Gianfranco Fini, L'Europa che verrà,
Fazi Editore, pp. 107, euro 13,00.
La
politica estera è sempre stata la via prediletta
dalla destra missina nella ricerca di una legittimazione
democratica. A partire dal 1951-52 con l'adesione
al Patto atlantico, cui inizialmente i neofascisti
si erano opposti, fino al voto favorevole ai trattati
di Roma del 1957, lo sforzo costante del Msi, negli
anni Cinquanta, fu indirizzato ad accreditarsi come
una forza in sintonia con l'alleanza occidentale e
l'integrazione europea, purché esse fossero
declinate in chiave fermamente anticomunista. Poi
il progetto d'inserimento nell'area governativa fallì,
ma quelle scelte non vennero mai revocate.
È dunque a buon diritto che Gianfranco Fini,
nel libro intervista L'Europa che verrà,
realizzato con Carlo Fusi (), rivendica alla tradizione
della destra, anche prima del lavacro di Fiuggi, “l'idea
di un'Europa che non fosse la cancellazione dell'identità
nazionale, ma in qualche modo la sua valorizzazione”.
Ciò non significa affatto, naturalmente, che
la partecipazione del vicepremier alla Convenzione
europea, come rappresentante del governo italiano,
non abbia segnato un vistoso progresso nella marcia
di An verso posizioni saldamente europeiste. Non va
dimenticata infatti la storica diffidenza del Msi
verso l'“Europa dei mercanti e dei banchieri”,
che indusse il partito di Fini a votare contro la
ratifica del trattato di Maastricht nel non troppo
lontano 1993, alla vigilia della trasformazione in
Alleanza nazionale.
Ha
insomma perfettamente ragione Giuliano Amato quando
sottolinea, nella prefazione a questo volume, l'importanza
del percorso compiuto dal leader di An, che ormai
si colloca nell'alveo principale dell'europeismo italiano.
Sono ben altri, all'interno dell'attuale coalizione
di governo, coloro che frenano sulla via dell'integrazione
comunitaria.
La stessa insistenza di Fini per l'introduzione di
un riferimento alle “radici giudaico-cristiane”
nella Costituzione europea si presta a molte obiezioni
nel merito, se non altro perché ebraismo e
cristianesimo sono teologicamente incompatibili e
la Chiesa cattolica è stata storicamente una
strenua avversaria dei valori di libertà posti
a fondamento della nuova Europa, ma rientra in una
concezione assolutamente rispettabile, che ha in Giovanni
Paolo II il suo più autorevole sostenitore.
Il vero problema rimosso che si avverte nelle pagine
del libro riguarda piuttosto la difficoltà
di conciliare le due fonti di legittimazione internazionale
cui Fini si è rivolto negli ultimi tempi. Se
da una parte infatti c'è stato l'apprezzabile
lavoro compiuto nella Convenzione europea, dall'altra
abbiamo assistito al viaggio in Israele e al pieno
allineamento sulle posizioni del governo Sharon, compresa
la decisione di costruire una barriera di separazione
all'interno della Cisgiordania.
Quest'ultima sortita situa il leader di An al fianco
dei fautori più accaniti dell'unilateralismo
nella lotta al terrorismo islamico, addirittura su
posizioni più oltranziste rispetto all'amministrazione
di Washington, che sul muro di Sharon ha espresso,
almeno a parole, motivate riserve. La maggioranza
dell'Unione Europea, com'è noto, ha tutt'altro
orientamento.
Non a caso, nelle risposte a Fusi, Fini tende a minimizzare
anche la portata del dissenso verificatosi all'interno
dell'Ue sulla guerra irachena, che ha visto collocate
agli estremi opposti proprio le due potenze europee
che dispongono di un seggio permanente nel Consiglio
di sicurezza dell'Onu, Francia e Gran Bretagna. Con
questi chiari di luna, ritenere che l'Unione possa
avere fra qualche tempo alle Nazioni Unite “un
rappresentante unico”, che parli con una voce
sola, è plausibile solo se si sottovaluta enormemente
la portata storica della svolta determinata dall'11
settembre sullo scenario internazionale.
Fini sembra proprio pensarla così, tanto che
riduce l'attacco contro l'Iraq a un fatto di “cronaca“,
che avrebbe diviso solo provvisoriamente un'Europa
destinata a ritrovare in prospettiva lo spirito comunitario.
Ma negli intendimenti degli Stati Uniti, che indiscutibilmente
dettano l'agenda della politica mondiale, l'abbattimento
di Saddam Hussein non è che il primo passo
di una strategia volta al raggiungimento della sicurezza
attraverso un'assoluta supremazia militare e la ristrutturazione
complessiva degli assetti mediorientali. Un programma
che, se perseguito sul serio, comporta un impegno
almeno decennale.
La dottrina Bush della guerra preventiva è
insomma il tema cruciale con cui bisognerà
misurarsi anche nel futuro. Un tema su cui l'Europa
si è spaccata e il solco con gli Usa si è
allargato in modo preoccupante. Davvero Fini non dimostra
una gran coerenza, quando da un lato afferma di volersi
adoperare per il superamento di questa frattura, mentre
dall'altro approva la condotta di chi (per esempio
Sharon) compie atti che contribuiscono ad approfondirla.
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