La
sede romana di Medici senza frontiere
è un labirinto di scaffali e scatoloni. Qui
le cose si fanno, e le chiacchiere si riducono al
minimo. Tante belle facce, non solo quelle dello staff,
ma anche quelle dei visitatori occasionali: una donna
e un bambino africani spaventati della loro ombra;
un maghrebino che cerca con lo sguardo un interlocutore
sicuro.
Loris De Filippi, responsabile dei progetti italiani
di Medici Senza Frontiere, ci racconta ciò
che l'organizzazione ha scoperto all'interno dei CPT
italiani, nel corso di un'inchiesta documentata dal
corposo rapporto che è possibile scaricare
dal sito .
Che cosa sono esattamente i CPT e quando sono
nati?
Sono centri di detenzione temporanea per immigrati
che entrano irregolarmente nel nostro paese. Sono
stati istituiti dalla legge Turco-Napolitano nel 1998,
durante la legislatura precedente, per trattenere
al loro interno persone che reiteratamente erano entrate
e uscite dal nostro paese commettendo dei reati e
diventando quindi "indesiderabili". La maggior
concentrazione di questi centri è al Sud, in
partcolare in Puglia, per via degli sbarchi di clandestini
che avvengono su quelle coste.
L'Italia ha deciso di mettere in piedi questi centri
perché a parte noi e la Finlandia tutti gli
altri paesi già li avevano, dunque anche noi
abbiamo ottemperato a questo obbligo e persino Rifondazione
comunista, sebbene con qualche dubbio e qualche riflessione,
nel '98 ha votato a favore di questi centri. Ricordo
che nel '99 ci sono state in Italia 33 mila richieste
di asilo, in particolare kossovari e rom, poi il numero
delle richieste è progressivamente calato,
e adesso gli ultimi dati del 2002 segnalano circa
7000 richieste contro le oltre 100 mila dell'Inghilterra
o della Germania (benché quest'anno ci sia
stato un crollo anche in Inghilterra, che oggi si
attesta sulle 50 mila richieste l'anno).
Cosa
è cambiato con l'entrata in vigore della Bossi-Fini?
Con la Bossi-Fini è cambiata la durata del
periodo durante il quale una persona può essere
trattenuta all'interno di questi centri, che servono
innanzitutto per identificare gli immigrati, capire
qual è il loro paese d'origine, e poi rimandarli
a casa: con la Turco-Napolitano la permanenza massima
era di trenta giorni, con la Bossi-Fini è diventata
di sessanta. Con la Bossi-Fini è cambiata anche
la tipologia delle persone trattenute: in questo momento
anche un immigrato che ha lavorato per trent'anni
in questo paese ma viene trovato con un permesso di
soggiorno scaduto può essere messo in un CPT.
Questo ha fatto sì che i centri si siano uilteriormente
riempiti, e quindi la situazione, già di per
sé piuttosto difficile, è diventata
esplosiva. La Bossi Fini ha modificato l'impianto
della Turco-Napolitano in senso più restrittivo,
in risposta ad una percezione abbastanza diffusa in
Italia di accerchiamento, alla paura che questi arrivi
di massa cambino in qualche modo la struttura demografica
di questo paese.
Chi sono oggi i candidati all'entrata nei
CPT?
Qualsiasi persona che in questo momento è
presente in maniera irregolare in Italia. Chiunque
sia entrato nel nostro paese con un visto turistico
e alla scadenza dei tre mesi voglia rimanere in Italia
perché qui trova una condizione di vita migliore
rischia di essere portato in un centro di internamento
temporaneo. Una volta gli sarebbe stato comminato
il foglio di via, o un'intimazione a lasciare il paese
in 15 giorni, ma senza passare per questo istituto.
Quanti sono gli immigrati che passano ogni
anno dai CPT?
Tra
il luglio 2002 e il luglio 2003 sono passate 17 mila
persone nelle 11 strutture funzionanti in Italia in
questo momento (ce ne sono altre cinque che noi definiamo
ibridi, che a volte sono centri di accoglienza, a
volte centri di permanenza temporanea). Di queste
un buon 30% non sono state identificate nei sessanta
giorni previsti. Nel nostro rapporto non abbiamo mai
trattato la questione dell'efficacia dei CPT, mettendo
in relazione il costo per diem per persona
con la resa dei centri. Ci siamo concentrati su altri
aspetti, legati ai servizi, alle condizioni sanitarie
e umanitarie all'interno delle strutture.
Ma bisogna tener conto che mentre l'Italia spende
solo 17 euro al giorno per i rifugiati che vuole integrare,
per ospitarli e consentire loro di frequentare un
corso di italiano, per le persone trattenute nei CPT
si spendono 87 euro al giorno con una possibilità
su tre che il clandestino non venga riconosciuto entro
i sessanta giorni. E' una assurdità che non
abbiamo voluto stigmatizzare nel rapporto, perché
non siamo revisori dei conti, ma che ci auguriamo
che una commissione di controllo vada a verificare.
Che cosa descrive il Rapporto di Medici senza
frontiere?
Riassume
quella che noi riteniamo essere la situazione fallimentare
della detenzione amministrativa in Italia, un fallimento
multilivello e multisistema. Il 70% circa degli immigrati
nei CPT hanno scontato una condanna in carcere, e
a fine pena trascorrono due mesi suppletivi all'interno
del centro per essere riconosciuti dal proprio ambasciatore
o console. Come mai il Ministero di Grazia e Giustizia
non applica la legge e non porta l'ambasciatore o
il console all'interno delle carceri a riconoscere
gli immigrati durante il periodo della detenzione?
E dopo i due mesi di residenza nei CPT che
succede a questi ex carcerati?
Ci sono due possibilità: la prima è
che l'immigrato venga rimpatriato in maniera coattiva,
cioè messo su un aereo e riportato nel suo
paese, l'altra è che gli arrivi un'intimazione
a lasciare il paese entro pochi giorni. Molto spesso
però i rilasciati rientrano nei CPT. Il caso
più incredibile è quello di un tale
che a Ponte Galeria è tornato otto volte.
Attualmente i CPT sono più centri di
identificazione o di detenzione?
Non possiamo dire che i CPT siano vere e proprie
carceri, ma sono la cosa che gli assomiglia di più.
In qualche caso - l'abbiamo descritto nel Rapporto
- all'interno dei centri le persone non hanno nemmeno
l'ora d'aria ma solo la mezz'ora, come è successo
nel centro di Trapani l'altra estate. Su 60 trattenuti
il campetto da calcio era per 5 contro 5, per cui
giocavano mezz'ora a testa e poi cambiavano le squadre.
Ci sono altre situazioni gravi, soprattutto per quanto
riguarda le strutture, e noi stessi abbiamo chiesto
la chiusura di tre centri - Lamezia Terme, Trapani
e Torino - perché sono in condizioni incredibili.
A Torino vivono in alcuni container messi in mezzo
a un piazzale di cemento, che diventano forni a microonde
d'estate e frigoriferi d'inverno, e froniscono uno
spazio calpestabile di 2,7 metri quadrati a testa.
Gli atti vandalici si sprecano, ovviamente, perché
le situazioni di compressione e coercizione stimolano
istinti aggressivi in persone che spesso non sono
educande. A Torino hanno bruciato le tavole di plastica
della mensa e le persone sono state costrette a mangiare
per terra.
Questo per quanto riguarda le strutture. E
i servizi?
Dal punto di vista sanitario abbiamo riscontrato
molti problemi. I più importanti sono legati
all'uso degli psicofarmaci, che ci pare eccessivo,
un po' a scopo di contenimento sociale, un po' perché
la richiesta da parte degli internati è pressante,
anche perché poi i farmaci vengono spesso rivenduti.
Purtroppo non possiamo testimoniare tentativi di recupero
delle tossicodipendenze, e sono scarsi i rapporti
dei CPT con i SERT o con i centri di salute mentale
della ASL. La ASL secondo noi dovrebbe essere l'ente
che tutela la salute di queste persone, come prevede
la legge 286 del '98, ma anche la Bossi-Fini. In realtà
l'ufficio territoriale del governo, delegando a un
ente gestore la tutela della salute degli ospiti,
trancia di fatto i rapporti con l'ASL. I medici -
molto giovani - che lavorano in questi centri non
hanno l'esperienza, o la specializzazione, per fare
questo tipo di lavoro: per dosare i farmaci, o tentare
di capire qual è la dose a scalare. All'interno
dei centri mancano i protocolli e forse anche la consapevolezza
di come si trattano le emergenze sanitarie.
La situazione generale sembrerebbe di abbandono.
Più che di abbandono, di un contenimento forzato
in posti non idonei che genera situazioni molto difficili.
Il numero di autolesioni è paragonabile a quello
delle carceri, gli atti di teppismo e vandalismo avvengono
in misura considerevole, sono posti dove si sta veramente
male.
Come è nato l'interessamento di Medici
senza frontiere in questi centri?
Ci siamo capitati per cerchi concentrici. Noi lavoriamo
in Italia su un obiettivo molto specifico: l'accesso
alle cure per gli immigrati non regolari, secondo
legge 286 del '98, che permette agli immigrati anche
irregolari di avere accesso alle strutture sanitarie.
La nostra missione è quella di fare applicare
la legge in modo non antagonista rispetto alle strutture
sanitarie. Noi entriamo nelle ASL, mettiamo in piedi
un ambulatorio per immigrati irregolari, lo consegniamo
all'ASL e ce ne andiamo. L'abbiamo fatto a Siracusa,
a Roma, a Brescia. Facendo questo tipo di lavoro si
creano cerchi concentrici, come attorno al sasso lanciato
nello stagno, e si vengono a toccare fenomeni come
quello della detenzione amministrativa.
Noi ci siamo arrivati nel 2000 in Puglia, abbiamo
cominciato a studiare il meccanismo dall'esterno,
ma volevamo anche capire com'erano dentro questi centri.
Poi abbiamo lavorato a Lampedusa per più di
un anno, fra il 2002 e il 2003, per tentare di portare
l'attenzione sanitaria agli sbarchi. Dopodiché
abbiamo chiesto al Ministero dell'Interno di visitare
tutti i CPT in Italia e di tentare di individuare
le magagne. Questa è l'attività più
bipartisan del mondo, perché i centri sono
stati messi su dal centrosinistra e reiterati dal
centrodestra. Ci è stata accordata la possibilità
di entrare, abbiamo utilizzato una metodologia abbastanza
nuova, fornendo un questionario di 59 domande all'ente
gestore e di 29 domande a un ospite; chiedendo di
intervistare, scegliendoli random, almeno
cinque ospiti del centro; utilizzando un nucleo di
persone quanto più possibile professionali:
un esperto legale, un medico, un mediatore culturale.
Nelle conclusioni, formuliamo l'ipotesi che venga
istituita una commissione di controllo esterna che
permetta di stilare un rapporto annuale sulle condizioni
dei centri e, laddove si riscontrano delle grosse
violazioni, denunciarle.
C'è qualche centro che funziona?
Ci sono alcuni CPT, come quello di Modena, che dal
punto di vista strutturale sembrano finlandesi: esteriormente,
appaiono bellissimi. Ma all'interno presentano fenomeni
di autolesionismo molto gravi, situazioni anche punitive
da parte delle forze dell'ordine. Quello che ci è
sembrato meno peggio è il CPT di Caltanissetta,
perché tutto sommato non vi abbiamo riscontrato
magagne particolarmente gravi, pur rimanendo perplessi
sull'impianto generale.
Che succede nel resto d'Europa?
Credo che l'Europa stia elevando un muro alto e impenetrabile
per tentare di limitare il fenomeno degli arrivi,
piuttosto che preoccuparsi dell'accoglienza. Siamo
in contatto con i nostri colleghi in Belgio, Spagna
e Francia, e la loro situazione non è molto
diversa da quella italiana. Ci sono eccezioni: l'Irlanda
riesce a dare alloggio a tutti i richiedenti asilo.
Noi invece riusciamo a dare alloggio a solo a 1500
persone su 9 mila.
In generale c'è un progressivo irrigidimento,
e l'Italia è assolutamente in linea con quello
che succede al di fuori dei nostri confini. Quando
abbiamo pubblicato il nostro rapporto c'è stata
un'alzata di scudi da parte del Ministero dell'Interno
che l'ha definito datato, e ha detto che si sarebbe
aspettato "un po' più di condivisione"
prima della pubblicazione ufficiale. Poi ha sottolineato
che comunque nel resto d'Europa le cose vanno anche
peggio. Noi non crediamo che sia da fare, questa gara
al ribasso. Comunque il rapporto ha suscitato una
certa curiosità nei confronti dei CPT anche
da parte di forze politiche che sino a questo momento
non avevano sottolineato il loro interesse.
Il riscontro è stato più mediatico
o più politico?
Dal punto di vista politico ci sono state due interpellanze
scritte, e questo è un risultato già
sbalorditivo. Verrà anche presa in considerazione
la formazione di un organismo di controllo esterno
fatto da organizzazioni indipendenti, neutrali e imparziali,
che possano verificare determinate situazioni all'interno
dei centri. Mi auguro che si vada nella direzione
della massima trasparenza. Per ora voi giornalisti
non potete entrare nei CPT, tranne casi più
unici che rari, come quello di Gino Gullace Raugei
di Oggi, che è riuscito a documentare per il
suo giornale la vita all'interno del CPT di Lamezia
Terme (le immagini che Caffè Europa pubblica
in esclusiva ci sono state generosamente donate proprio
da lui, ndr), o di un altro giornalista che è
entrato in maniera truffaldina in un centro di Milano,
qualche anno fa. Nei CPT la maggior parte delle persone
non può entrare affatto.
Diversamente dalle carceri.
Sì, è incredibile, e per quale motivo?
Cosa c'è da nascondere lì dentro? Noi
ci siamo stati, e più che cose da nascondere,
ci sono cose da evidenziare. Per esempio il fatto
che non c'è nessuna separazione tra ex detenuti
e persone che sono lì solo perché hanno
un permesso di soggiorno scaduto. E' scandaloso. Ragazzetti
di diciotto anni che vengono messi insieme ad adulti
che hanno alle spalle anni di carcere per reati gravi.
Alcuni ci hanno testimoniato la paura di subire violenze
sessuali.
Qual è l'interesse della comunità
a che questi centri funzionino meglio?
Da cittadino, mi spaventa molto che il mio paese
spenda cifre sconsiderate per una situazione come
quella della deterrenza, quando poi i risultati sono
assolutamente scadenti, e quando invece non si fa
nulla per l'integrazione. Nel corso degli anni la
nostra immigrazione è cambiata, i figli dei
clandestini nascono in Italia e sono quindi italiani.
Eppure non si spende praticamente nulla per il cursus
dell'integrazione. L'unico momento in cui se ne parla
è quando entrano in gioco i decreti flussi:
ci servono delle persone per lavorare, e dunque è
bene che vengano e che vengano integrate, perché
a noi servono. La politica dell'immigrazione va pensata
in senso più ampio, perché gli immigrati
continuano ad arrivare: c'è stato l'accordo
italo-libico del 19 giugno del 2003 con Gheddafi,
eppure in seguito sono arrivate altre 5000 persone
dalla Libia.
Siamo convinti altrettanto che sia sbagliato chiamarle
i CPT lager e avere un atteggiamento da centro sociale,
che non porta da nessuna parte. E' facile mettere
le tende davanti ai centri, può anche essere
importante perché attira un po' di attenzione,
ma non si va un centimetro più in là
con l'antagonismo. Ci deve essere una discussione
molto franca tenendo conto che gli stesso partiti
alla cui area questi manifestanti appartengono hanno
messo in piedi i centri. Esorterei i no-global e i
No-CPT ad essere molto più propositivi, anche
da un punto di vista politico.
E per i centri per i quali chiedete la chiusura?
Lì c'è solo un baratro, quei centri
sono un disastro da un punto di vista strutturale
e della gestione interna. Nel CPT di Torino la Crocerossa
italiana si veste in divisa militare. Come fai a dichiararti
indipendente e neutrale quando non solo lavori per
un ufficio territoriale del governo, ma poi ti vesti
anche da militare?
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