Se un infinito è più infinito di un altro
di Alessandro Lanni

Può una parte coincidere con il tutto? Sì, se si tratta di insiemi infiniti. La storia di Georg Cantor malato di mente e matematico che ha scoperto il "giardino segreto" degli infiniti.

 

SE ARRIVASSE QUALCUNO, mettiamo un matematico, che con dovizia di particolari e di prove annunciasse che l'infinito non esiste in un'unica copia - cosa che di per sé è già faticosa a pensarsi -, ma ci confidasse che ce ne sono molti, anzi infiniti: come rimarremmo? Se poi aggiungesse che, in verità, gli infiniti sono sì, infiniti, ma esistono infiniti che sono più infiniti di altri, che sono più numerosi: come la prenderemmo? Eppure, per assurdo che possa sembrare, un qualcuno che ha fatto affermazioni così apparentemente paradossali e anti-intuitive è esistito. Il suo nome è Georg Cantor. Personaggio forse non troppo nominato nella stagione "neopitagorica" di questi mesi, eppure stella di primo piano nel firmamento dei matematici di tutti i tempi. Anch'egli, come altri suoi colleghi, soffrì di gravi disturbi psichici. Come Kurt Gödel - che a lungo studiò i risultati sull'infinito di Cantor - morì di inedia, nella Nervenklinik della città tedesca di Halle, il giorno dell'Epifania del 1918.
A Cantor si deve la scoperta di risultati fondamentali e decisivi nella storia della matematica: i numeri transfiniti, la formulazione dell'ipotesi del continuo, una teoria rigorosa degli insiemi. Tutte nozioni che hanno cambiato radicalmente la scienza dei numeri.

Dopo i paradossi di Zenone, le speculazioni tardo-antiche e medievali sull'infinito, sull'infinità di Dio, dopo il passaggio dal mondo chiuso all'universo infinito - per riprendere il titolo di un celebre libro dello storico della scienza Koirè - fu Galilei a porre una questione tanto semplice quanto dirompente nella riflessione sugli insiemi infiniti. Lo scienziato pisano notò che, nel caso di insiemi infiniti, può verificarsi che un insieme e una sua parte possano avere lo stesso numero di elementi. Un tale sottoinsieme sarebbe una porzione di un insieme, ma possiederebbe lo stesso numero di elementi dell'insieme che lo contiene. Affermazione apparentemente sconcertante, eppure veritiera. Facciamo un esempio: i numeri naturali (1, 2, 3, …) sono tanti quanti i numeri pari (2, 4, 6, …). Se si dispongono, infatti, su due linee parallele possono essere messi in corrispondenza biunivoca: ad ogni numero naturale corrisponde un numero pari. L'insieme dei numeri naturali, per dirla con Cantor, ha la stessa cardinalità di quello dei numeri pari.

Questa intuizione galileiana è una delle basi su cui si sviluppò il ragionamento di Cantor. Egli arrivò all'infinito ragionando sugli insiemi, sui quali sviluppò una teoria che - insieme alla definizione di numero in termini insiemistici data da Giuseppe Peano - sarà alla base della matematica del '900. Nel 1874, attraverso un procedimento detto "diagonalizzazione", Cantor estende la scoperta di Galilei: anche i numeri razionali (le frazioni) sono tanti quanti i numeri interi positivi. Su queste basi elabora la dottrina dei numeri transfiniti, quei numeri che connotano insiemi infiniti di differenti ordini. Per esempio, i numeri reali (razionali e irrazionali uniti) sono più numerosi dei naturali: sono anch'essi infiniti, ma di più. A questa scala di infinità Cantor assegnò la prima lettera dell'alfabeto ebraico, l'aleph, con l'aggiunta di un indice numerico crescente. "Lo vedo, ma non ci credo", scrisse Cantor a un altro grandissimo della storia della matematica, Richard Dedekind, in una lettera del 29 giugno 1877. La moltiplicazione degli infiniti era un risultato difficile da sostenere per una mente fragile come la sua. Una moltiplicazione che però avrebbe rivoluzionato il corso della matematica.

Un capitolo a parte merita la malattia di cui ha sofferto Cantor per tutta la sua vita. Malgrado non fosse chiara la natura del suo disturbo, ci sono molti indizi che inducono a pensare che fosse di tipo maniaco depressivo. Durante la prima convalescenza, nel 1884, Cantor subì una trasformazione: divenne uno studioso di William Shakespeare. Si prefisse l'obiettivo di dimostrare che i testi del più grande scrittore di lingua inglese fossero in realtà opera del filosofo Francis Bacon. Ogni volta che veniva dimesso dalla clinica psichiatrica, Cantor si metteva a lavoro per dimostrare la sua congettura, ritenendosi un grande esperto di letteratura inglese. Arrivò a esporre le sue illazioni in convegni e conferenze senza, però, essere preso troppo sul serio dal pubblico.

A questi e altri temi legati alla vita e ai risultati scientifici di Georg Cantor, Amir Aczel dedica la sua ultima fatica di divulgatore matematico: Il mistero dell'alef (il Saggiatore 2002). Un libro che "si fa leggere", anche da chi non conosce benissimo analisi e teoria degli insiemi. L'autore, tuttavia, come capita ad alcuni matematici che si appassionano per la cultura umanistica, forse esagera con i collegamenti a discipline lontane. La storia matematica dell'infinito appare completa e i riferimenti ai matematici del XIX e XX secolo appropriati. Le figure di Gödel e Cohen, i due matematici che hanno approfondito i risultati di Cantor, sono descritte con precisione. Meno calzanti e un po' "tirati via" sono i collegamenti con la religione e la mistica ebraica. Per certi versi il capitolo dedicato alla qabbalah è eccessivamente separato dal resto del libro. L'aleph è certamente significativa per Cantor, ma forse questo non giustifica fino in fondo l'interpretazione misteriologica che ne dà Aczel.


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