243 - 27.12.03


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L’ombra di una partita a tre

Valdo Spini con Andrea Borghesi


“Gran Bretagna, Francia e Germania tendono ad affermare se stesse come una sorta di primo girone nella politica europea”. Valdo Spini, membro supplente della Convenzione europea in rappresentanza del Parlamento italiano, commenta così il documento sulla cooperazione in tema di difesa comune approvato al Conclave dei ministri degli Esteri dell’Unione a Napoli del 28 e 29 novembre.

Allora, onorevole Spini, mentre la Conferenza intergovernativa sulla Costituzione europea arranca, viene fuori, un po’ a sorpresa, questa novità sul versante della difesa comune. Lei come giudica il documento anglo-franco-tedesco di cooperazione rafforzata?

Il punto della difesa era uno degli elementi migliori e più nuovi varato dalla Convenzione europea. Questo progetto è stato frutto dell’elaborazione di un gruppo di lavoro di cui io stesso ho fatto parte presieduto dal commissario francese Michel Barnier. Rispetto al testo della Convenzione c’è qualche precisazione in più. Dal punto di vista della forma c’è da constatare ancora una volta come l’accordo sia stato preceduto da un documento britannico-franco-tedesco poi consegnato alla presidenza italiana che ha dovuto trovare un compromesso in sede di Conferenza dei ministri degli Esteri. Tutto ciò dovrebbe far riflettere l’Italia sul fatto che uno scimmiottamento di questi paesi non regge, mentre sarebbe utile avere una vera politica europea, vale a dire la ricerca continua della coesione tra i paesi dell’Unione.

La prima differenza è che, in questo accordo, si parla di cooperazione “inclusiva”, con possibilità di aggregazioni successive, mentre nel testo della Convenzione i termini della cooperazione “strutturata” dovevano essere definiti da tutti i paesi membri che partecipassero o meno alla difesa comune. In secondo luogo, è stato riaffermato, con molta chiarezza, il primato degli impegni della clausola di mutua assistenza in sede Nato.
Sulla questione del quartier generale di questa difesa europea si sono fronteggiate diverse posizioni, tra chi lo voleva fuori o dentro le strutture Nato, ed è stata raggiunta una mediazione nel senso che non ci sarà un quartier generale fuori dalla Nato ma c’è una certa libertà nel gestire operazioni al di fuori del contesto atlantico.

La complementarietà alla Nato è un cedimento dell’Europa a pressioni statunitensi?

Per me questa è un bandiera ideologica più che un fatto concreto. È indubbiamente riduttivo dire che l’Europa interviene solo quando la Nato dice che non gli interessa intervenire, ma se a chiederlo fosse l’Onu, a quel punto cadrebbe ogni pregiudiziale. È altrettanto evidente che non è pensabile un intervento in difformità alla posizione della Nato. Già oggi esistono forme di cooperazione: grazie all’accordo Berlin-Plus tra Nato e Ueo (Unione dell’Europa occidentale), che consente di mettere le strutture Nato a disposizione della forza d’intervento rapido europea - dichiarata operativa durante la presidenza greca -, abbiamo un contingente europeo in Macedonia. Anzi, se vogliamo, la vera garanzia che la Nato ha avuto è stata la dichiarazione del primato di mutua assistenza in sede Nato riaffermata nel documento di Napoli.

Rumsfeld, comunque, ha criticato l’accordo. Gli Stati Uniti sembrano dimostrare poca comprensione nei confronti dell’Ue su questo aspetto.

Questo è anche il risultato di una determinata fase storica. La precedente Amministrazione aveva incoraggiato un autonomo intervento europeo. Si pensi alle vicende balcaniche del precedente decennio durante le quali venne coniato il termine di difesa europea non separata dalla Nato ma separabile da essa. Credo che sulla posizione americana influiscano due aspetti: il primo nasce dall’emergenza dell’11 settembre che consiglia (male, a mio parere) gli Usa ad andare avanti senza un accordo in sede Nato, e, poi, un atteggiamento diverso dell’attuale governo americano nei confronti dell’Unione Europa. Penso che, per ben considerare l’accordo sulla difesa, gli Stati Uniti dovrebbero capire tre cose: la prima è che gli stati europei hanno un problema di buon utilizzo delle proprie strutture militari; a fronte, infatti, di una spesa militare pari a due terzi di quella statunitense, l’indice di efficienza scende ad un sesto. L’altra cosa è che, anche in sede Nato, sarebbe meglio avere un’unica voce a nome di tutta l’Europa. Infine, nonostante all’indomani dell’11 settembre la Nato si sia riunita per dichiarare operativo l’articolo 5 (la clausola di mutua assistenza dell’Alleanza atlantica, ndr), il comando delle operazioni venne stabilito a Tampa, chiedendo di inviare ufficiali negli Stati Uniti ed agendo in sostanza in solitudine.

Uno degli aspetti nuovi di questo accordo e del clima politico da cui è partorito, appare essere l’attivismo della Gran Bretagna, che pure è critica su tante questioni interne all’Ue. Tutto ciò è più evidente se consideriamo la posizione di Londra, quasi isolata a livello continentale, di sostegno agli Stati Uniti nella guerra all’Iraq. Quali sono le intenzioni britanniche? C’è forse un interesse di Tony Blair a candidarsi come leader europeo?

Chi ha partecipato come me ai lavori della Convenzione non si è sorpreso dell’attivismo britannico. Lì la loro partecipazione è stata intensa, anche se oggi sembrano riemergere atteggiamenti “sovranisti”. Eppure è stato proprio il documento anglo-francese di Saint-Malo nel 1998 ad aprire la strada alla difesa comune. Forse proprio per compensare le chiusure in campo economico e governativo, ci sono queste aperture sul piano della difesa.

La cosa importante è che, nonostante le spaccature gravi sull’Iraq, il treno dell’Unione va avanti lo stesso. Certo, forse Blair intende mostrare un protagonismo britannico per far accettare l’Europa ai suoi concittadini. Il fatto è che, comunque, questo è il primo governo britannico attivamente europeista, un governo che ha una sua politica per l’Europa.

Si assiste a salti in avanti, come questo della difesa, mentre ci si scontra sulle istituzioni. Non le sembra che, nel cammino di costruzione dell’Unione europea, ci sia spesso un ribaltamento del normale corso delle cose che vorrebbe la politica, le istituzioni, arrivare prima delle altre questioni?

Questo è stato un po’ tutto il corso della costruzione dell’Europa. Bocciata la Ced negli anni ’50 è passata la Ceca, poi la Cee e via di questo passo. È passata a filiera chiamata in gergo “funzionalista”, che prevedeva di aggiungere funzione a funzione pensando che questo poi avrebbe provocato fatti e strutture politiche. Eppure, si sa che questo è impossibile all’infinito, nel senso che ci vuole uno scatto della politica. Questo è il cuore del progetto della Costituzione. Giscard d’Estaing, intervenendo alla riunione dei parlamentari europei membri della Convenzione del 5 dicembre, ha sintetizzato questo sforzo con una frase che condivido: “meglio niente che una cattiva Costituzione”. Se noi avessimo un testo che ogni tanto avesse bisogno di modifiche e rifacimenti, si sottoporrebbe l’Europa a cure che provocano solo disincanto e scetticismo. Oggi, c’è bisogno di questo salto politico, altrimenti non si riesce a governare un’Europa a venticinque.

Certo, avere delle istituzioni non implica avere un’unica politica europea, però le istituzioni possono aiutare a trovare un accordo. Con la figura del ministro degli Esteri europeo, che nel testo della Convenzione è vicepresidente della Commissione e membro del Consiglio europeo, risolveremmo positivamente la famosa domanda di Kissinger: “se cerco l’Europa sull’elenco telefonico dove la trovo?”. Quello sarebbe un punto di riferimento importante che finora non c’è.

È più probabile oggi, dopo l’accordo sulla difesa che prefigura un lotto di paesi più pronti a cooperare, l’ipotesi di un’Europa a più velocità?

Tutto dipende da come va la Conferenza intergovernativa, perché, in caso di fallimento, Francia e Germania hanno l’intenzione di procedere ad una integrazione più avanzata, che prevede forme di reciproca rappresentanza, una maggiore cooperazione economica, consigli dei ministri integrati. Spagna e Polonia, che guardano alla futura Europa con un angolo visuale ristretto, dovrebbero ragionare sul fatto che rischiano di ritrovarsi a parlare delle questioni della maggioranza qualificata e della rappresentanza negli organismi comunitari, quando già si intravedono forme di integrazione maggiore fra singoli stati. Tuttavia, in genere, nella storia europea quando alcuni hanno fatto passi in avanti sono stati seguiti dagli altri.

Quale opinione si è fatta del lavoro e dei risultati della Convenzione?

Alla Conferenza di Laeken, che ha varato la Convenzione, i risultati possibili potevano essere una o più bozze di Costituzione. Il risultato ottenuto, appena approvato il testo, sembrava modesto ma oggi assume sempre maggiore valore. L’intenzione di Giscard era di arrivare ad un accordo dei quattro grandi paesi, Germania, Francia, Gran Bretagna ed Italia; e così è stato, anche se oggi il governo britannico mostra qualche perplessità.

Inoltre, il metodo convenzionale, quello cioè dell’apertura e della trasparenza verso l’opinione pubblica si è rivelato una scelta giusta; poi si è tornati ai conclave, alle riunioni a porte chiuse. Semmai c’è un rimpianto, che è quello di non aver trovato nei mass media l’interesse che meritavano le 25 sessioni di lavoro della Convenzione.


 


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