Il
’56 è stato un anno cruciale per il Novecento.
Il mondo usciva dal conflitto mondiale, portando nella
mente il ricordo e lo spettro delle esplosioni atomiche
di Hiroshima e Nagasaki, dei lager nazisti, e delle
guerre intestine. Ed è proprio durante quell’indimenticabile
’56 (come lo definì Pietro Ingrao) che
affiorava agli occhi di tutti la nuova sistemazione
della politica internazionale: la Guerra Fredda come
la nuova realtà che ordinava e gestiva le sorti
del mondo. Nel ’56 la crisi di Suez e l’intervento
degli Usa per normalizzare la situazione nel Mediterraneo.
Nel ’56 i fatti di Ungheria e i carri armati
sovietici giunti a riportare a Budapest il dominio
staliniano. Stati Uniti e Urss appaiono ormai chiaramente
come le due grandi potenze intorno alle quali ruota
l’ordine mondiale, l’isolamento nel quale
vivono i popoli fedeli a questo o a quel blocco, è
dolorosamente reale e miete vittime.
L’epopea di Imre Nagy è il simbolo di
tutte queste vittime silenziose e innumerevoli, sacrificate
in nome di un ideale che vuole restituire dignità
all’essere umano e che invece deprime qualsiasi
iniziativa che, ispirata all’uomo, in realtà
lo mortifica e lo distrugge.
L’Ungheria
del dopoguerra vive un breve periodo di democrazia
dopo il regime fascista di Horty, ma nelle elezioni
del ’48 il partito comunista conquista la maggioranza,
rendendo il paese magiaro a tutti gli effetti suddito
dell’Unione Sovietica.
La miope politica economica e il malgoverno dei fedelissimi
di Stalin, Rakosi e i suoi, sono a stento sopportati
dal fiero popolo ungherese, che malvolentieri si piega
alla volontà del governo tiranno.
Con la morte di Stalin nel ’53 una ventata di
libertà percorre tutte le democrazie popolari,
scosse soprattutto negli ultimi anni dai processi-farsa,
le famose “purghe staliniane”, attraverso
le quali lo statista georgiano si era liberato di
tutti i “traditori fascisti”, instaurando
un clima di terrore in Ungheria, Bulgaria e Cecoslovacchia.
Anche l’Ungheria piange i suoi martiri, mentre
il clima di distensione favorisce la nascita di liberi
movimenti di pensiero: il circolo Petofi e le assemblee
studentesche. Gli intellettuali e gli studenti sono
le avanguardie più sensibili della popolazione,
che, libera finalmente di potersi unire e di poter
scambiare le proprie idee in ottobre manifesta per
le strade di Budapest il malcontento nei confronti
del governo e l’orgoglio di essere ungheresi.
La manifestazione, del tutto spontanea, si ingrossa
nel suo snodarsi di tutta la gente della capitale
e, a intellettuali e studenti, si affiancano gli operai,
le casalinghe, gli impiegati; un fiume di uomini e
di donne con bandiere tricolori si riversa nelle strade
cantando inni patriottici. In serata però la
situazione comincia a precipitare, l’andamento
pacifico del pomeriggio lascia il posto alla violenza
e all’esasperazione: alcuni gruppi si scagliano
contro la statua di Stalin e in un attimo il temutissimo
dittatore viene fatto a pezzi dalla folla, che smonta
i simboli del comunismo e solleva alte le bandiere
tricolori.
Il mattino del giorno successivo vede l’entrata
dei carri armati russi in Ungheria: Rakosi, il capo
del governo così impopolare si dimette e affida
la patata bollente nelle mani di Imre Nagy, perseguitato
durante il periodo stalinista, uomo onesto, cresciuto
in Russia e leninista convinto. Il popolo reclama
e gran voce questa guida: nessuno vuole instaurare
un regime capitalistico, tutti vogliono un socialismo
nazionale, un comunismo su misura, una variante al
modello monolitico sovietico che sappia soddisfare
le esigenze specifiche del piccolo paese magiaro.
Nagy raccoglie tutte queste esigenze e trattando con
il Cremlino riesce a far ritirare le truppe e a costituire
un nuovo governo. Saranno le due settimane di gloria
degli ungheresi: ristabilite le libertà fondamentali
di informazione e associazione, si formano nuovamente
gli antichi partiti del dopoguerra e presto nasce
un governo di coalizione. Troppo perché questo
possa essere pacificamente tollerato da Kruscev, per
quanto lui stesso abbia auspicato nel suo discorso
di insediamento al Cremlino una nuova era di distensione
e di pace.
I primi di novembre la situazione precipita ancora,
l’Armata Rossa è alle porte dell’Ungheria:
Nagy a un punto di non ritorno; vedendosi abbandonato
dalla Russia esce formalmente dal patto di Varsavia
e chiede aiuto alle Nazioni Unite. Purtroppo la sorte
del paese magiaro è stata già decisa:
Suez in cambio della rivoluzione di Nagy, Stati Uniti
e Unione Sovietica si scambiano favori in sede di
Consiglio di Sicurezza.
I carri armati sovietici entrano nuovamente in Ungheria
per restarci, questa volta, molto a lungo. Nagy trasferito
con un inganno in Polonia sarà poi riportato
a Budapest e dopo un processo a porte chiuse sarà
giustiziato nel ’58. La popolazione sarà
in parte deportata e molti ungheresi fuggiranno verso
l’Occidente dalla vicina Austria. Represso ogni
gruppo e partito politico la situazione sarà
controllata direttamente dal Cremlino attraverso il
fedele Janos Kadar, il suo mandato durerà fino
alla caduta del muro di Berlino e dei regimi comunisti
in Europa Orientale.
Fino ad allora l’Ungheria non vedrà mai
più il sole.
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