240 - 15.11.03


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Budapest ’56. Il sogno di Imre Nagy

Marta Rovagna


Il ’56 è stato un anno cruciale per il Novecento. Il mondo usciva dal conflitto mondiale, portando nella mente il ricordo e lo spettro delle esplosioni atomiche di Hiroshima e Nagasaki, dei lager nazisti, e delle guerre intestine. Ed è proprio durante quell’indimenticabile ’56 (come lo definì Pietro Ingrao) che affiorava agli occhi di tutti la nuova sistemazione della politica internazionale: la Guerra Fredda come la nuova realtà che ordinava e gestiva le sorti del mondo. Nel ’56 la crisi di Suez e l’intervento degli Usa per normalizzare la situazione nel Mediterraneo. Nel ’56 i fatti di Ungheria e i carri armati sovietici giunti a riportare a Budapest il dominio staliniano. Stati Uniti e Urss appaiono ormai chiaramente come le due grandi potenze intorno alle quali ruota l’ordine mondiale, l’isolamento nel quale vivono i popoli fedeli a questo o a quel blocco, è dolorosamente reale e miete vittime.
L’epopea di Imre Nagy è il simbolo di tutte queste vittime silenziose e innumerevoli, sacrificate in nome di un ideale che vuole restituire dignità all’essere umano e che invece deprime qualsiasi iniziativa che, ispirata all’uomo, in realtà lo mortifica e lo distrugge.


L’Ungheria del dopoguerra vive un breve periodo di democrazia dopo il regime fascista di Horty, ma nelle elezioni del ’48 il partito comunista conquista la maggioranza, rendendo il paese magiaro a tutti gli effetti suddito dell’Unione Sovietica.
La miope politica economica e il malgoverno dei fedelissimi di Stalin, Rakosi e i suoi, sono a stento sopportati dal fiero popolo ungherese, che malvolentieri si piega alla volontà del governo tiranno.
Con la morte di Stalin nel ’53 una ventata di libertà percorre tutte le democrazie popolari, scosse soprattutto negli ultimi anni dai processi-farsa, le famose “purghe staliniane”, attraverso le quali lo statista georgiano si era liberato di tutti i “traditori fascisti”, instaurando un clima di terrore in Ungheria, Bulgaria e Cecoslovacchia.
Anche l’Ungheria piange i suoi martiri, mentre il clima di distensione favorisce la nascita di liberi movimenti di pensiero: il circolo Petofi e le assemblee studentesche. Gli intellettuali e gli studenti sono le avanguardie più sensibili della popolazione, che, libera finalmente di potersi unire e di poter scambiare le proprie idee in ottobre manifesta per le strade di Budapest il malcontento nei confronti del governo e l’orgoglio di essere ungheresi. La manifestazione, del tutto spontanea, si ingrossa nel suo snodarsi di tutta la gente della capitale e, a intellettuali e studenti, si affiancano gli operai, le casalinghe, gli impiegati; un fiume di uomini e di donne con bandiere tricolori si riversa nelle strade cantando inni patriottici. In serata però la situazione comincia a precipitare, l’andamento pacifico del pomeriggio lascia il posto alla violenza e all’esasperazione: alcuni gruppi si scagliano contro la statua di Stalin e in un attimo il temutissimo dittatore viene fatto a pezzi dalla folla, che smonta i simboli del comunismo e solleva alte le bandiere tricolori.
Il mattino del giorno successivo vede l’entrata dei carri armati russi in Ungheria: Rakosi, il capo del governo così impopolare si dimette e affida la patata bollente nelle mani di Imre Nagy, perseguitato durante il periodo stalinista, uomo onesto, cresciuto in Russia e leninista convinto. Il popolo reclama e gran voce questa guida: nessuno vuole instaurare un regime capitalistico, tutti vogliono un socialismo nazionale, un comunismo su misura, una variante al modello monolitico sovietico che sappia soddisfare le esigenze specifiche del piccolo paese magiaro.
Nagy raccoglie tutte queste esigenze e trattando con il Cremlino riesce a far ritirare le truppe e a costituire un nuovo governo. Saranno le due settimane di gloria degli ungheresi: ristabilite le libertà fondamentali di informazione e associazione, si formano nuovamente gli antichi partiti del dopoguerra e presto nasce un governo di coalizione. Troppo perché questo possa essere pacificamente tollerato da Kruscev, per quanto lui stesso abbia auspicato nel suo discorso di insediamento al Cremlino una nuova era di distensione e di pace.
I primi di novembre la situazione precipita ancora, l’Armata Rossa è alle porte dell’Ungheria: Nagy a un punto di non ritorno; vedendosi abbandonato dalla Russia esce formalmente dal patto di Varsavia e chiede aiuto alle Nazioni Unite. Purtroppo la sorte del paese magiaro è stata già decisa: Suez in cambio della rivoluzione di Nagy, Stati Uniti e Unione Sovietica si scambiano favori in sede di Consiglio di Sicurezza.
I carri armati sovietici entrano nuovamente in Ungheria per restarci, questa volta, molto a lungo. Nagy trasferito con un inganno in Polonia sarà poi riportato a Budapest e dopo un processo a porte chiuse sarà giustiziato nel ’58. La popolazione sarà in parte deportata e molti ungheresi fuggiranno verso l’Occidente dalla vicina Austria. Represso ogni gruppo e partito politico la situazione sarà controllata direttamente dal Cremlino attraverso il fedele Janos Kadar, il suo mandato durerà fino alla caduta del muro di Berlino e dei regimi comunisti in Europa Orientale.
Fino ad allora l’Ungheria non vedrà mai più il sole.


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