Ho cattive notizie da dare
di Alessandro Ferrara

 
Le cose sono sempre un po' più complicate di come amiamo rappresentarcele.  Mi riferisco al libro di Paolo Bellinazzi L'utopia reazionaria, portato alla gloria della attenzione giornalistica da una intervista recente di Bobbio in cui è stato citato. Nell'articolo Al di là dell'"ultimo piolo"  le tesi del libro vengono riprese e presentate in forma più sintetica. Operazioni del genere hanno l'indiscusso merito di agitare le acque altrimenti chete della pubblicistica culturale e ravvivare per un attimo la polemica delle idee. Dal punto di vista di questo potenziale di provocazione non c'è una relazione molto precisa fra l'accuratezza di una tesi e la sua capacità di accendere gli animi, le redazioni, le readership.  Entro certi limiti, anche una balla suggestiva va bene. Tocca poi ad altri il compito di mettere i puntini sulle "i".
Dicevo che le cose sono sempre un po' più complicate di come amiamo, in questo caso di come Bellinazzi ama rappresentarcele. Nazismo e comunismo pari sono, in quanto totalitarismi e nemici della modernità e della società civile borghese? Il sasso lanciato nella morta gora è questo in fondo: la continuità comunitaria, anti-borghese, anti-filistea, anti-capitalista, in ultima analisi antimoderna che lega i totalitarismi di destra e di sinistra del nostro secolo non sarebbe che il riflesso di una continuità ben più profonda che lega una ragguardevole schiera di filosofi:  Rousseau, Hegel, Marx, Engels, Nietzsche, Heidegger, Horkheimer, Adorno, Marcuse. Ma su cosa poggia questa continuità tra filosofi di orientamenti spesso completamente opposti? Poggia, secondo Bellinazzi, su una comune piattaforma metafisica, costituita dal  "concetto platonico-eleatico dell'Essere", secondo cui solo a partire dal "non-essere" e dal "nulla" diviene possibile pensare il mutamento. Mentre il pensiero scientifico moderno e l'Illuminismo vengono accusati dagli utopisti reazionari di riproporre in chiave empirista l'uno, razionalista l'altro, una visione parmenidea dell'essere, chi vuole pensare la storicità dell'essere deve sottrarsi a queste sirene e incorporare nella propria filosofia il non-essere, l'oblio, la morte (tanto dei singoli quanto delle formazioni collettive). Il soccombere nella storia e il rinascere dalle ceneri "superando" ciò che è stato e al tempo stesso conservandolo diventa la figura paradigmatica di questo modo di pensare la società, la storia, le culture, ecc. E il dare la morte diventa una tappa necessaria, un pedaggio sulla strada del mutamento verso una forma di essere in qualche modo più elevata e compiuta.
Questo sfondo filosofico, in cui le particolari teorie articolano in modi in fondo irrilevantemente diversi che cosa deve ricevere la santificazione della storia, diventa un terreno di cultura per utopie politiche di segno antidemocratico che ne ricevono legittimazione. Nazismo e comunismo non sono che due facce di questa stessa mentalità filosofica.
La tesi non è nuova. Basti ricordare la famosa battuta per cui a Stalingrado si venivano a scontrare, l'un contro l'altro non solo metaforicamente armati, l'hegelismo di destra e di sinistra. O le tesi di Popper su Platone e Hegel nemici della società aperta. Ma forse, dopo alcuni decenni ed essendo entrati in un nuovo millennio, qualcuno dovrà spiegare agli epigoni di questa tesi ancora impegnati, come i soldati giapponesi dispersi nelle giungle del pacifico, a combattere più o meno eroicamente che questa guerra filosofica è finita da un pezzo.
Nel dubbio che possano non trovarsi altri volontari, mi assumo io in queste righe l'ingrato compito di sommessamente riferire, con la compunzione del caso, alcune non buone notizie a un sostenitore di una nuova variante di questa tesi. Prima cattiva notizia. Ho avuto modo, nel corso di un lavoro sul male radicale, di guardare più da vicino al nazismo e alla sua aberrante ma pur esistente concezione del bene. Auschwitz poggia su una concezione per quanto aberrante del bene, non sul perseguimento del male per il male. E questo rende Auschwitz ancora più inquietante. Esisteva in Hitler ma ancora di più in Himmler una attenzione a presentare la propria morale della igiene razziale, precorritrice in chiave biologistica delle pulizia etnica dei giorni nostri, sotto forma di una morale della purezza. Hitler citava Kant, Himmler egualmente, per non parlare di Eichmann. È di Hitler, ad esempio, l'idea che il popolo tedesco fosse l'unico ad avere fatto della "legge morale" un principio di condotta effettivamente imperante. Significa ciò che vi sia una connessione tra l'imperativo categorico e il comportamento dei nazisti, o che i gerarchi nazisti avevano troppo poco tempo per dare una riverniciatura filosofica anche minimamente coerente a quello che facevano?  E che dunque l'operazione di ricostruire il pedigree filosofico delle camicie brune per poi operare la "reductio ad Hitlerum" dei malcapitati antenati non ha molto senso?
Seconda cattiva notizia. Horkheimer e Adorno avevano una vita filosofica distinta, che non si lascia esaurire nelle pagine apocalittiche di Dialettica dell'illuminismo. Appartiene alla vita distinta del primo l'idea di una proficua divisione del lavoro fra scienze e filosofia, in particolare fra scienze sociali e filosofia come critica dell'esistente. Negli anni trenta la Scuola di Francoforte era ispirata esattamente da questo paradigma, che oggi rivive parte in Habermas e parte in Honneth. Gli studi sull'autorità e la famiglia, più tardi lo studio di Adorno sulla personalità autoritaria ne sono il sedimento. Per spiegare il sostegno di massa al totalitarismo nazismo Horkheimer e Adorno intendevano in quella fase ricorrere alla più sofisticata strumentazione psicologica e sociologica e condurre ricerche empiriche sul modello di socializzazione autoritaria dominante nelle famiglie tedesche dell'epoca. Adorno poi è l'autore di Dialettica negativa, un'opera di cui tutto sembra si possa sostenere tranne che sia ispirata a una nostalgia per "la forza delle idee e dei valori trascendenti". Dialettica negativa è un inno alla differenza, una devastante disamina dell'autoritarismo implicito in quelle che oggi chiameremmo filosofie fondazionaliste e della speculare vacuità di quelle filosofie del negativo che creano un controprincipio egualmente fondazionalista ma solo di segno diverso, ed è lo sforzo di collocare il pensiero critico negli spiragli imprevedibili ma sempre esistenti del "non-identico", di ciò che non si lascia inquadrare, di ciò che sfugge alle classificazioni. Come dirà più tardi della creazione estetica, anche in filosofia per Adorno pensare criticamente vuol dire in qualche modo introdurre caos nell'ordine, tradotto: pensare a partire da ciò che non si lascia ridurre entro quegli schemi classificatori con cui non di meno non possiamo non operare.  Alla luce di tutto ciò, sembra quanto meno dubbio assimilare Adorno a un fautore del "ritorno in auge della trascendenza e dei suoi valori" o peggio della restaurazione della Gemeinschaft.
Quest'ultimo termine mi conduce alla terza cattiva notizia. Di fronte al "paradosso infernale" di una ragione "dialettica", "ontologica", "negativa" (la caratterizzazione non è delle più precise, ma la tesi dell'"utopia reazionaria" è un po' una rete a strascico, volutamente ampia al fine di acchiappare qualcosa comunque) che, attraverso il pensiero di Platone, Aristotele, Hegel, Marx, Nietzsche e Heidegger, produce come esito "non solo il non-essere, la morte, l'annientamento, dell'illuminismo, della scienza e della società capitalistico borghese, ma il non-essere e l'annientamento, la morte di milioni di individui", secondo Bellinazzi non resta che "tornare a propendere incondizionatamente per l'illuminismo, il libero mercato, l'ingegneria istituzionale, per una scienza empirico-falsificazionista".
La terza cattiva notizia è che  il "gran rifiuto" di cui Hegel sarebbe il precursore - il rifiuto dell'atomizzazione indotta da una società capitalista che equipara ciò che va bene per il mercato con ciò che va bene per la società - è parte integrante della riflessione liberale più avvertita. Nell'elogio in controluce dello spirito pragmatico "liberal-borghese", capita a Bellinazzi l'ironica ma non insolita sorte di ritrovarsi più realista del re. Qualcun altro forse più capace di me dovrà spiegargli che al cuore del pensiero di un liberale doc come Tocqueville c'è proprio la preoccupazione che la società democratica moderna produca un homo democraticus dal cui particolarismo e disaffezione dalla politica proviene la peggiore minaccia per la democrazia. Oppure che la frase "la grande società" -- ossia di nuovo la società industriale capitalista moderna -- "ha distrutto le piccole comunità senza creare al loro posto una grande comunità" non è stata scritta da uno dei fautori della ragione "dialettica, ontologica, negativa" ma da un altro liberale doc come John Dewey alla vigilia della crisi del 1929. Oppure che l'idea che l'eguaglianza nella cabina elettorale si svuota di significato se non si accompagna a una eguaglianza di opportunità fuori della cabina elettorale non viene da un comunista ma da Franklin D. Roosevelt, altro liberale che rifiuta di pensare la società sulla falsariga del mercato. E che al centro del pensiero di John Rawls, il più grande fra i filosofi liberali viventi, è fra l'altro anche la preoccupazione di tenere il suo "liberalismo politico" alla larga da ogni identificazione con concezioni individualistiche dell'individuo.
Sarebbe facile continuare con altre "i" e altri puntini. Ma il messaggio spero sia ormai chiaro. Bisogna rassegnarsi al fatto che la guerra tra i fautori della società aperta e quelli della società chiusa è finita da un pezzo. I migliori fra i primi hanno scoperto momenti di chiusura all'interno di quella che credevano essere la società aperta. I migliori fra i secondi hanno scoperto le virtù della società aperta, ma conservano una sensibilità anche nei confronti delle sue ombre. Le carte sono state mischiate. E' iniziata una nuova partita filosofica.