LA PAROLA AI LETTORI

La parola ai lettori


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LETTERE A RESET



Perché tanto disfattismo?

 Egregio direttore di Reset,
sono un affezionato lettore catanese di Reset, che compro praticamente ogni bimestre. Sono anche un simpatizzante di sinistra, fieramente antiberlusconiano, antifiniano e antibossiano.
 Premesso che siamo tutti contenti del fatto che non esistono ormai parrocchie inviolabili e che è giustissimo, per carità, auto-criticarci a sinistra non le sembra che la sua Rivista (ma non solo) stia decisamente esagerando con questo accanimento sull'Ulivo. Non passa numero che non ci sia uno speciale dal titolo "La sinistra che non c'è", "Perché Berlusconi è meglio di noi", "Perchè Rutelli non è scarso" o similari.  Questo, a mio modesto avviso, eccesso di disfattismo è cosa
 che non aiuta, induce scoramento in una competizione già difficile anche sul fronte dei sinistrorsi, incoraggiando l'avversario che appare anche per questo molto
più coeso.
Soprattutto, non vedo paradossalmente uguale attenzione, da parte vostra, per le magagne altrui, per il progetto neo-autoritario che sta alla base della cosiddetta casa delle libertà e per le relazioni pericolose, assolutamente evidenti, fra AN e Lega, da una parte, e il mondo dell'estremismo di destra, dall'altro.
Insomma, ho l'impressione che, mentre a sinistra ormai impera il principio “Autoflagellarci è bello", dall'altro la sudditanza al padrone sta creando
una coesione che nel PCI  neppure al tempo di Togliatti....
Non credo che si debba tornare a quei tempi, ma una via di
mezzo non esiste?
Cordiali saluti
Giancarlo Ricci
Catania
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Disfattismo è un concetto che non mi piace. Si addice al tempo di guerra. E non è il nostro caso. Certo la destra è diventata molto militante e guerresca, come neppure al tempo di Togliatti  fu la sinistra. Per questo continua a piacermi meno dell’Ulivo
g.c.b.

 

Troppi poster sul nazismo

Caro direttore
Perché utilizzare tante immagini, e manifesti, nazisti per illustrare gli
articoli del numero di gennaio? Confesso che ho trovato un pò di
difficoltà a leggere il giornale in  metrò, mentre in ufficio ho sentito in
bisogno di presentare "Reset", non molto conosciuto, ai colleghi, al fine
di evitare equivoci.

Luigi Brunori


Chi può dirsi filosofo oggi ?

Caro direttore,
ho molto apprezzato il ricordo di Ludwig Wittgenstein che ha fatto Reset nell'ultimo numero. L'ho apprezzato soprattutto perché ha messo in luce un vecchio problema che non so quanto possa essere personale - se è così mi scuso fin d'ora di questa intrusione - o generale. Il vecchio problema è: chi può dirsi wittgensteiniano? Chi può considerarsi suo discepolo? Bene ha fatto Marilena Andronico a ricordare l'avversione di Wittgenstein per la scuola, l'accademia e tutto quanto agli occhi del filosofo (di ogni filosofo mi piace pensare) rischia di diventare ecclesia. Ma il fatto che la domanda si ponga significa che esiste un certo modo, una certa esigenza,
di potersi dire wittgensteiniano. Qual è?
Si sono passati anni interi a studiare, sviscerare, ripetere e confutare che esiste un primo Wittgenstein distinto da un secondo. Che il primo è amato dalla filosofia analitica quanto è avversato il secondo. Oppure, con il passare degli anni, che è tanto superato il primo quanto tutto da riscoprire il secondo. Oppure che non è più questo il problema, semmai è di capire perché il filosofo viennese non è più di moda. Echi di questo atteggiamento li ho visti anche sul numero di Reset, in particolare nel saggio di Gianni Vattimo che auspica addirittura una presunta conversione di Wittgenstein a posizioni in qualche modo più "continentali" rispetto alla storicità del linguaggio (mi si passi la semplificazione per il poco spazio che mi sono imposto).
Ma fortunatamente in quelle poche pagine usciva, si mostrava vorrei dire, anche qualcos'altro. Qualcosa che ha a che fare con la malattia e la guarigione. Qualcosa che sta in un rapporto di famiglia con queste cose. Qualcosa di indistinto, di sfocato, che forse vale ancora la pena chiamare filosofia. E' qui che si nasconde quella certa esigenza di sapere se si può essere wittgensteiniani.
È giusto quanto dice Perissinotto: che la "sostanza etica" del filosofare wittgensteiniano è un lavoro su se stessi. Il Tractatus è un lavoro scritto da un asceta, da uno che cerca di purificare se stesso e il mondo in cui vive. E lo fa attraverso un grande atto igienico sul linguaggio. Una disinfestazione, una severa pulizia di ogni angolo, cantone, orifizio dove possa annidarsi qualcosa che possa puzzare di metafisica, di mitologia. Questo libricino, scritto, riscritto, limato e pubblicato a fatica assomiglia molto più che a un testo accademico, a un esercizio spirituale,
a un breviario, a un viaggio verso la perfezione, l'illuminazione. Che poi questo viaggio sia stato preso come esempio, abbia avuto influssi ed echi nel pensiero filosofico occidentale negli ultimi cinquant'anni è quasi un caso. Che sia stato adottato dai filosofi professionisti, dalle scuole,
dall'accademia-ecclesia, è avvenuto malgrado l'autore.
Io credo che per rispondere alla domanda chi è wittgensteiniano oggi, occorre partire proprio da lì, dal lavoro su se stessi. E dunque la domanda non è molto diversa da: chi può dirsi filosofo oggi. Il filosofo (Wittgenstein) incomincia da una riflessione sulla materia bruta e sotto
il suo sguardo, il mondo diventa asettico, igienico. I problemi, il problema, diventano geometricamente certi. Scrivere un trattato, in fondo, non è altro che una chiarificazione dei sintomi. E solo una volta che questi sono detti, si mostrano in tutta la loro ironica e beffarda
sdrucciolevolezza. I problemi sono belli e posti, ma si scivola. Manca l'attrito, non si va da nessuna parte. E' tutto meraviglioso, ma non ci si può vivere: è lunare, manca l'aria.
Di ritorno da questa lontana regione dei ghiacci si può allora incominciare a scrivere un'altra opera. Come se il viaggio ripartisse da zero, come se la ruota girasse una seconda volta, una seconda opportunità delle infinite offerte dalla vita. Un'opera meno fredda e scritta con quella strana giocosità, serenità quasi, che hanno le persone già segnate, quelle che hanno passato la loro stagione all'inferno, un inferno di ghiaccio in questo caso.
Qualcuno dirà che quella non è la stessa persona di prima, a quanti è successo. Qualcuno dirà che era meglio il primo, no il secondo, anzi entrambi, anzi no, il pensiero continentale (come se Wittgenstein non fosse anche profondamente e problematicamente anche austriaco). Nessuno è meglio, nessuno è peggio. E' solo un altro viaggio.
Forse, questi piccoli indizi non basteranno a farci dire chi oggi è wittgensteiniano. Forse alla fine la domanda non ha senso. Ma mi sento di poter dire chi wittgensteiniano non è. Non lo è chi considera un testo filosofico come sacro e su questo vuole costruire una scuola. Non lo è chi
pretende di accogliere a sé un pensiero in evoluzione perché lo considera convertito alle sue posizioni, al suo porto sicuro. Chi pensa che la filosofia sia mero dibattito. Chi vede, nella vita di un pensiero, una prima parte disgiunta da una seconda. Chi continua a dire, senza mai fermarsi ad ammirare ciò che si mostra. E soprattutto, non è wittgensteiniano chi, con ciò che ha di fronte, non si mette a giocare. Perché non ne conosce la matrice, perché vede nel suo pensiero solo il
prodotto imperfetto e incompleto di ciò che dovrebbe essere il riflesso un ordine superiore (interiore) preso come modello. E allora lo cambia, lo muta, e così facendo, muta e mutila se stesso.
Non lo è, e quindi non è un filosofo, chi non tiene conto della domanda che Wittgenstein ha un giorno rivolto ai suoi quattro o cinque lettori: "È sempre possibile sostituire vantaggiosamente un'immagine sfocata con una nitida? Spesso non è proprio l'immagine sfocata ciò di cui abbiamo bisogno?"
Dario Olivero
Roma


Nessuna visita guidata ad Auschwitz

Caro direttore,
ho letto con grande interesse il forum sulla storia controfattuale pubblicato nel numero 64 di “Reset” e vorrei modestamente dire la mia sulla questione di come un regime nazionalsocialista eventualmente vittorioso avrebbe presentato ai suoi sudditi le vicende relative all’Olocausto. Simona Colarizi e Giovanni Sabbatucci ritengono che lo sterminio degli ebrei sarebbe stato occultato, perché sarebbe comunque apparso un’atrocità inconfessabile, anche per un sistema di potere apertamente razzista. Giovanni De Luna pensa invece che il Terzo Reich non avrebbe nascosto la Shoah, anzi l’avrebbe esibita, attribuendole una sorta di valenza pedagogica, come esempio dei fondamenti su cui si sarebbe basato il “nuovo ordine europeo” voluto da Adolf Hitler.
Credo che vi sia un elemento di verità in entrambe queste opinioni e provo a proporre una via di mezzo che mi pare plausibile. A mio parere, certamente i governanti nazisti non avrebbero rivelato nei dettagli i termini della “soluzione finale”, non avrebbero reso pubblico l’uso delle camere a gas, né avrebbero organizzato visite guidate ad Auschwitz e Treblinka. Sulla sorte degli ebrei sarebbe rimasto un velo di mistero. Ma certamente il regime si sarebbe vantato di aver risolto il problema definitivamente, di aver cancellato ogni presenza israelitica e garantito la purezza razziale perpetua dell’Europa. Sarebbe stato ben chiaro a tutti gli abitanti dell’impero hitleriano che gli ebrei avevano pagato un prezzo terribile per le colpe che i detentori del potere attribuivano loro, ma solo pochi elementi fidati avrebbero saputo che si era trattato di una vera e propria eliminazione fisica. Sarebbe stata certa la scomparsa dall’Europa del popolo d’Israele, ma sarebbe rimasto incerto il suo destino concreto. In questo modo i nazisti non si sarebbero addossati la responsabilità dell’Olocausto, crimine troppo orrendo per essere ammesso, ma avrebbero raggiunto ugualmente lo scopo intimidatorio e, per così dire, pedagogico di cui parla giustamente De Luna.
I miei più vivi complimenti per la rivista e un saluto cordiale.

Matteo Murdaca
Catanzaro