240 - 15.11.03


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Soffia il vento dell’ottimismo

Daniele Castellani Perelli


Non era scontato che ci fosse ottimismo, al seminario sull’“Idea dell’Europa” tenutosi a Roma venerdì 24 ottobre. Mentre la discussione sulla Costituzione europea è in una fase interlocutoria e la Conferenza intergovernativa non trova ancora soluzioni alle questioni più problematiche, su invito del Presidente del Senato Marcello Pera si sono ritrovati a Palazzo Giustiniani a fare il punto della situazione l’ex Cancelliere tedesco Helmut Kohl, il vicepresidente della Convenzione europea Giuliano Amato, il Presidente del Senato ceco Petr Pithart e l’ex ministro degli esteri polacco Bronislaw Geremek. Sono intervenuti anche i senatori Giulio Andreotti e Giovanni Pieraccini e i rappresentanti del Parlamento italiano alla Convenzione Marco Follini e Lamberto Dini.

Nonostante non appartenessero tutti alla stessa generazione e alla stessa famiglia politica, gli oratori hanno espresso visioni molto simili sull’Europa. Anche i due rappresentanti dell’Est hanno usato toni e argomenti europeisti, dando così indirettamente ragione a Helmut Kohl, il quale poco prima aveva chiamato “sciocco” chi distingue tra “vecchia” e “nuova” Europa. L’ex Cancelliere ha rivendicato alla sua generazione l’idea dell’allargamento, e ha ricordato come ad ogni nuovo ingresso nell’Ue ci siano sempre stati timori di conseguenze economiche negative, come già con Spagna e Portogallo, e come quando si temeva che le carni dei bovini finlandesi avrebbero potuto invadere il mercato europeo. Ha inoltre duramente attaccato l’ipotesi del “direttorio” (che “farebbe crollare e fallire la casa europea”) e l’idea che i paesi maggiori debbano contare più di quelli piccoli: “Churchill nel suo discorso zurighese del settembre 1946, che è una specie di Magna Charta, – ha ricordato l’ex Cancelliere - ebbe a dire che le nazioni piccole avrebbero contato come le grandi e che ne sarebbero stati riconosciuti i contributi alla causa comune”. Kohl ha parlato molto schiettamente, e ha lanciato chiare frecciate a Jacques Chirac, sia per il mancato rispetto del patto di stabilità sia per lo snobismo ostentato in passato nei confronti dei paesi dell’Est.

Sui rapporti con gli Stati Uniti ha ricordato che “abbiamo gli stessi valori di democrazia, di libertà, di salvaguardia dei diritti umani”, ha censurato “lo sciocco antiamericanismo che dilaga in alcuni Paesi, ed anche in Germania”, ma ha anche avvertito che l’amicizia con l’alleato non significa cieca obbedienza. Kohl ha mostrato ottimismo, ha ricordato la coraggiosa avventura dell’euro, ha lodato il ruolo del Parlamento europeo e criticato la proposta dell’ingresso della Russia nell’Ue, in contrapposizione ad un Dini più possibilista: “Cartina alla mano – ha ironizzato l’ex Cancelliere – forse dovremmo fermarci con il dito a Vladivostok, forse potremmo guardare anche al Giappone, forse a quel punto dovremmo capire l'assurdità di questa idea”. Quanto alla Costituzione, l’ha definita “un progetto utile ed accettabile”, perché “renderà più capace di agire l'Unione europea, avvicinandola maggiormente ai cittadini”, e si è rammaricato solo dell’assenza di un riferimento alle radici cristiane e di una certa trascuratezza nei riguardi del livello comunale. Il suo discorso si è concluso con un invito a sapere unire visione e realismo, come fece Alcide De Gasperi, “uno degli europeisti più appassionati”. Dei giovani ha detto di avere fiducia: “I ragazzi sono diversi da noi, ma sono buoni. Non possono essere cattivi perché sono i nostri ragazzi e questa è una argomentazione molto convincente. Posso certamente dire ai nostri ragazzi: se volete, fate le cose meglio di noi, ma noi abbiamo fatto bene molte cose”.

Gli altri due ospiti stranieri hanno usato toni e argomenti molto simili. Il cristiano-democratico ceco Pithart ha incentrato il suo intervento sui rapporti tra Usa ed Unione, anch’egli criticando “l’antiamericanismo, che in Europa sta aumentando notevolmente”, ma anch’egli mettendo in guardia da una partnership in cui il nostro continente faccia la parte del suddito. Noi europei, ha detto Pithart, “rifiutiamo l'unilateralità e l'uso preventivo della forza. Nonostante lo scetticismo, non rinunciamo alle organizzazioni internazionali, neanche all'Onu, perché non abbiamo niente di meglio a disposizione”. I due alleati, per il Presidente del Senato ceco, dovrebbero imparare l’uno dall’altro: “Gli europei dovrebbero offrire una parte del loro benessere e delle loro certezze sociali, gli americani invece un pezzo delle loro certezze mentali derivanti da una visione in bianco e nero del mondo e da un sentimento di superiorità, quello di essere sempre dalla parte del bene, mentre solo il mondo ingrato non lo capisce. Poi la madre e la figlia si incontreranno di nuovo, come due personalità responsabili che si rispettano per i loro pregi e con tolleranza guardano l'una le debolezze dell'altra”. Ne consegue che, pur senza indebolire l’attuale meccanismo di sicurezza della Nato, l’Europa dovrà essere più forte militarmente, fino ad “essere preparata alla circostanza che le sue forze, qualunque sia la forma legittimante ma sempre multilaterale che le sottoscriva, potranno intervenire ovunque sia messa in pericolo la pace nel mondo o dovunque si verificheranno crimini contro l'umanità, come, ad esempio, la pulizia etnica e i genocidi”.

Dagli interventi di Pithart e Geremek è venuto fuori un quadro interessante del modo in cui i paesi dell’Est intendono l’ingresso dell’Unione. E’ infatti falsa la rappresentazione secondo cui essi sarebbero un “cavallo di Troia” dell’America in Europa, o che in loro sopravviva un certo nazionalismo antieuropeista. Questi due concetti, così diffusi nella pubblicistica contemporanea, vengono, se non smentiti, almeno ridimensionati e soprattutto chiariti da Pithart e Geremek. Se il primo si è augurato che “gli Stati nazionali” vengano “superati gradualmente”, l’ex ministro degli esteri polacco ha voluto espressamente contraddire il cliché. Ha messo in guardia da un nuovo totalitarismo europeo e, come Kohl, dall’idea del direttorio, ma ha chiarito che “non è vero che i Paesi di nuovo ingresso soffrono di una sensibilità eccessiva di fronte al problema della propria sovranità. Al contrario, noi entriamo con la volontà di un’Europa forte, di una comunità saldamente unita”. Geremek ha anche spiegato, in modo convincente, il motivo storico di questa maggiore attenzione dei paesi dell’Est al problema della sicurezza (da cui discende la loro amicizia con chi meglio può garantirgliela, gli Stati Uniti), ricordando che “se nel 1945 l’Occidente ha finito la guerra, per i nostri Paesi essa è terminata nel 1989”. La buona notizia è che il polacco Geremek ha parlato da vero europeista, quando ha detto che “non c’è divisione tra Europa vecchia e Europa nuova” ed ha interpretato “l’allargamento in atto” non come “un semplice ampliamento o un atto di accessione, ma un vero e proprio atto di riunificazione dell’Europa”, come ha sottolineato anche Dini citando quello che Havel ha definito un “ritorno in Europa”.

Due altri temi sono stati dibattuti, la necessità di un referendum popolare per l’approvazione della Costituzione (a favore del quale si sono espressi anche Pithart, Geremek e Andreotti) ed il riferimento alle radici cristiane da inserire nel testo presentato dalla Convenzione. Oltre a Kohl, anche Andreotti e Follini e Geremek l’hanno menzionato, con quest’ultimo che ha ricordato dottamente “la Comunità medioevale di cultura e di religione, nella quale l’Europa si è formata e senza la quale non ci sarebbe stata l’Europa”; in parallelo ad essa, ha fatto un tributo alla “res publica literaria, la comunità della fede nella ragione, da Erasmo di Rotterdam fino al ‘secolo dei lumi’”, sottolineando che lo stesso Voltaire parlava di una “Europa cristiana”. Anche Giuliano Amato ha menzionato il valore storico fondamentale dell’Europa medievale, e, con l’esempio linguistico, ha voluto rassicurare gli euroscettici su un punto-chiave, quello dell’identità europea. Sebbene l’Europa non abbia una unica lingua ufficiale (“a parte il fatto che - non lo diciamo ai nostri amici francesi - c’è una lingua che comunque si sta diffondendo in tutta Europa, e non è il francese”, ha ironizzato), è anche vero che negli stessi Stati Uniti il problema linguistico si sta sempre più complicando, come dimostrano “le elezioni che hanno portato Terminator al governatorato della California”, dove “gli elettori di quello Stato hanno votato su schede in cui le domande erano tradotte in sei lingue”.

Giuliano Amato ha mostrato sull’Europa lo stesso ottimismo di Helmut Kohl. Ha anch’egli ricordato l’importanza storica dell’asse franco-tedesco, ha invitato ad un rafforzamento del Parlamento europeo e si è augurato lo sviluppo di una sfera pubblica comune. “Le nuove generazioni attraversano l’Europa come noi attraversiamo il nostro Paese. Per loro – ha concluso Amato – l’identità europea è già qualcosa di molto forte”. Per loro il motto della Costituzione, “uniti nella diversità”, non è “il solito ossimoro con il quale i politici liquidano problemi che non sono in grado di risolvere”. “Uniti nella diversità”, come ha dimostrato anche questo seminario, è, secondo Amato, “la natura di un’Europa che c’è”.

 

 


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