249 - 20.03.04


Cerca nel sito
Cerca WWW
La ricetta tedesca di Schily
Daniele Castellani Perelli


“Se la sinistra si occupa dell’immigrazione partendo dal presupposto che chiunque arrivi, proveniente da una nazione straniera, sia il benvenuto e sia un guadagno per il Paese, commette un grave errore di ingenuità”. Il ministro degli Interni tedesco Otto Schily parlava così, il 24 aprile 2002, in un’intervista al Corriere della Sera. Sufficientemente severo e realista da piacere all’opposizione e agli industriali, responsabile e aperto quanto basta per ricoprire dal 1998 il suo incarico nella non sempre serena alleanza rosso-verde del Cancelliere Schroeder, Schily è cosciente che la Germania è un paese d’immigrazione, per tradizione, per doveri umanitari e per forti interessi economici. Con pragmatismo l’ex avvocato berlinese ha saputo mettere in pratica, da sinistra, una politica dell’immigrazione che è all’avanguardia in Europa e che ha fatto sì che l’opposizione della Cdu non abbia mai potuto puntare la campagna elettorale, da quando c’è lui, sul tema della sicurezza interna. “Non possiamo permetterci di lasciare alla destra tematiche come queste”, ripete spesso Schily, la cui ricetta è quella di affrontare l’immigrazione col più largo consenso possibile, con una politica di centro che sia per il cittadino comune più attraente di quella dei populisti come Le Pen o come l’ex giudice amburghese Roland Schill, una politica che sappia dare risposte “alle persone a reddito più basso, le quali si confrontano con i problemi quotidiani dell’integrazione dei nuovi venuti, con la piccola criminalità che può, in determinati casi, accompagnarsi ad alcuni gruppi di immigrati”.

In Germania vivono poco più di 7 milioni di stranieri (dato stabile da nove anni), che equivale a circa il 9% della popolazione (contro il 4,2% italiano). I turchi, la componente più numerosa, sono 2,2 milioni (28% di tutti gli immigrati). Se extraeuropei, gli stranieri non possono votare in nessun caso. Secondo i calcoli effettuati dall’Onu, la Germania ha bisogno di 500 mila nuovi stranieri l’anno fino al 2025, per mantenere i suoi livelli di vita. La situazione appare oggi tutt’altro che preoccupante, visto che l’immigrazione in Germania è in calo costante da tre anni: nel 2002 sono entrati 650.000 immigrati, ma ne sono usciti 500.000.

Le leggi di Schily, tra sviluppo economico e integrazione
Otto Schily, ministro socialdemocratico, legò il suo nome di avvocato alla difesa di alcuni terroristi della Raf, le Brigate rosse tedesche. Garantista e con un forte senso dello Stato, ha 72 anni e ama la campagna senese. Si definisce “un piccolo contadino toscano”, mentre Schroeder, riferendosi al capo della sicurezza interna di Napoleone, dice di lui: “E’ il mio Fouché”.
La prima legge sull’immigrazione da lui presentata è entrata in vigore il primo gennaio 2000, e ha sancito il passaggio dal diritto del sangue a quello del suolo, ponendo fine alla norma guglielmina che dal 1913 impediva ai figli di residenti stranieri nati in Germania di acquisire automaticamente la cittadinanza tedesca. Con la legge di Schily sono stati ridotti da 15 a 8 gli anni di residenza necessari agli adulti per ottenere il passaporto tedesco, e si è concessa la possibilità della doppia cittadinanza ai figli di stranieri nati in Germania, con l’obbligo di scegliere, compiuti i 23 anni, tra la tedesca e quella d’origine, e solo se almeno uno dei genitori fosse venuto al mondo su territorio tedesco o vi risiedesse da almeno otto anni. Nonostante Verdi e Cdu, per opposti motivi elettorali, abbiano spesso tirato per la giacchetta il ministro, le proposte di Schily hanno avuto il grande merito di incontrare il favore della stragrande maggioranza della società tedesca.

Era cristiano-democratica la presidente della Commissione dei saggi che, nell’estate 2001, venne incaricata dal governo di studiare il fenomeno dell’immigrazione. La Commissione di Rita Süssmuth, che definì la sfida dell’immigrazione come “la più importante dei prossimi decenni”, concluse che la Germania aveva urgente bisogno di tre tipi di immigrati: provvisori (con un visto di durata non superiore ai 5 anni), definitivi e, soprattutto, giovani qualificati, ovvero studenti che completassero la propria formazione nelle università tedesche e che in Germania venissero incentivati poi a rimanere. Il documento della Commissione, che era composta da personalità indipendenti e da rappresentanti dell’imprenditoria e delle Chiese, non si fermava però al dato economico, ma indicava anche come favorire l’integrazione degli immigrati: lo Stato e i Länder avrebbero dovuto offrire agli adulti corsi di lingua, di educazione civica, di storia, usi e tradizioni, mentre per i figli degli immigrati avrebbero dovuto inserire ore straordinarie di tedesco sin dalle scuole elementari, assumere nuovi educatori d’origine straniera e garantire regolari lezioni di religione islamica. Le proposte della Commissione Süssmuth vennero considerate troppo “aperturiste” dalla Cdu, ma furono accolte positivamente dagli industriali, dalle Chiese, dall’opposizione liberale e soprattutto dal governo, che ne ricavò una nuova legge, approvata il 22 marzo 2002.

L’immigrazione qualificata come arma nella globalizzazione
Secondo questa seconda legge, i Länder avrebbero indicato, in base ai bisogni dei mercati regionali del lavoro, quali dovessero essere i livelli d’immigrazione necessari e sostenibili ogni anno. Si distingueva un doppio regime. Da un lato gli immigrati ad alta qualificazione (informatici, manager, ricercatori e scienziati), cui doveva esser concesso un permesso di soggiorno e di lavoro illimitato; dall’altro gli immigrati comuni, ai quali, sulla base di un sistema a punti di tipo canadese, veniva riservato un permesso a termine, rinnovabile in base all’andamento dell’economia. I giovani che avessero invece completato i loro studi in Germania, avrebbero potuto rimanere e lavorare senza limiti, a condizione che trovassero un’occupazione entro un anno. “Abbiamo bisogno di una prassi flessibile nelle decisioni in materia di immigrazione, per ragioni di lavoro, – spiegava Schily il 10 settembre 2001 – l’economia non può permettersi di lasciare vuoti i posti per i quali non c’è offerta disponibile in Germania, specie quelli ad alto contenuto tecnologico. La questione è cruciale, perché la competizione per i migliori cervelli è mondiale”.
Otto Schily la giudicò “la legge sull’immigrazione più moderna in Europa”, e aggiunse: “Ora la Germania ha una legge che rende giustizia alle sue aspirazioni umanitarie e apre le porte alle forze di cui abbiamo bisogno, per mantenere la nostra prosperità economica”.

L’appoggio al piano Nettuno e il no alle quote europee
Schily è sempre stato consapevole delle connessioni internazionali del suo lavoro, di come il tema dell’immigrazione sia impossibile da affrontare prescindendo dal contesto europeo e globale. Poche settimane dopo l’11 settembre fece approvare misure severe per combattere il terrorismo, come l’uso delle intercettazioni telefoniche e del profiling, l’identikit al computer. Propose anche, con scandalo della sinistra, l’obbligo delle impronte digitali come mezzo di identificazione per chiunque chiedesse un visto d’ingresso in Germania.
Già nel gennaio del 2000 Schily proponeva inoltre un approccio europeo al tema. E’ sempre stato in prima fila per forzare i tempi sul collegamento degli archivi e delle banche dati, sulla generalizzazione del profiling e sul mandato di cattura europeo: “Il Trattato di Amsterdam definisce l’Europa come spazio comune della sicurezza, della libertà e dello Stato di diritto – dichiarò una volta – Se queste parole significano qualcosa, dobbiamo esser conseguenti. Apparteniamo tutti alla stessa realtà”. Da questo convincimento è venuto naturale l’appoggio alla Presidenza italiana, nell’agosto scorso, per la realizzazione del piano Nettuno sul controllo congiunto dei confini marittimi, aerei e terrestri affidato al coordinamento dei vari paesi. Alla Germania è stata affidata la sorveglianza dei confini terrestri, all’Italia quello degli aeroporti. Sulle quote degli immigrati, però, Schily pensa che debbano continuare ad essere i singoli Stati a decidere, sulla base delle loro necessità economiche.

Attualità: una nuova legge, la Turchia e l’est
Nella campagna elettorale del 2001 Edmund Stoiber, candidato cristiano-democratico, rispolverò una parola cara a Goebbels: Uberfremdung, eccesso di stranieri. La battaglia contro la Zuwanderungsgesetz, la legge sugli immigrati, si è fatta più aspra da quando Stoiber è il leader della Cdu/Csu. “Quando si hanno quattro milioni di disoccupati è irresponsabile aprire il mercato del lavoro a tutti”, dice populisticamente il governatore della Baviera, che oggi però potrebbe risultare fondamentale per l’approvazione della nuova legge. Quella del marzo 2002, infatti, era stata dichiarata illegittima dalla Corte Costituzionale a causa di una controversia al momento del voto. Da un anno e mezzo la maggioranza è al lavoro su un nuovo testo, di nuovo approvato nel 2003 dalla Camera bassa ma bocciato, nonostante il consenso degli imprenditori, dal Bundesrat a maggioranza cristiano-democratica. In queste settimane si è alla resa dei conti. Schily annuncia che la legge “è nel nostro interesse economico” e che “è impossibile un accordo senza i Verdi”, ma perché passi alla Camera alta c’è bisogno dell’approvazione della Cdu/Csu. Il progetto lega l’immigrazione della forza-lavoro alle esigenze del mercato, restringe il diritto di ricongiungimento familiare, ammorbidisce le regole per chi chiede asilo, e prevede per chi vuole immigrare un sistema a punti basato su criteri come il livello di qualificazione, l’età e la conoscenza della lingua tedesca.

D’attualità sono però in Germania, riguardo all’immigrazione, due altri temi. L’ingresso della Turchia nell’Unione divide destra e sinistra, con il Cancelliere Schroder che, dopo l’ennesimo incontro con il premier Erdogan, è ormai lo sponsor principale e più concreto dell’adesione di Istanbul. L’allargamento ad Est, previsto per il primo maggio, pone invece il problema dell’arrivo di nuovi lavoratori immigrati. Tony Blair ha già minacciato l’espulsione di chi non vorrà lavorare. Per quanto riguarda la Germania l’Istituto tedesco per la ricerca economica di Berlino (Diw Berlin) ha quantificato in 180.000 l’anno gli arrivi dall’Est dopo l’allargamento, collocando la Germania al primo posto davanti a Italia e Austria, come meta dei lavoratori dei paesi ex-comunisti. Secondo un sondaggio della Fondazione Konrad Adenauer, pubblicato il 27 febbraio, solo un tedesco su cinque condivide l’allargamento ad est, temendo una minore competitività delle proprie aziende e un aumento della criminalità, mentre il 63% è contrario all’adesione della Turchia. Persino tra gli elettori della Spd, il 53% pensa che l’allargamento arrivi troppo presto. La politica dell’immigrazione sembra essere davvero “la sfida più importante dei prossimi decenni”. La Germania sa però di poter contare su una sinistra realista, su imprenditori vigili e su un ministro degli Interni aperto e rispettato. “Das Land, das die Fremden nicht beschützt, geht bald unter”, scrisse Goethe. “La terra che non protegge gli stranieri tramonta presto”. Anche economicamente, aggiungerebbe Schily.

 

 

 

 

 

 

Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti da fare? Scriveteci il vostro punto di vista a
redazione@caffeeuropa.it