Editoriale


Una nuova «narrativa» della politica


di Elisabetta Ambrosi

Il saggio di Anthony Giddens, che trovate qui, parte dalla brutale constatazione di un dato: le coalizioni progressiste al governo sono una sparuta minoranza; per di più, le coalizioni di centrodestra, che dovrebbero essere quelle conservatrici, si sono appropriate dello spirito rivoluzionario che un tempo (che non rimpiangiamo) era appannaggio della sinistra, e si presentano come rovesciatori dello status quo di fronte ad una opposizione statica, debole, difensiva, sia in politica interna che soprattutto internazionale.
A questo paradossale scambio di ruoli, cerchiamo di rimediare con un insieme di idee, parole, schemi di azione propositivi e assertivi. Non perché l’assertività in sé garantisca il valore di ciò che viene difeso, soprattutto laddove il contenuto stesso, come nel caso dei «neocons», coincide in pratica con il metodo: la forza, la guerra preventiva, la legittimazione della prepotenza alla Trasimaco («giusto è quello che conviene al più forte», lasciamo stare se questa ideologia sia giustamente o no da attribuirsi a Leo Strauss, padre putativo dei «neocons», ce ne occuperemo prossimamente).
Il motivo che rende necessaria l’assunzione di un sistema positivo di temi e programmi risiede invece nel fatto che, come in parte è ovvio, nessun problema reale di politica pubblica si può risolvere con proposte unicamente critiche e di contrasto: come nota Parisi nell’intervista che vi proponiamo, quello che più velocemente può unificare le componenti del centrosinistra è, ironia della sorte, il momento in cui si governa, il momento in cui tutti sono chiamati a confrontarsi sui problemi e nessuno può adottare la logica del tanto peggio tanto meglio.
L’interrogativo centrale su cui «Reset» mette la sua attenzione in questo fascicolo è il seguente: come operare da un lato una liberatoria e attesa rottura ideologica col passato e dall’altro, insieme, formulare una visione della realtà in grado di fronteggiare problemi di elevata complessità e tecnicità, che richiedono un apparato teorico forte, addirittura – come sostiene Giddens e noi con lui - un nuovo linguaggio, una nuova «narrativa» della politica?
Continuiamo insomma a lavorare sui fondamenti di legittimazione teorica di cui ogni politica necessita: come tanta parte della filosofia contemporanea ha mostrato, ogni azione riposa su valori, anche se inespressi, ogni intervento pratico incorpora una Weltanschauung, una opzione di senso da cui non può prescindere. Politica e cultura dovrebbero quindi, come è avvenuto in passato e come oggi non avviene più, riconoscere ed esplicitare la loro reciproca dipendenza, pur senza che si arrivi agli eccessi del passato, ai tempi del partito fideistico, del partito padrone, quello che - come racconta il libro di Anna Tonelli, qui recensito - decideva anche delle scelte più intime. Anche questo libro offre lo spunto per confermare con una certa franchezza che lo spazio neoprogressista della coalizione ideale che abbiamo in mente non né più descrivibile come una somma di «ex», come un incontro di tradizioni sia pure gloriose della Prima repubblica. Si tratta di uno spazio che in Italia, a differenza che in altri paesi europei, stenta a trovare riferimenti politici omogenei e che forse si potrebbe radunare, se si sarà capaci di figurare un disegno culturale valido, sotto l’idea che continua a vivere dietro la parola «liberalsocialismo». Un concetto caro a «Reset», la rivista fondata insieme a Norberto Bobbio e a Vittorio Foa, quasi dieci anni fa. Proprio quel concetto ci permette di dire che la costruzione del nuovo non avviene senza riferimento al passato (non c’è identità senza memoria, lo sappiamo). E ci piace che Parisi nell’intervista affermi che in una casa dei riformisti, appesi alle pareti troveremmo i ritratti dei padri costituenti. Come non concordare su questo?