11
luglio 2002. Il Senato dà il via libera definitivo
alla Bossi-Fini, ovvero, diventano legge le idee del
centro-destra per regolamentare l’immigrazione
e la condizione degli stranieri in Italia. La discussione
alle Camere è stata preceduta da lunghe e accese
discussioni tra le parti politiche e all’interno
della stessa maggioranza, e ancora oggi la legge –
a più di un anno dalla sua entrata in vigore
– continua a suscitare divergenze e dibattiti.
Ma perché tante parole? In che cosa questa
legge è così diversa dalla Turco-Napolitano,
promossa dai più recenti governi di centro-sinistra?
Quali sono, in altre parole, gli argomenti, le prese
di posizione, le definizioni, le novità introdotte
che tanto hanno animato il dibattito del’opinione
pubblica italiana e che cambiano così radicalmente
la realtà rispetto alla Turco-Napolitano? Uno
sguardo ai punti-chiave della nuova legge ci aiuterà
a mettere in evidenza rotture e continuità
con il passato, ci aiuterà a capire nel dettaglio
dove sono i cambiamenti più significativi e
dove invece la situazione è rimasta più
o meno la stessa.
La nuova legge abbassa a due anni (rispetto ai tre
stabiliti dalla Turco-Napolitano) il periodo di validità
del permesso di soggiorno che viene concesso soltanto
agli stranieri in possesso di regolare contratto di
lavoro. Dopo cinque anni (contro i sei previsti dalla
legge precedente) di regolare soggiorno in Italia,
lo straniero ha diritto alla carta di soggiorno, un
permesso che non ha bisogno di ulteriori rinnovi salvo
casi eccezionali come i cambi di residenza, dei dati
del passaporto o dello stato civile.
Una volta scaduto il permesso di soggiorno, la Bossi-Fini
concede all’immigrato sei mesi di tempo (la
metà rispetto ai dodici previsti dal centro-sinistra)
per procurarsi un nuovo contratto di lavoro che gli
consenta di rinnovarlo, se entro questo limite di
tempo non ci saranno le condizioni per avere diritto
a un nuovo permesso, scatta l’espulsione dal
suolo italiano e l’immigrato dovrà tornare
in patria.
L’espulsione,
quindi, rimane la misura prevista per gli immigrati
non i regola con la legge, ma anche qui ci sono delle
differenze rispetto al passato. La Turco-Napolitano
aveva predisposto dei centri di permanenza in cui
gli stranieri privi di documenti venivano portati
per un periodo masimo di trenta giorni entro cui portare
a termine le pratiche di identificazione, la Bossi-
Fini raddoppia tale periodo a sessanta giorni, se
poi l’immigrato non viene identificato entro
il termine stabilito, scatta l’espulsione entro
tre giorni (contro i quindici della legge precedente).
A questo punto la Bossi-Fini presenta un nuovo cambiamento
importante rispetto al passato: introduce nel codice
penale il reato di immigrazione clandestina. In altre
parole, uno straniero espulso dall’Italia perché
non in possesso di permesso di soggiorno, per dieci
anni deve stare fuori dal nostro paese se non riesce
a regolarizzare la sua posizione, nel caso venisse
trovato di nuovo entro i confini nazionali in condizione
di clandestinità, viene arrestato e portato
in carcere.
Uno degli aspetti che ha sollevato molte voci polemiche
intorno alla nuova legge riguarda le impronte digitali.
A tutti coloro, infatti, che chiedono il permesso
di soggiorno o ne richiedono il rinnovo, vengono rilevate
le impronte digitali in modo tale da creare un data
base con i dati identificativi di tutti gli immigrati
che vivono in Italia. Al datore di lavoro spetta il
compito di fornire alle autorità competenti
garanzie circa la disponibilità di alloggio
per il lavoratore immigrato, mentre chi fa lavorare
extracomunitari primi di permesso di soggiorno valido
rischia l’arresto da tre mesi a un anno e multe
fino 5.000 euro per ogni lavoratore non in regola.
Altre due novità assolute della Bossi-Fini
meritano di essere sottolineate. Da una parte scompare
il meccanismo dello sponsor, istituito dalla legge
precedente, che offriva a una persona italiana la
possibilità di farsi garante per l’ingresso
di due extracomunitari. Questo meccanismo permetteva
così l’ingresso nel nostro paese a persone
che si presentavano in Italia con una sicura destinazione
e con provate garanzie.
D’altra parte qualcosa è cambiato anche
in materia di ricongiungimenti familiari. Il cittadino
extracomunitario, in regola con i permessi, può
essere raggiunto in Italia da un parente di primo
grado ma con alcune limitazioni: il coniuge, il figlio
minore o i figli maggiorenni possono ricongiungersi
al familiare immigrato purché siano a carico
e dimostrino di non poter provvedere al proprio sostentamento.
I genitori possono invece ricongiungersi al figlio
(o alla figlia) emigrato in Italia solo dopo aver
compiuto 65 anni e se nessun altro figlio può
provvedere al loro sostentamento.
Questi sono alcuni dei punti salienti su cui si è
svolta, e continua a svolgersi, la discussione intorno
alla legge sull’immigrazione. Da una parte le
critiche dell’opposizione, dall’altra
le risposte e le difese della maggioranza; ma all’interno
della stessa coalizione di governo il dibattito è
animato, soprattutto su due argomenti.
Il primo riguarda le quote di immigrati che hanno
accesso ogni anno al nostro paese. La Bossi-Fini demanda
al Presidente del Consiglio il compito di emanare
ogni 30 novembre un decreto che fissi, di anno in
anno, il numero di immigrati ammessi, ma dalla voce
di Gianfranco Fini si è affacciata la possibilità
di eliminare le quote, entrate in vigore con la Turco-Napolitano;
e sempre dal vice-premier arriva anche l’idea
di concedere agli immigrati la possibilità
di votare alle elezioni comunali e di essere eletti. La proposta di Alleanza Nazionale sul voto agli immigrati, la cui approvazione renderebbe necessaria la modifica dell'articolo 48 della Costituzione secondo il quale sono "elettori tutti i cittadini" italiani maggiorenni, riguarda particolarmente il fatto che se uno straniero vive in
Italia da almeno sei anni, è in regola con
i permessi di soggiorno, ha un lavoro che gli consenta
di mantenere sé e la sua famiglia e, ovviamente,
può dimostrare di aver regolarmente pagato
le tasse può avere il diritto non solo di eleggere
i rappresentanti del municipio e della comunità
in cui vive, ma anche di presentare la propria candidatura
al consiglio comunale e circoscrizionale (esclusi
i ruoli di sindaco e vice sindaco che gli sono preclusi).
E qui inizia la bagarre nella maggioranza,
la voce della Lega è ovviamente la più
cupa e rumorosa nel bocciare la proposta. Il sasso
intanto è lanciato e il dibattito si è
acceso.
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