Esiste
un modello sociale europeo? È questa una delle
domande alle quali ha tentato di rispondere il convegno
organizzato a Roma il 18 e il 19 novembre presso il
Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro
dalla Fondazione Di Vittorio, dalla Fondacion Alternativas
e dalla Fondazione Ebert. Le due giornate di discussione
ed approfondimento hanno visto confrontarsi sindacalisti,
studiosi ed esperti sui modelli europeo ed americano,
sullo Stato sociale, sui riflessi sociali dell’allargamento
dell’Unione Europea a dieci nuovi paesi.
Le relazioni introduttive del convegno sono state
tenute da Sergio Cofferati, presidente della Fondazione
Di Vittorio, e da Jeff Faux, dell’Economy Policy
Institute di Washington. Cofferati ha delineato i
contenuti del modello sociale europeo sulla base delle
linee di condotta concordate nel 2000 alla Conferenza
intergovernativa di Lisbona: coesione sociale, formazione
dei lavoratori, conoscenza, competitività delle
imprese congiunta alla qualità del processo
produttivo e del prodotto finale. Il presidente della
Fondazione ha lamentato l’assenza nei lavori
della Convenzione, che porteranno nei prossimi mesi
alla stesura della Costituzione europea, di una vera
e propria agenda sociale in grado di rendere “costituzionali”
i diritti sociali dei lavoratori e dei cittadini.
L’americano Jeff Faux (la cui relazione è
integralmente riportata sul sito) ha sottolineato
le differenze tra il modello economico americano “da
esportazione” e quello che effettivamente si
realizza negli Stati Uniti. A dispetto di quanto si
pensa, i governi Usa, al di là delle differenti
colorazioni politiche, attuano da cinquant’anni
una politica keynesiana di intervento nel settore
privato e di alto deficit. Per lo studioso di Washington,
spiegare la maggiore crescita americana e il minore
tasso di disoccupazione con la “flessibilità”
nel mercato del lavoro è un errore; anzi, negli
ultimi anni, dopo le riforme legislative varate da
Bill Clinton, quello americano è un mercato
del lavoro più rigido. Il modello “venduto”
all’estero è, allora, “un sogno”
di politici ed economisti americani in realtà
mai realizzato in patria. Faux invita, quindi, a conoscere
bene quel sistema, fatto di grandi squilibri, ma anche
di maggiori opportunità soprattutto nel campo
del credito, prima di “comprarlo”.
Nella
tavola rotonda, che ha seguito le relazioni, hanno
preso la parola i rappresentanti dei maggiori sindacati
europei, Maria Helena André, vice segretario
della Confederazione europea dei sindacati, Karin
Benz-Overhage, del sindacato tedesco Ig Metal, Daniel
Retureau, della francese Cgt, Guglielmo Epifani, segretario
generale della Cgil, Nicolas Sartorius, della Fonacion
Alternativas e capo storico delle Comisiones Obreras.
Benz Overhage ha messo in luce come il parametri di
Maastricht non possano essere considerati un tabù
intoccabile – in singolare consonanza con il
proprio governo che in questi giorni ha ottenuto di
poter “sforare” dai limiti imposti dal
patto di stabilità -, altrimenti non si potranno
raggiungere gli obiettivi di piena occupazione stabiliti
a Lisbona. Epifani ha affermato l’esistenza
di un modello sociale europeo, che, fatte salve le
differenze nazionali, si sostanzia in tre rapporti:
quello crescita economica-tutele sociali che ha visto
le seconde crescere con l’aumentare della prima,
poi quello governo-cittadini, che si dipana in maniera
complessa attraverso varie forme di rappresentanza
sociale, infine quello diritti del lavoro-diritti
di cittadinanza, il più complesso e quello
maggiormente in discussione oggi. “Il processo
costituente rappresenta, allora, un punto di snodo
fondamentale” - ha notato il segretario generale
della CGIL -: senza uno scatto in avanti della politica
difficilmente si esplicheranno i diritti sociali in
un sistema singolare nel quale esistono due cittadinanze
(europea e nazionale) ma un’unica sovranità,
quella nazionale, e, nonostante un unico mercato,
diverse monete.
Josep Borrell, deputato del partito socialista e membro
del gruppo di lavoro della Convenzione europea sull’Europa
economica e sociale, ha sottolineato l’importanza
di aver fatto inserire nella futura Costituzione la
“Carta dei diritti fondamentali” di Nizza,
ma anche il limite rappresentato dall’assenza
di un coordinamento a livello continentale delle politiche
sociali; un problema questo, che l’integrazione
comunitaria realizzata propone ma che nessuno gestisce.
Corpo dell’ultima relazione del convegno, tenuta
da Klaus Busch, professore dell’Università
di Osnabr_ck, è stata la questione dell’impatto
sociale dell’allargamento dell’Unione
ai 10 nuovi membri. Gli effetti saranno, in particolare,
tre: aumento delle migrazioni verso occidente, in
particolare verso la Germania per la quale si stimano
due milioni di ingressi entro il 2030; un ribasso
generalizzato dei salari nei settori ad alta intensità
di occupazione, quelli nei quali maggiore sarà
l’afflusso di lavoratori immigrati; una discesa
del reddito pro-capite medio dell’Europa a 25
(oggi è il reddito dei paesi candidati è
il 33% della media dei 15). Il rischio è, infatti,
che, se l’aumento della produttività
in quei paesi non produrrà un miglioramento
delle retribuzioni e, a cascata, delle prestazioni
sociali erogate, si proporrà nei prossimi anni
uno squilibrio, un vero e proprio dumping
sociale, che si ripercuoterà in tutta l’Unione.
Un modello sociale europeo esiste, allora, e sarà
bene “comprarne” un altro, per dirla con
Jeff Faux, quando effetti e standard di riuscita siano
effettivamente sperimentati.
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