“Se
la sinistra si occupa dell’immigrazione partendo
dal presupposto che chiunque arrivi, proveniente da
una nazione straniera, sia il benvenuto e sia un guadagno
per il Paese, commette un grave errore di ingenuità”.
Il ministro degli Interni tedesco Otto Schily parlava
così, il 24 aprile 2002, in un’intervista
al Corriere della Sera. Sufficientemente severo e
realista da piacere all’opposizione e agli industriali,
responsabile e aperto quanto basta per ricoprire dal
1998 il suo incarico nella non sempre serena alleanza
rosso-verde del Cancelliere Schroeder, Schily è
cosciente che la Germania è un paese d’immigrazione,
per tradizione, per doveri umanitari e per forti interessi
economici. Con pragmatismo l’ex avvocato berlinese
ha saputo mettere in pratica, da sinistra, una politica
dell’immigrazione che è all’avanguardia
in Europa e che ha fatto sì che l’opposizione
della Cdu non abbia mai potuto puntare la campagna
elettorale, da quando c’è lui, sul tema
della sicurezza interna. “Non possiamo permetterci
di lasciare alla destra tematiche come queste”,
ripete spesso Schily, la cui ricetta è quella
di affrontare l’immigrazione col più
largo consenso possibile, con una politica di centro
che sia per il cittadino comune più attraente
di quella dei populisti come Le Pen o come l’ex
giudice amburghese Roland Schill, una politica che
sappia dare risposte “alle persone a reddito
più basso, le quali si confrontano con i problemi
quotidiani dell’integrazione dei nuovi venuti,
con la piccola criminalità che può,
in determinati casi, accompagnarsi ad alcuni gruppi
di immigrati”.
In
Germania vivono poco più di 7 milioni di stranieri
(dato stabile da nove anni), che equivale a circa
il 9% della popolazione (contro il 4,2% italiano).
I turchi, la componente più numerosa, sono
2,2 milioni (28% di tutti gli immigrati). Se extraeuropei,
gli stranieri non possono votare in nessun caso. Secondo
i calcoli effettuati dall’Onu, la Germania ha
bisogno di 500 mila nuovi stranieri l’anno fino
al 2025, per mantenere i suoi livelli di vita. La
situazione appare oggi tutt’altro che preoccupante,
visto che l’immigrazione in Germania è
in calo costante da tre anni: nel 2002 sono entrati
650.000 immigrati, ma ne sono usciti 500.000.
Le leggi di Schily, tra sviluppo economico
e integrazione
Otto Schily, ministro socialdemocratico,
legò il suo nome di avvocato alla difesa di
alcuni terroristi della Raf, le Brigate rosse tedesche.
Garantista e con un forte senso dello Stato, ha 72
anni e ama la campagna senese. Si definisce “un
piccolo contadino toscano”, mentre Schroeder,
riferendosi al capo della sicurezza interna di Napoleone,
dice di lui: “E’ il mio Fouché”.
La prima legge sull’immigrazione da lui presentata
è entrata in vigore il primo gennaio 2000,
e ha sancito il passaggio dal diritto del sangue a
quello del suolo, ponendo fine alla norma guglielmina
che dal 1913 impediva ai figli di residenti stranieri
nati in Germania di acquisire automaticamente la cittadinanza
tedesca. Con la legge di Schily sono stati ridotti
da 15 a 8 gli anni di residenza necessari agli adulti
per ottenere il passaporto tedesco, e si è
concessa la possibilità della doppia cittadinanza
ai figli di stranieri nati in Germania, con l’obbligo
di scegliere, compiuti i 23 anni, tra la tedesca e
quella d’origine, e solo se almeno uno dei genitori
fosse venuto al mondo su territorio tedesco o vi risiedesse
da almeno otto anni. Nonostante Verdi e Cdu, per opposti
motivi elettorali, abbiano spesso tirato per la giacchetta
il ministro, le proposte di Schily hanno avuto il
grande merito di incontrare il favore della stragrande
maggioranza della società tedesca.
Era cristiano-democratica la presidente della Commissione
dei saggi che, nell’estate 2001, venne incaricata
dal governo di studiare il fenomeno dell’immigrazione.
La Commissione di Rita Süssmuth, che definì
la sfida dell’immigrazione come “la più
importante dei prossimi decenni”, concluse che
la Germania aveva urgente bisogno di tre tipi di immigrati:
provvisori (con un visto di durata non superiore ai
5 anni), definitivi e, soprattutto, giovani qualificati,
ovvero studenti che completassero la propria formazione
nelle università tedesche e che in Germania
venissero incentivati poi a rimanere. Il documento
della Commissione, che era composta da personalità
indipendenti e da rappresentanti dell’imprenditoria
e delle Chiese, non si fermava però al dato
economico, ma indicava anche come favorire l’integrazione
degli immigrati: lo Stato e i Länder avrebbero
dovuto offrire agli adulti corsi di lingua, di educazione
civica, di storia, usi e tradizioni, mentre per i
figli degli immigrati avrebbero dovuto inserire ore
straordinarie di tedesco sin dalle scuole elementari,
assumere nuovi educatori d’origine straniera
e garantire regolari lezioni di religione islamica.
Le proposte della Commissione Süssmuth vennero
considerate troppo “aperturiste” dalla
Cdu, ma furono accolte positivamente dagli industriali,
dalle Chiese, dall’opposizione liberale e soprattutto
dal governo, che ne ricavò una nuova legge,
approvata il 22 marzo 2002.
L’immigrazione qualificata come
arma nella globalizzazione
Secondo questa seconda legge, i Länder avrebbero
indicato, in base ai bisogni dei mercati regionali
del lavoro, quali dovessero essere i livelli d’immigrazione
necessari e sostenibili ogni anno. Si distingueva
un doppio regime. Da un lato gli immigrati ad alta
qualificazione (informatici, manager, ricercatori
e scienziati), cui doveva esser concesso un permesso
di soggiorno e di lavoro illimitato; dall’altro
gli immigrati comuni, ai quali, sulla base di un sistema
a punti di tipo canadese, veniva riservato un permesso
a termine, rinnovabile in base all’andamento
dell’economia. I giovani che avessero invece
completato i loro studi in Germania, avrebbero potuto
rimanere e lavorare senza limiti, a condizione che
trovassero un’occupazione entro un anno. “Abbiamo
bisogno di una prassi flessibile nelle decisioni in
materia di immigrazione, per ragioni di lavoro, –
spiegava Schily il 10 settembre 2001 – l’economia
non può permettersi di lasciare vuoti i posti
per i quali non c’è offerta disponibile
in Germania, specie quelli ad alto contenuto tecnologico.
La questione è cruciale, perché la competizione
per i migliori cervelli è mondiale”.
Otto Schily la giudicò “la legge sull’immigrazione
più moderna in Europa”, e aggiunse: “Ora
la Germania ha una legge che rende giustizia alle
sue aspirazioni umanitarie e apre le porte alle forze
di cui abbiamo bisogno, per mantenere la nostra prosperità
economica”.
L’appoggio al piano Nettuno e il
no alle quote europee
Schily è sempre stato consapevole
delle connessioni internazionali del suo lavoro, di
come il tema dell’immigrazione sia impossibile
da affrontare prescindendo dal contesto europeo e
globale. Poche settimane dopo l’11 settembre
fece approvare misure severe per combattere il terrorismo,
come l’uso delle intercettazioni telefoniche
e del profiling, l’identikit al computer.
Propose anche, con scandalo della sinistra, l’obbligo
delle impronte digitali come mezzo di identificazione
per chiunque chiedesse un visto d’ingresso in
Germania.
Già nel gennaio del 2000 Schily proponeva
inoltre un approccio europeo al tema. E’ sempre
stato in prima fila per forzare i tempi sul collegamento
degli archivi e delle banche dati, sulla generalizzazione
del profiling e sul mandato di cattura europeo:
“Il Trattato di Amsterdam definisce l’Europa
come spazio comune della sicurezza, della libertà
e dello Stato di diritto – dichiarò una
volta – Se queste parole significano qualcosa,
dobbiamo esser conseguenti. Apparteniamo tutti alla
stessa realtà”. Da questo convincimento
è venuto naturale l’appoggio alla Presidenza
italiana, nell’agosto scorso, per la realizzazione
del piano Nettuno sul controllo congiunto dei confini
marittimi, aerei e terrestri affidato al coordinamento
dei vari paesi. Alla Germania è stata affidata
la sorveglianza dei confini terrestri, all’Italia
quello degli aeroporti. Sulle quote degli immigrati,
però, Schily pensa che debbano continuare
ad essere i singoli Stati a decidere, sulla base delle
loro necessità economiche.
Attualità: una nuova
legge, la Turchia e l’est
Nella campagna elettorale del 2001 Edmund Stoiber,
candidato cristiano-democratico, rispolverò
una parola cara a Goebbels: Uberfremdung,
eccesso di stranieri. La battaglia contro la Zuwanderungsgesetz,
la legge sugli immigrati, si è fatta più
aspra da quando Stoiber è il leader della Cdu/Csu.
“Quando si hanno quattro milioni di disoccupati
è irresponsabile aprire il mercato del lavoro
a tutti”, dice populisticamente il governatore
della Baviera, che oggi però potrebbe risultare
fondamentale per l’approvazione della nuova
legge. Quella del marzo 2002, infatti, era stata dichiarata
illegittima dalla Corte Costituzionale a causa di
una controversia al momento del voto. Da un anno e
mezzo la maggioranza è al lavoro su un nuovo
testo, di nuovo approvato nel 2003 dalla Camera bassa
ma bocciato, nonostante il consenso degli imprenditori,
dal Bundesrat a maggioranza cristiano-democratica.
In queste settimane si è alla resa dei conti.
Schily annuncia che la legge “è nel nostro
interesse economico” e che “è impossibile
un accordo senza i Verdi”, ma perché
passi alla Camera alta c’è bisogno dell’approvazione
della Cdu/Csu. Il progetto lega l’immigrazione
della forza-lavoro alle esigenze del mercato, restringe
il diritto di ricongiungimento familiare, ammorbidisce
le regole per chi chiede asilo, e prevede per chi
vuole immigrare un sistema a punti basato su criteri
come il livello di qualificazione, l’età
e la conoscenza della lingua tedesca.
D’attualità sono però in Germania,
riguardo all’immigrazione, due altri temi. L’ingresso
della Turchia nell’Unione divide destra e sinistra,
con il Cancelliere Schroder che, dopo l’ennesimo
incontro con il premier Erdogan, è ormai lo
sponsor principale e più concreto dell’adesione
di Istanbul. L’allargamento ad Est, previsto
per il primo maggio, pone invece il problema dell’arrivo
di nuovi lavoratori immigrati. Tony Blair ha già
minacciato l’espulsione di chi non vorrà
lavorare. Per quanto riguarda la Germania l’Istituto
tedesco per la ricerca economica di Berlino (Diw Berlin)
ha quantificato in 180.000 l’anno gli arrivi
dall’Est dopo l’allargamento, collocando
la Germania al primo posto davanti a Italia e Austria,
come meta dei lavoratori dei paesi ex-comunisti. Secondo
un sondaggio della Fondazione Konrad Adenauer, pubblicato
il 27 febbraio, solo un tedesco su cinque condivide
l’allargamento ad est, temendo una minore competitività
delle proprie aziende e un aumento della criminalità,
mentre il 63% è contrario all’adesione
della Turchia. Persino tra gli elettori della Spd,
il 53% pensa che l’allargamento arrivi troppo
presto. La politica dell’immigrazione sembra
essere davvero “la sfida più importante
dei prossimi decenni”. La Germania sa però
di poter contare su una sinistra realista, su imprenditori
vigili e su un ministro degli Interni aperto e rispettato.
“Das Land, das die Fremden nicht beschützt,
geht bald unter”, scrisse Goethe. “La
terra che non protegge gli stranieri tramonta presto”.
Anche economicamente, aggiungerebbe Schily.
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