Alcune
settimane fa, nel corso della trasmissione televisiva
Otto e mezzo, Giuliano Ferrara, uno dei principali
consiglieri di politica estera di Silvio Berlusconi,
ha voluto provocare il suo ospite, il ministro degli
Esteri Franco Frattini, su una recente iniziativa
del suo omologo francese Dominique de Villepin, che
sulle pagine di Le Monde aveva ipotizzato
la nascita di un superstato franco-tedesco. Ad uno
stupìto Ferrara, noto avversario dell’asse
“antiamericano” tra Parigi e Berlino,
Frattini ha invece tessuto le lodi del suo coraggioso
“amico” Villepin. L’episodio, avvenuto
in piena Conferenza Intergovernativa (Cig), ci dice
due cose molto interessanti sulla politica estera
italiana di questo avventuroso 2003, l’anno
della guerra in Iraq e del fallimento delle trattative
sulla Costituzione europea. Ci dice che la politica
estera del secondo governo Berlusconi è stata
finora molto meno lineare di quanto si creda, e che
gli uomini che l’hanno fatta non si sono sempre
schiacciati sulle posizioni del premier. Vediamo ora
di farne un bilancio, riepilogando la posizione dell’Italia
su quattro grandi argomenti: il Medio Oriente, la
guerra in Iraq, l’allargamento dell’Unione
e la Costituzione europea.
Medio Oriente
Dal Medio Oriente è venuta nel 2003 la maggiore
novità della politica estera italiana. In breve
tempo Silvio Berlusconi, nonostante le radici craxiane,
ha portato l’Italia ad essere, come ha dichiarato
il premier israeliano Ariel Sharon il 17 novembre
scorso, “il piu’ grande amico che Israele
abbia in Europa”. E’ stata così
ribaltata quella simpatia filoaraba che aveva contraddistinto
la politica di Dc e Psi nei decenni passati. Perché
si arrivasse alla svolta, è stato certo fondamentale
il contributo di due uomini in particolare. Uno è
Giuliano Ferrara, consigliere del principe, che il
15 aprile 2002 ha promosso a Roma l’Israele
Day. L’altro è Gianfranco Fini, che,
nella necessità di chiudere i conti del proprio
partito con il passato, si trova ora nella paradossale
situazione, per dirla un po’ rudemente, di non
poter più criticare un qualsiasi aspetto della
politica israeliana.
Sull’altro
fronte, di conseguenza, l’Italia si è
resa protagonista di azioni che hanno fatto indispettire
il mondo arabo e palestinese. Se appare comprensibile
ed anzi lodevole l’iniziativa presa dalla Presidenza
Italiana dell’Unione a inizio settembre, quando
al vertice di Riva del Garda Hamas è stata
fatta inserire nella lista nera delle organizzazioni
terroristiche, assai meno convincente fu la decisione
presa da Berlusconi ad inizio giugno, quando, in viaggio
in Medio Oriente, si rifiutò di incontrare
Arafat. La scelta provocò una dura polemica
tra il premier italiano e il ministro francese de
Villepin, secondo il quale la posizione italiana non
era “in linea con quella dell’Europa”.
Solo una volta, nel 2003, il nostro governo non si
è uniformato alla posizione americana in tema
di Medio Oriente. E’ stato in luglio, quando,
al termine del suo viaggio nella regione, Franco Frattini
ha auspicato l’allargamento della road map
anche a Siria e Libano. Per il resto l’Italia
è sembrata spesso farsi dettare la politica
mediorientale dagli Stati Uniti, tanto da rimanere
clamorosamente spiazzata ed esclusa dall’eccellente
missione europea a Teheran di Gran Bretagna, Francia
e Germania, che in ottobre hanno sbloccato la crisi
sul programma nucleare dell’Iran.
Iraq
Anche a proposito della guerra all’Iraq il nostro
esecutivo è sembrato farsi ingenuamente dettare
la posizione dall’amministrazione Bush. Gli
obiettivi erano due: fare dell’Italia il principale
alleato dell’America in Europa e ottenere vantaggi
economici dalla vittoria della guerra. Entrambi però
possono dirsi falliti. La Gran Bretagna e la Spagna
sono state alleate più utili dell’Italia,
sia per l’apporto militare sia per l’appoggio
diplomatico in sede Onu, visto che la Spagna, che
eppure nel dopoguerra iracheno ha contribuito con
truppe meno consistenti delle nostre, era membro provvisorio
nel Consiglio di Sicurezza. Non è un caso che
Aznar abbia partecipato al famoso Vertice delle Azzorre,
dal quale Bush e Blair hanno annunciato la guerra,
e dal quale l’Italia è rimasta esclusa.
I vantaggi economici non si sono ancora visti, e politicamente
la posizione del nostro esecutivo è sembrata
inutilmente servile. Non era sbagliato porsi come
collante tra Washington e Bruxelles, anzi era legittimo
per una media potenza che avrebbe rischiato, come
il meno autorevole Belgio, di venire schiacciato dall’asse
franco-tedesco. Ma Roma, come invece le chiedeva il
Presidente Ciampi, sull’Iraq non è riuscita
né a favorire una posizione unitaria dell’Europa,
che invece ha ostacolato, né a lavorare veramente
per una soluzione di pace all’interno dell’Onu
(come le impone l’articolo 11 della Costituzione),
senza la cui legittimazione e il cui scudo i nostri
soldati in Iraq sono risultati drammaticamente impotenti.
Autoesclusasi dalla guerra per non dispiacere al mondo
cattolico, l’Italia, europeista e filoamericana,
aveva la carte giuste per lavorare ad un’intesa
dell’Europa e dell’Onu. Non ha saputo
giocarle.
L’allargamento dell’Unione
Anche riguardo all’allargamento dell’Unione
l’esecutivo italiano ha tenuto una posizione
che certo a Washington non è dispiaciuta. Tralasciando
l’allargamento ad est, che era processo ormai
da tempo avviato, con originalità e un pizzico
di sana follia Silvio Berlusconi ha lanciato e sponsorizzato
concretamente non solo l’ingresso della Turchia
nell’Ue (che è già in programma),
ma anche quello di Russia e Israele. E’ un’operazione
che potrebbe essere facilmente tacciata di americanismo,
visti i buoni rapporti che intercorrono tra i tre
paesi e gli Stati Uniti, ma i recenti dissensi tra
Ankara (e Mosca) e gli Stati Uniti non hanno fatto
recedere Silvio Berlusconi, accreditando l’ipotesi
che dietro la sua proposta ci sia invece una bizzarra,
ma assai interessante, visione di una Europa grandissima.
E’ questo il contributo più originale
e più lungimirante che Berlusconi ha offerto
nel 2003 alla politica estera italiana, successo adombrato
solo dalla solita pessima abitudine di concepire in
modo personalistico i rapporti tra Roma e gli altri
paesi, quasi che l’Italia gli appartenesse.
La Costituzione europea
Gli ultimi mesi della Presidenza dell’Unione
hanno segnato una svolta abbastanza sorprendente nella
politica estera italiana. Fino ad allora l’appoggio
incondizionato alla politica di Bush e lo scarso europeismo
di molti ministri (Tremonti, Martino, Bossi, Castelli)
avevano diffuso l’immagine di un esecutivo quasi
insofferente della costruzione europea. Episodi come
l’opposizione al mandato di cattura europeo,
la polemica sull’euro che costrinse alle dimissioni
l’ottimo Ruggero, l’ambiguo appoggio alla
guerra in Iraq, il battibecco con l’europarlamentare
Schulz, tutto aveva confermato quanto già era
emerso nella campagna elettorale del 2001: che le
distanze tra Roma e Bruxelles si sarebbero allungate,
e si sarebbero accorciate quelle con Washington.
Invece, negli ultimi mesi dell’anno si è
verificata una svolta europeista, che, nell’obiettivo
di raggiungere un accordo sulla Costituzione, ha posto
il nostro governo in diretto conflitto con l’alleato
spagnolo. La svolta è attribuibile essenzialmente
a tre motivi: alla volontà di raggiungere un
prestigioso successo internazionale (da poter poi
vantare in patria), alla constatazione della possibile
utilità dell’Europa su temi di politica
interna come l’immigrazione e la riforma delle
pensioni, all’opera di Franco Frattini e Umberto
Vattani. Del ministro degli Esteri abbiamo già
detto all’inizio l’originalità.
Il secondo, rappresentante permanente dell’Italia
presso l’Unione Europea, è stato ultimamente
indicato da The
Independent come un attore fondamentale della
diplomazia italiana.
Sono stati in molti a fare la politica estera italiana
nel 2003: Frattini, Vattani, Fini, Ciampi (la cui
moral suasion ha probabilmente influito sulla
scelta di non partecipare alla guerra in Iraq senza
l’avallo dell’Onu). Berlusconi non è
sempre stato dunque libero di imporre la sua visione
dei rapporti internazionali. Il ché, visto
il suo ostentato dilettantismo e le sue innumerevoli
gaffes (l’ultima delle quali, gravissima, sulla
Cecenia), molto spesso ci ha giovato. Detto questo,
e detto che l’Italia è rimasta fuori
anche dall’accordo a tre sulla difesa europea
(tra Francia, Germania e Gran Bretagna), va ammesso
che le colpe del mancato accordo sulla Costituzione
ricadono quasi esclusivamente su Spagna e Polonia.
Certo, se si ragionasse come Berlusconi (“fatto!”,
“la cultura del fare contro quella del dire”),
bisognerebbe concludere che questo semestre italiano
è stato un vero disastro (e così l’attuale
premier, c’è da giurarci, avrebbe detto
di un analogo insuccesso del centrosinistra), visto
che è stato mancato il grande obiettivo che
ci si era proposti. Purtroppo però per noi
il mondo è più complicato, e ammetteremo
che alcuni nodi del testo sono stati risolti, e che
il compromesso avanzato era buono. E’ sempre
più facile essere di destra. Beati loro.
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