249 - 20.03.04


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Non sono carceri, ma poco ci manca
Loris De Filippi con Paola Casella


La sede romana di Medici senza frontiere è un labirinto di scaffali e scatoloni. Qui le cose si fanno, e le chiacchiere si riducono al minimo. Tante belle facce, non solo quelle dello staff, ma anche quelle dei visitatori occasionali: una donna e un bambino africani spaventati della loro ombra; un maghrebino che cerca con lo sguardo un interlocutore sicuro.

Loris De Filippi, responsabile dei progetti italiani di Medici Senza Frontiere, ci racconta ciò che l'organizzazione ha scoperto all'interno dei CPT italiani, nel corso di un'inchiesta documentata dal corposo rapporto che è possibile scaricare dal sito .

Che cosa sono esattamente i CPT e quando sono nati?

Sono centri di detenzione temporanea per immigrati che entrano irregolarmente nel nostro paese. Sono stati istituiti dalla legge Turco-Napolitano nel 1998, durante la legislatura precedente, per trattenere al loro interno persone che reiteratamente erano entrate e uscite dal nostro paese commettendo dei reati e diventando quindi "indesiderabili". La maggior concentrazione di questi centri è al Sud, in partcolare in Puglia, per via degli sbarchi di clandestini che avvengono su quelle coste.

L'Italia ha deciso di mettere in piedi questi centri perché a parte noi e la Finlandia tutti gli altri paesi già li avevano, dunque anche noi abbiamo ottemperato a questo obbligo e persino Rifondazione comunista, sebbene con qualche dubbio e qualche riflessione, nel '98 ha votato a favore di questi centri. Ricordo che nel '99 ci sono state in Italia 33 mila richieste di asilo, in particolare kossovari e rom, poi il numero delle richieste è progressivamente calato, e adesso gli ultimi dati del 2002 segnalano circa 7000 richieste contro le oltre 100 mila dell'Inghilterra o della Germania (benché quest'anno ci sia stato un crollo anche in Inghilterra, che oggi si attesta sulle 50 mila richieste l'anno).

Cosa è cambiato con l'entrata in vigore della Bossi-Fini?

Con la Bossi-Fini è cambiata la durata del periodo durante il quale una persona può essere trattenuta all'interno di questi centri, che servono innanzitutto per identificare gli immigrati, capire qual è il loro paese d'origine, e poi rimandarli a casa: con la Turco-Napolitano la permanenza massima era di trenta giorni, con la Bossi-Fini è diventata di sessanta. Con la Bossi-Fini è cambiata anche la tipologia delle persone trattenute: in questo momento anche un immigrato che ha lavorato per trent'anni in questo paese ma viene trovato con un permesso di soggiorno scaduto può essere messo in un CPT. Questo ha fatto sì che i centri si siano uilteriormente riempiti, e quindi la situazione, già di per sé piuttosto difficile, è diventata esplosiva. La Bossi Fini ha modificato l'impianto della Turco-Napolitano in senso più restrittivo, in risposta ad una percezione abbastanza diffusa in Italia di accerchiamento, alla paura che questi arrivi di massa cambino in qualche modo la struttura demografica di questo paese.

Chi sono oggi i candidati all'entrata nei CPT?

Qualsiasi persona che in questo momento è presente in maniera irregolare in Italia. Chiunque sia entrato nel nostro paese con un visto turistico e alla scadenza dei tre mesi voglia rimanere in Italia perché qui trova una condizione di vita migliore rischia di essere portato in un centro di internamento temporaneo. Una volta gli sarebbe stato comminato il foglio di via, o un'intimazione a lasciare il paese in 15 giorni, ma senza passare per questo istituto.

Quanti sono gli immigrati che passano ogni anno dai CPT?

Tra il luglio 2002 e il luglio 2003 sono passate 17 mila persone nelle 11 strutture funzionanti in Italia in questo momento (ce ne sono altre cinque che noi definiamo ibridi, che a volte sono centri di accoglienza, a volte centri di permanenza temporanea). Di queste un buon 30% non sono state identificate nei sessanta giorni previsti. Nel nostro rapporto non abbiamo mai trattato la questione dell'efficacia dei CPT, mettendo in relazione il costo per diem per persona con la resa dei centri. Ci siamo concentrati su altri aspetti, legati ai servizi, alle condizioni sanitarie e umanitarie all'interno delle strutture.

Ma bisogna tener conto che mentre l'Italia spende solo 17 euro al giorno per i rifugiati che vuole integrare, per ospitarli e consentire loro di frequentare un corso di italiano, per le persone trattenute nei CPT si spendono 87 euro al giorno con una possibilità su tre che il clandestino non venga riconosciuto entro i sessanta giorni. E' una assurdità che non abbiamo voluto stigmatizzare nel rapporto, perché non siamo revisori dei conti, ma che ci auguriamo che una commissione di controllo vada a verificare.

Che cosa descrive il Rapporto di Medici senza frontiere?

Riassume quella che noi riteniamo essere la situazione fallimentare della detenzione amministrativa in Italia, un fallimento multilivello e multisistema. Il 70% circa degli immigrati nei CPT hanno scontato una condanna in carcere, e a fine pena trascorrono due mesi suppletivi all'interno del centro per essere riconosciuti dal proprio ambasciatore o console. Come mai il Ministero di Grazia e Giustizia non applica la legge e non porta l'ambasciatore o il console all'interno delle carceri a riconoscere gli immigrati durante il periodo della detenzione?

E dopo i due mesi di residenza nei CPT che succede a questi ex carcerati?

Ci sono due possibilità: la prima è che l'immigrato venga rimpatriato in maniera coattiva, cioè messo su un aereo e riportato nel suo paese, l'altra è che gli arrivi un'intimazione a lasciare il paese entro pochi giorni. Molto spesso però i rilasciati rientrano nei CPT. Il caso più incredibile è quello di un tale che a Ponte Galeria è tornato otto volte.



Attualmente i CPT sono più centri di identificazione o di detenzione?

Non possiamo dire che i CPT siano vere e proprie carceri, ma sono la cosa che gli assomiglia di più. In qualche caso - l'abbiamo descritto nel Rapporto - all'interno dei centri le persone non hanno nemmeno l'ora d'aria ma solo la mezz'ora, come è successo nel centro di Trapani l'altra estate. Su 60 trattenuti il campetto da calcio era per 5 contro 5, per cui giocavano mezz'ora a testa e poi cambiavano le squadre. Ci sono altre situazioni gravi, soprattutto per quanto riguarda le strutture, e noi stessi abbiamo chiesto la chiusura di tre centri - Lamezia Terme, Trapani e Torino - perché sono in condizioni incredibili. A Torino vivono in alcuni container messi in mezzo a un piazzale di cemento, che diventano forni a microonde d'estate e frigoriferi d'inverno, e froniscono uno spazio calpestabile di 2,7 metri quadrati a testa. Gli atti vandalici si sprecano, ovviamente, perché le situazioni di compressione e coercizione stimolano istinti aggressivi in persone che spesso non sono educande. A Torino hanno bruciato le tavole di plastica della mensa e le persone sono state costrette a mangiare per terra.

Questo per quanto riguarda le strutture. E i servizi?

Dal punto di vista sanitario abbiamo riscontrato molti problemi. I più importanti sono legati all'uso degli psicofarmaci, che ci pare eccessivo, un po' a scopo di contenimento sociale, un po' perché la richiesta da parte degli internati è pressante, anche perché poi i farmaci vengono spesso rivenduti. Purtroppo non possiamo testimoniare tentativi di recupero delle tossicodipendenze, e sono scarsi i rapporti dei CPT con i SERT o con i centri di salute mentale della ASL. La ASL secondo noi dovrebbe essere l'ente che tutela la salute di queste persone, come prevede la legge 286 del '98, ma anche la Bossi-Fini. In realtà l'ufficio territoriale del governo, delegando a un ente gestore la tutela della salute degli ospiti, trancia di fatto i rapporti con l'ASL. I medici - molto giovani - che lavorano in questi centri non hanno l'esperienza, o la specializzazione, per fare questo tipo di lavoro: per dosare i farmaci, o tentare di capire qual è la dose a scalare. All'interno dei centri mancano i protocolli e forse anche la consapevolezza di come si trattano le emergenze sanitarie.

La situazione generale sembrerebbe di abbandono.

Più che di abbandono, di un contenimento forzato in posti non idonei che genera situazioni molto difficili. Il numero di autolesioni è paragonabile a quello delle carceri, gli atti di teppismo e vandalismo avvengono in misura considerevole, sono posti dove si sta veramente male.

Come è nato l'interessamento di Medici senza frontiere in questi centri?

Ci siamo capitati per cerchi concentrici. Noi lavoriamo in Italia su un obiettivo molto specifico: l'accesso alle cure per gli immigrati non regolari, secondo legge 286 del '98, che permette agli immigrati anche irregolari di avere accesso alle strutture sanitarie. La nostra missione è quella di fare applicare la legge in modo non antagonista rispetto alle strutture sanitarie. Noi entriamo nelle ASL, mettiamo in piedi un ambulatorio per immigrati irregolari, lo consegniamo all'ASL e ce ne andiamo. L'abbiamo fatto a Siracusa, a Roma, a Brescia. Facendo questo tipo di lavoro si creano cerchi concentrici, come attorno al sasso lanciato nello stagno, e si vengono a toccare fenomeni come quello della detenzione amministrativa.

Noi ci siamo arrivati nel 2000 in Puglia, abbiamo cominciato a studiare il meccanismo dall'esterno, ma volevamo anche capire com'erano dentro questi centri. Poi abbiamo lavorato a Lampedusa per più di un anno, fra il 2002 e il 2003, per tentare di portare l'attenzione sanitaria agli sbarchi. Dopodiché abbiamo chiesto al Ministero dell'Interno di visitare tutti i CPT in Italia e di tentare di individuare le magagne. Questa è l'attività più bipartisan del mondo, perché i centri sono stati messi su dal centrosinistra e reiterati dal centrodestra. Ci è stata accordata la possibilità di entrare, abbiamo utilizzato una metodologia abbastanza nuova, fornendo un questionario di 59 domande all'ente gestore e di 29 domande a un ospite; chiedendo di intervistare, scegliendoli random, almeno cinque ospiti del centro; utilizzando un nucleo di persone quanto più possibile professionali: un esperto legale, un medico, un mediatore culturale. Nelle conclusioni, formuliamo l'ipotesi che venga istituita una commissione di controllo esterna che permetta di stilare un rapporto annuale sulle condizioni dei centri e, laddove si riscontrano delle grosse violazioni, denunciarle.

C'è qualche centro che funziona?

Ci sono alcuni CPT, come quello di Modena, che dal punto di vista strutturale sembrano finlandesi: esteriormente, appaiono bellissimi. Ma all'interno presentano fenomeni di autolesionismo molto gravi, situazioni anche punitive da parte delle forze dell'ordine. Quello che ci è sembrato meno peggio è il CPT di Caltanissetta, perché tutto sommato non vi abbiamo riscontrato magagne particolarmente gravi, pur rimanendo perplessi sull'impianto generale.

Che succede nel resto d'Europa?

Credo che l'Europa stia elevando un muro alto e impenetrabile per tentare di limitare il fenomeno degli arrivi, piuttosto che preoccuparsi dell'accoglienza. Siamo in contatto con i nostri colleghi in Belgio, Spagna e Francia, e la loro situazione non è molto diversa da quella italiana. Ci sono eccezioni: l'Irlanda riesce a dare alloggio a tutti i richiedenti asilo. Noi invece riusciamo a dare alloggio a solo a 1500 persone su 9 mila.

In generale c'è un progressivo irrigidimento, e l'Italia è assolutamente in linea con quello che succede al di fuori dei nostri confini. Quando abbiamo pubblicato il nostro rapporto c'è stata un'alzata di scudi da parte del Ministero dell'Interno che l'ha definito datato, e ha detto che si sarebbe aspettato "un po' più di condivisione" prima della pubblicazione ufficiale. Poi ha sottolineato che comunque nel resto d'Europa le cose vanno anche peggio. Noi non crediamo che sia da fare, questa gara al ribasso. Comunque il rapporto ha suscitato una certa curiosità nei confronti dei CPT anche da parte di forze politiche che sino a questo momento non avevano sottolineato il loro interesse.

Il riscontro è stato più mediatico o più politico?

Dal punto di vista politico ci sono state due interpellanze scritte, e questo è un risultato già sbalorditivo. Verrà anche presa in considerazione la formazione di un organismo di controllo esterno fatto da organizzazioni indipendenti, neutrali e imparziali, che possano verificare determinate situazioni all'interno dei centri. Mi auguro che si vada nella direzione della massima trasparenza. Per ora voi giornalisti non potete entrare nei CPT, tranne casi più unici che rari, come quello di Gino Gullace Raugei di Oggi, che è riuscito a documentare per il suo giornale la vita all'interno del CPT di Lamezia Terme (le immagini che Caffè Europa pubblica in esclusiva ci sono state generosamente donate proprio da lui, ndr), o di un altro giornalista che è entrato in maniera truffaldina in un centro di Milano, qualche anno fa. Nei CPT la maggior parte delle persone non può entrare affatto.

Diversamente dalle carceri.

Sì, è incredibile, e per quale motivo? Cosa c'è da nascondere lì dentro? Noi ci siamo stati, e più che cose da nascondere, ci sono cose da evidenziare. Per esempio il fatto che non c'è nessuna separazione tra ex detenuti e persone che sono lì solo perché hanno un permesso di soggiorno scaduto. E' scandaloso. Ragazzetti di diciotto anni che vengono messi insieme ad adulti che hanno alle spalle anni di carcere per reati gravi. Alcuni ci hanno testimoniato la paura di subire violenze sessuali.

Qual è l'interesse della comunità a che questi centri funzionino meglio?

Da cittadino, mi spaventa molto che il mio paese spenda cifre sconsiderate per una situazione come quella della deterrenza, quando poi i risultati sono assolutamente scadenti, e quando invece non si fa nulla per l'integrazione. Nel corso degli anni la nostra immigrazione è cambiata, i figli dei clandestini nascono in Italia e sono quindi italiani. Eppure non si spende praticamente nulla per il cursus dell'integrazione. L'unico momento in cui se ne parla è quando entrano in gioco i decreti flussi: ci servono delle persone per lavorare, e dunque è bene che vengano e che vengano integrate, perché a noi servono. La politica dell'immigrazione va pensata in senso più ampio, perché gli immigrati continuano ad arrivare: c'è stato l'accordo italo-libico del 19 giugno del 2003 con Gheddafi, eppure in seguito sono arrivate altre 5000 persone dalla Libia.

Siamo convinti altrettanto che sia sbagliato chiamarle i CPT lager e avere un atteggiamento da centro sociale, che non porta da nessuna parte. E' facile mettere le tende davanti ai centri, può anche essere importante perché attira un po' di attenzione, ma non si va un centimetro più in là con l'antagonismo. Ci deve essere una discussione molto franca tenendo conto che gli stesso partiti alla cui area questi manifestanti appartengono hanno messo in piedi i centri. Esorterei i no-global e i No-CPT ad essere molto più propositivi, anche da un punto di vista politico.

E per i centri per i quali chiedete la chiusura?

Lì c'è solo un baratro, quei centri sono un disastro da un punto di vista strutturale e della gestione interna. Nel CPT di Torino la Crocerossa italiana si veste in divisa militare. Come fai a dichiararti indipendente e neutrale quando non solo lavori per un ufficio territoriale del governo, ma poi ti vesti anche da militare?

 

 

 

 

 

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