Le
scelte di politica estera dell’amministrazione
Bush incontrano in patria un’opposizione analoga
a quella che manifesta l’Europa da più
di un anno. E’ un concetto ben noto, ma proprio
in questi momenti in cui nella percezione comune la
straordinaria impopolarità planetaria della
Casa Bianca sembra fungere pericolosamente da sineddoche,
nel senso che si tende a confondere la parte (il governo
di Bush) per il tutto (la società americana
nel suo complesso), è bene approfondirlo, segnalando
quelle voci autorevoli che oltre Atlantico si battono
per una politica chiaramente altra rispetto a quella
di George Bush. Il tema è di grande attualità,
se ricordiamo che durante il corteo milanese del 25
aprile alcuni autonomi hanno bruciato l’ennesima
bandiera americana, e che soprattutto, a giugno, George
Bush verrà in Europa a festeggiare i sessant’anni
della Liberazione e dello sbarco in Normandia.
Tra queste voci c’è sicuramente la Brookings
Institution, un centro studi liberale e indipendente,
vicino alle posizioni dei Democratici. E’ uno
dei più antichi think tank di Washington, e
si occupa specialmente di economia, politica estera
e governance. Vi aderiscono più di
140 ricercatori, finanziati attraverso donazioni.
La Brookings nasce nel 1916 e prende il nome da Robert
Somers Brookings, uomo d’affari, leader civile
e filantropo, mentre oggi il presidente dell’organizzazione
è Strobe Talbott, ex vice Segretario di Stato
durante i due mandati di Bill Clinton. L’istituzione
sta lanciando ultimamente un’altra iniziativa,
il “Centro sugli Stati Uniti e l’Europa”,
attraverso il quale intende approfondire “l’evoluzione
delle relazioni transatlantiche” e “affrontare
le serie differenze tra America e Europa”. Il
direttore è Philip Gordon, senior fellow del
Foreign Policy Studies ed ex direttore degli Affari
Europei del National Security Council.
Sul Waghington Post lo stesso Gordon ha partecipato
ad un forum con i lettori, in occasione della presentazione
del suo ultimo libro “Allies At War: America,
Europe, and the Crisis Over Iraq”. Il volume,
scritto a quattro mani con Jeremy Shapiro, racconta
“la peggiore crisi nelle relazioni degli Stati
Uniti con l’Europa negli ultimi cinquant’anni”
e nasce anche dalla volontà di contrapporsi
al concetto, che molti lettori del neocon Robert
Kagan hanno accettato (sebbene Kagan non abbia detto
ciò, secondo Gordon), secondo cui le visioni
di “Usa e Europa si sono separate tanto che
la loro alleanza non era più possibile, e soprattutto
non era più necessaria”. Questa idea
ha condotto alla “profezia che si autoavvera:
non riusciamo a vincere i cuori e le menti europee
perché diamo per scontato dall’inizio
che sarebbe impossibile”. Le ragioni che hanno
portato a questa pubblicazione sono stati tre: “Mostrare
che considerare morta l’Alleanza Atlantica potrebbe
diventare una profezia che si autoavvera – scrive
Gordon – ; raccontare la storia della diplomazia
sull’Iraq nel modo più onesto e accurato
possibile; proporre le nostre idee su come salvare
questa importante alleanza”.
Gordon spiega che ricondurre a mero antiamericanismo
l’opposizione europea alla guerra in Iraq “non
è solo sbagliato, ma è anzitutto una
deliberata distorsione dei fatti con lo scopo di avere
la meglio nella discussione”. Sebbene in Europa
sia molto diffuso l’antiamericanismo, “sull’Afghanistan
c’era un vasto appoggio europeo alla guerra,
sia nell’opinione pubblica sia tra i governi”,
ed oggi in quel paese “ci sono tante forze europee
– francesi e tedeschi inclusi – quante
americane”. Gordon arriva a smontare persino
uno dei più diffusi argomenti contrari all’asse
franco-tedesco, quello sugli interessi petroliferi
di Parigi e Berlino alla base del no alla guerra:
“Il fatto è che francesi e tedeschi stavano
facendo ben pochi affari con l’Iraq dopo il
2000 (gli Usa importavano molto più petrolio
iracheno degli europei), e se avessero voluto essere
cinici la cosa migliore da fare sarebbe stata appoggiare
la guerra e domandare contratti in cambio”.
“Penso che dobbiamo ammettere che le critiche
europee non erano completamente sbagliate”,
conclude.
Il ritiro delle truppe spagnole deciso da Zapatero
da un lato è “un’altra battuta
d’arresto alle relazioni transatlantiche”,
dall’altro ci ricorda “il prezzo che stiamo
pagando per esser andati in guerra senza un ampio
sostegno internazionale”. E’ stato un
duro colpo per l’amministrazione Bush, che intendeva
usare la Spagna di Aznar “come un esempio di
come un leader straniero può appoggiare gli
Usa in una causa impopolare come l’Iraq, ed
essere comunque rieletto”. Per Gordon la decisione
di Zapatero non è stata felice, visto che il
premier spagnolo “non ha nemmeno atteso di vedere
se l’Onu avrebbe giocato un ruolo maggiore in
Iraq, che era la condizione per rimanere”, e
tuttavia è stata “una legittima scelta
democratica”. Come conseguenza negativa, questo
ritiro “non farà che incoraggiare quanti
vogliono vederci fallire in Iraq”.
L’analisi di Philip Gordon diverge però
dalle posizioni franco-tedesche sulle motivazioni
che hanno spinto Bush alla guerra: l’America
non è ricorsa alle armi per motivi politici
o economici, ma come reazione al senso di vulnerabilità
successivo all’undici settembre. Il giudizio
sul Presidente americano, però, è lo
stesso che danno gli “europeisti”, ed
analoghe sono le riflessioni su quanto condizioni
negativamente le relazioni tra le due superpotenze
l’attuale inquilino della Casa Bianca: “Non
mi faccio illusioni sul fatto che le relazioni tra
Usa ed Europa sarebbero improvvisamente rose e fiori
nel caso in cui venisse eletto Kerry (ricordate le
discussioni della fine degli anni ’90 sotto
Clinton), ma il fatto è che le distanze tra
Europa e Bush sono più grandi di quelle tra
Europa e Democratici su tutta una serie di temi, ben
oltre l’Iraq”. Per Gordon “la lezione,
che penso l’amministrazione Bush non sia riuscita
a comprendere, è che il potere ed una leadership
forte e decisa non bastano da soli a convincere gli
alleati. Hai bisogno anche dei loro cuori e delle
loro menti”. “Dubito che gli Europei faranno
qualcosa in Iraq finchè Bush sarà Presidente
– conclude Gordon – o almeno prima delle
elezioni”.
Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti
da fare? Scriveteci il vostro punto di vista a
redazione@caffeeuropa.it