace di Parigi, assegna al controllo temporaneo jugoslavo la zona B cioè tutto il territorio ad est di Trieste, Caporetto, Tarvisio, città e territori limitrofi (zona A) che invece rimangono sotto la giurisdizione angloamericana. Il controllo provvisorio jugoslavo diventa ben presto una vera e propria annessione, tanto che tutta l’Istria e Pola sono sottoposte ad una scientifica opera di snazionalizzazione. Si arriva, così il 5 ottobre del 1954 a firmare il “Memorandum d’Intesa” di Londra, con il quale l’Italia riassume la diretta amministrazione della zona controllata dagli alleati e la Jugoslavia quella della zona B. Ma la questione della sovranità su questi territori rimane aperta fino al Trattato di Osimo. Solo allora, il 10 novembre 1975, l’Italia rinuncia definitivamente ad ogni rivendicazione stabilendo l’odierno confine di Stato.
Ma il confine orientale non è solo storia di accordi, trattati, è storia di uomini di destini di famiglie e amicizie spezzate dal filo spinato, dal gesso bianco che un giorno di settembre del 1947 divise Gorizia fin dentro le strade, fin dentro il cimitero, dall’esodo degli istriani dalla loro terra; è storia di Trieste città contesa tra due blocchi. Vicende dolorose che nessuno potrà mai cancellare ma che un’Europa unita dai Balcani all’oceano Atlantico può aiutare a superare. E con l’ingresso anche della Croazia nell’Unione nel 2007 le ragioni per sperare di chiudere definitivamente almeno una parte del pesante fardello ereditato dal Novecento saranno ancora più forti.




 

 

 

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