Se la sinistra non piace a se stessa
di Giancarlo Bosetti

I lettori di questa rivista sanno che da tempo stiamo conducendo un dialogo con loro che si sforza di non essere propagandistico e che non consiste mai nell’esibire delle simpatie, in quanto tali, per questo o quel politico. L’ambizione mia e di quanti collaborano a “Reset” è maggiore: cercare di capire. Partiamo dall’idea che la sfida che ci compete è quella di capire e scoprire, di tentare risposte agli interrogativi che nascono dalla nostra vita pubblica. Consideriamo nostri soprattutto gli interrogativi che riguardano la sinistra, e ci arrovellano quegli insondabili enigmi che la affliggono negli ultimi anni. Non che pretendiamo di possedere le soluzioni. Ma vorremmo che di noi si dicesse: è gente che ci prova lealmente
Di questi tempi basta guardarsi intorno per cogliere che il paziente è sempre malato, molto malato. L’idea che adesso il centrosinistra rinasca come per incantesimo, dopo la manifestazione del Palavobis di Milano, intorno alla candidatura a premier di Rutelli, e che riunendo in un unico mazzo margherite, querce e girasoli il convoglio secolare del riformismo si rimetta gloriosamente in moto ha qualcosa di miracoloso, di miracolistico. E di superficiale. Bisognerà pure spiegare come mai dopo un ciclo di governo, giunto comunque al termine, o quasi, della legislatura, con dei risultati apprezzabili, con una politica per lo più assennata, con una ispirazione europeistica coerente e con un bilancio statale largamente risanato dopo le catastrofi degli anni ottanta, come mai dopo tutto questo l’opposizione di Berlusconi è in vantaggio; come mai questa coalizione di centrosinistra abbia espresso in cinque anni quattro diverse figure di premier, passando ogni volta dall’uno all’altro in modo non del tutto limpido e non bene motivato; come mai la coalizione di centrosinistra appare talvolta addirittura più disunita dello schieramento avverso, il quale è attraversato da differenze abissali tra Bossi e Fini, tra clericali e laici, tra liberali e intolleranti; come mai l’argomento del conflitto di interesse, che dovrebbe avere una forza dirompente per chiunque creda minimamente nella serietà della democrazia, sembra avere una presa molto scarsa sulla opinione italiana; come mai un politico così scarsamente credibile e così evidentemente cinico come Berlusconi può risultare più credibile e meno cinico di diversi suoi avversari e nostri amici.
Io personalmente ho creduto nei mesi scorsi che, giunti al terzo premier in meno di quattro anni, con Giuliano Amato fosse giunto il momento di riflettere sul percorso e di smettere di cambiare compulsivamente cavallo; i leader del centrosinistra hanno invece deciso, ancora una volta di cambiare compulsivamente cavallo e di non riflettere sul percorso. Il risultato di questa coazione a ripetere del centrosinistra sarà quasi certamente la vittoria del centro-destra (ma naturalmente il nostro amor di tesi non è forte al punto da farci desiderare il governo Berlusconi).
I disturbi del comportamento del centrosinistra sono un problema serio. E vorremmo, con questo numero di “Reset”, invitare a pensarci un po’ sopra.

Prima di tutto: i tuoi
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Una delle cause principali di sconcerto e di sbandamento del centrosinistra è che gli elettori di sinistra non sono più trattati come un soggetto a pieno titolo del discorso pubblico, ma sono per lo più maneggiati con fastidio come zavorra nociva, come un peso da scaricare. Questa è la considerazione che traspare, piaccia o non piaccia loro ammetterlo, dalle parole e dagli atti dei leader del centrosinistra. Di tutti, chi più chi meno. E si tratta del punto di arrivo di una serie di errori logici e teorici, oltre che pratici. Più che a tendenze suicide o a patti faustiani con il demonio, sono dovuti ad una colossale ingenuità. L’idea corrente, variamente vestita da astuta teorizzazione che “si deve conquistare il centro”, è che più il tuo candidato è identificabile con la storia e con la sostanza della sinistra, meno probabilità ha di vincere. Da qui le simpatiche scorribande sul terreno vago dei volti noti al pubblico per ricavarne candidature vincenti, e tanto più accreditate quanto meno identificabili con la sinistra.
È indicativa di questo metodo la ricerca del candidato a sindaco di Milano, individuato a un certo punto in Massimo Moratti, un esponente di spicco dell’élite borghese della città, ma la cui identità non offre appigli di identificazione particolarmente marcati per la sinistra: la sua più significativa dichiarazione politica è stata che l’attuale sindaco del Polo, Gabriele Albertini, ha fatto benissimo. La teoria che sottostà a queste scelte, alla ossessiva ricerca di acchiappare consensi sull’altra sponda, è palesemente quella che la sinistra “ha schifo di se stessa” e dunque cerca di rappresentarsi in un modo che distragga e faccia pensare ad altro, a tutto meno che alla sinistra stessa.
Dicevo per questo “prima di tutto: i tuoi”, per richiamare un principio fondamentale della lotta politica nella società di massa, che tra poco vado a enunciare, perché le volpi che hanno guidato il centrosinistra in questi anni tendono a pensare che dietro a queste critiche rispunti la vecchia anima massimalistica della sinistra italiana. Quando si fanno queste critiche basate sull’identità, esse vengono a volte interpretate (erroneamente) come se uno dicesse “la sinistra perde voti, ed è più danneggiata dall’astensionismo, perché non fa una politica abbastanza di sinistra”. E chi la interpreta così ha poi buon gioco a replicare che, invece, i voti si perdono a destra e che una politica più moderata consente di recuperare al centro. E via snocciolando il discorso tante volte sentito.



L’argomento di Lazarsfeld
Benissimo. Ma qui da noi non albergano passioni massimalistiche. Alberga invece la convinzione che le supervolpi che srotolano questo tema, ogni due riunioni su tre, spesso non hanno capito un altro argomento, il “prima di tutto: i tuoi”, che potremmo anche definire, se vi piace, l’"argomento di Lazarsfeld" (da Paul Lazarsfeld, il grande sociologo austro-americano delle comunicazioni di massa e dei comportamenti elettorali, uno dei padri fondatori della tecnica dei sondaggi, quello che tra l’altro inventò già negli anni quaranta il metodo dei panel fissi per le interviste da ripetersi nel tempo). Ne ha già parlato Guido Martinotti su “Caffè Europa” (www.caffeeuropa.it), ma ci torniamo qui più estesamente. E vi offriamo in lettura, di rinforzo, una celebre pagina di People’s Choice, molto pertinente. L’argomento di Lazarsfeld consiste in questo: una campagna elettorale, per avere successo, deve prima di tutto rinforzare la decisione di voto dei tuoi, e portarli a votare. Il pericolo principale per una forza politica, o per una coalizione, consiste nella corrosione cui va soggetto il suo, il proprio elettorato. Solo in seconda istanza una campagna elettorale punta a far cambiare idea agli altri. E se tu non convinci prima di tutto i tuoi, in nessun modo riuscirai ad erodere il terreno dall’altra parte. Anche perché in giro non ci sarà nessuno capace di convincere qualcun altro, se nessuno dei tuoi sarà convinto delle tue ragioni. Non c’è candidato, non c’è faccia, non c’è insegna o slogan che ti possa regalare una pole position vantaggiosa per vincere la gara, se non ti porti dietro i tuoi. E’ chiaro Lazarsfeld?
Ora ditemi, tra le altre cose, e ad una prima valutazione sul campo, chi vi pare tra i due schieramenti più interessato al reinforcement dei suoi? Berlusconi o gli altri? Domanda retorica, si capisce. Chi non si piace, non emana alcuna aria di reinforcement.

Autolesionismo del politico cinico
Succede anche, poi, che per soprammercato il paziente sinistra dia non solo segni di nausea verso se stessa ma pratichi con frequenza forme di autolesionismo. Non solo si illude di essere seduttiva, mancando del primo requisito per sedurre chicchessia, il piacere a se stessi. La sinistra infatti (si capisce già da come sceglie i candidati) non piace a se stessa, come è evidente, ma c’è di peggio: detesta anche alcune sue caratteristiche di fondo, e soprattutto quelle che ne avevano fatto la forza. Si sa che la sinistra aveva dalla sua parte, e ci teneva ad averla, l’etica; in certo senso, come ha persino teorizzato un realista come Giovanni Sartori, la sinistra è l’etica, la sinistra è l’altruismo, mentre la destra è l’egoismo, la sinistra è Kant mentre la destra è Bentham. Discorsi già fatti. Bene. Ora capita sempre più spesso di incontrare nel dibattito politico e nella pubblicistica un atteggiamento che rivendica il cinismo come un merito, come qualcosa di positivo e apprezzabile, cui si accompagna un giudizio secondo il quale tutto quello che non è rifiuto di idealità, valori, moralità, è bollato come ipocrisia, buonismo, roba da anime belle. Ci siamo chiesti e abbiamo chiesto a diversi osservatori e studiosi delle abitudini intellettuali del nostro tempo se questa tendenza è da ritenersi una inevitabile conseguenza della modernità, del disincanto, della secolarizzazione della vita politica e dello spirito pubblico o se si tratta di una patologia da cui occorre liberarsi.
Non assumiamo il punto di vista naïf che la vita politica si debba alimentare di valori incontaminati o che la sinistra debba intendersi come il regno della eticità esente da ogni forma di compromesso con la realtà economica e politica degli interessi, delle ambizioni di potere e così via sporcandosi le mani, ma neppure possiamo accogliere - questo è proprio il prodotto di un delirio di onnipotenza che può avere aggredito figure della sinistra immerse improvvisamente nella luce abbacinante del potere dopo un lungo digiuno - l’idea disgustosa che il cinismo sia da rivendicare come un merito. Questo proprio non si può. L’idea non regge né dal punto di vista etico-idealistico né dal punto di vista del più crudo realismo. Dal punto di vista morale il cinismo, in quanto assenza di ogni scrupolo per i valori ideali, è semplicemente ributtante. Ma anche dal punto di vista del più astuto machiavellismo il cinismo in politica è perdente. Esibire il cinismo è un’insensatezza. E se metabolizzarne una certa quantità è indispensabile, per esempio quando si tratta (come suggerisce Vattimo) di dare un comando politico o militare che può costare necessariamente delle vite umane, non si capisce perché questo duro esercizio di desensibilizzazione dovrebbe essere mostrato al mondo come una gloria. Non fare troppo vedere certi aspetti ineliminabili dell’esistenza non è ipocrisia, come vuole la vulgata dei cinico-realisti dei nostri tempi, ma semplicemente tatto, cortesia, buon gusto, educazione


Da dove viene l’antipolitica
Si capisce - e lo vedrete bene dal nostro dossier sul cinismo antico e moderno - che una certa dose di cinismo nella vita pubblica è il prodotto della fine delle ideologie e della catastrofe attraverso la quale il mondo delle idee è passato nel secolo scorso. E’ in effetti anche un segno di liberazione dall’ingombrante presenza religiosa nella vita pubblica, di cui altre parti del mondo ancora soffrono, ma le “dosi” in politica come in cucina sono fondamentali. E il piatto che il partito dei cinici vorrebbe farci ingoiare è immangiabile.
Nell’epoca delle comunicazioni di massa la politica deve essere per l’appunto comunicativa, deve passare attraverso un’elaborazione retorica (e non c’è ragione di aver paura di questa parola, come ricorda molto bene Peter Sloterdijk, filosofo e studioso del cinismo antico e moderno, nell’intervista che qui pubblichiamo). Al problema è sensibile, per le ragioni che ho detto, la sinistra più della destra (la quale si guarda comunque bene dal mostrare quello che anche lei considera un vizio da nascondere più che un merito da innalzare). E dovrebbe apparire tanto più chiaro, dopo le riflessioni che vi proponiamo qui che il politico che sa comunicare bene non può e non deve comunicare cinismo a meno che supponga di operare su una popolazione composta da masse di idioti, o a meno che non sia egli stesso un idiota.
Il politico cinico che esibisce i muscoli in quanto tale ottiene semplicemente il risultato di fare apparire la politica come un’attività utile solo a se stessa. Meritevole quindi di quei sentimenti antipolitici che quello stesso politico cinico stigmatizza poi come nocivi per la democrazia. Circuiti viziosi. Prima ce ne liberiamo meglio è.


Ecco cosa è il “Reinforcement Effect"
L’argomento di Lazarsfeld



Paul Felix Lazarsfeld fu un sociologo viennese che dalla seconda metà degli anni Trenta si stabilì negli Stati Uniti. Studioso delle comunicazioni di massa e dei comportamenti elettorali, fu uno dei padri fondatori della tecnica dei sondaggi e tra l’altro inventò già negli anni quaranta il metodo dei panel fissi per le interviste da ripetersi nel tempo.
Uno degli studi più importanti effettuati da Lazarsfeld viene descritto in The People's Choice. Pubblicata nel 1944, l'opera raccoglie i risultati di una ricerca effettuata ad Earie County, nell'Ohio, durante la campagna elettorale per le presidenziali del 1940 per studiare l'impatto comunicativo della propaganda politica sugli elettori. D
a People’Choice pubblichiamo l’inizio del capitolo IX, intitolato “The Reinforcement Effect”.



Paradossalmente, il maggiore effetto prodotto dalla campagna elettorale non riguardava un effetto evidente sul comportamento di voto, se con questo intendiamo ingenuamente un cambiamento di voto. In Maggio, prima che la campagna iniziasse, metà delle persone sapeva come avrebbe votato in Novembre, ed effettivamente ha votato in quel modo. Ma questo significa che la propaganda elettorale non ha avuto alcun effetto su di loro? Non del tutto. Per loro, la comunicazione politica ha servito lo scopo importante di preservare le decisioni iniziali anziché provocarne di nuove. Essa ha tenuto gli elettori “allineati” rassicurandoli della loro decisione di voto; ha ridotto le defezioni dall’elettorato fedele. Ha avuto l’effetto di rafforzare l’originale decisione di voto.
L’importanza del rafforzamento può essere apprezzata immaginando cosa sarebbe successo se i contenuti politici dei mezzi di comunicazione fossero stati monopolizzati, o quasi, da uno dei partiti. L’esperienza europea del controllo totalitario delle comunicazioni suggerisce l’idea che, in quelle condizioni, l’intera opposizione sarebbe stata ridotta al solo gruppo dei più convinti ed ostinati. In molte parti degli Stati Uniti , ci sono probabilmente pochi individui che manterrebbero tenacemente le proprie vedute politiche di fronte ad un flusso continuo di argomentazioni ostili. La maggior parte delle persone vuole, e ne ha bisogno, sentirsi dire che ha ragione e sapere che altre persone sono d’accordo con loro. Quindi i partiti potrebbero rinunciare alla loro propaganda solo al prezzo di un grande rischio, e mai su una base unilaterale. Per quello che riguarda il numero dei voti, la campagna elettorale non risulta tanto determinante nel guadagnare nuove adesioni, quanto invece lo è nel prevenire la perdita di elettori già favorevolmente predisposti.
Ovunque esista una sostanziale competizione politica -come è nella maggior parte del paese e come è stato ad Earie County nel 1940- la fedeltà ai partiti è esposta ad un costante pericolo di corrosione. La propaganda del proprio partito fornisce un arsenale di argomenti politici che servono a dissipare i dubbi dell’elettore e a rifiutare gli argomenti dell’opposizione che egli incontra nella sua esposizione ai media e agli amici -in breve, serve a rassicurare, stabilizzare e rafforzare la sua intenzione di voto e finalmente tradurla in voto effettivo. Un continuo flusso di argomenti “di parte” lo rende in grado di reinterpretare diversamente gli eventi incerti e le argomentazioni dell’opposta fazione politica così che egli non venga lasciato in un disagevole stato di indecisione mentale e di inconsistenza.
La fornitura di nuove argomentazioni e la reiterazione di vecchie per conto del proprio candidato rassicurano l’elettore vicino al partito e rafforzano la sua decisione di voto. Egli potrebbe essere tentato di vacillare, potrebbe mettere in dubbio la correttezza della propria decisione; le argomentazioni di rafforzamento sono lì a frenare queste tendenze verso la defezione. L’elettore è rassicurato di avere ragione, gli si dice perché, e gli si ricorda che altre persone sono d’accordo con lui, gli si fornisce sempre una gratificazione, soprattutto durante i periodi di dubbio. In breve, la propaganda politica attraverso i mezzi di comunicazione, proponendo buoni argomenti di parte, fornisce allo stesso tempo orientamento, rassicurazione e integrazione per coloro che sono già vicini al partito. Tali soddisfazioni tendono a tenere le persone “allineate” rafforzando la loro decisione iniziale. Più estesamente, la stabilità dell’opinione politica è funzione dell’esposizione a comunicazioni di rafforzamento.

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