“Nasce
un partito senza precedenti, senza modelli, senza criteri:
smidollato e scriteriato. Eppure il modello c’era,
c’è: il Parti Socialiste di François
Mitterrand”. Gianfranco Pasquino, politologo bolognese,
non è tenero verso il neopartito democratico
definito senza mezzi termini “oligarchico”.
Né tanto meno verso il suo quasi certo leader
(“Avrebbe fatto meglio a dire subito: “Grazie,
grazie della proposta di candidatura, ma non così”).
Prudentemente, invita a tenere basse le aspettative
per il 14 ottobre: “Aspettiamoci un plebiscito
che la stampa amica esalterà come un trionfo
(di che cosa?). Poi, prepariamoci anche ad una crisi
di governo: il leader del partito, anche se non deliberatamente,
finisce sicuramente per minare l’autorità
del capo del governo. Il resto lo faranno i ‘coraggiosi’
del Manifesto insieme a Follini, en attendant Casini”.
Professore, cosa pensa della decisione che
prevede la possibilità di più liste che
appoggino lo stesso candidato?
Non vedo problemi perché il guaio non abita
lì. Ovvero, la pluralità delle liste,
se sarà davvero espressione di una pluralità
di posizioni e non una furbata cosmetica, sarebbe/sarà
un fatto positivo. Il problema abitava, invece, nella
possibilità di consentire l’espressione
di un doppio voto: per la lista e per il candidato,
separatamente. Sembra, purtroppo, che il regolamento
non lo consenta. Non appena si affaccia una qualche
praticabile modalità attraverso la quale gli
elettori riuscirebbero ad esercitare vero potere politico
non previamente incanalato in stretti binari, oplà,
i dirigenti intelligentissimi e i saggi di loro riferimento
tagliano, sopiscono, potano, impediscono e, poi, naturalmente,
giustificano. La solita vecchia paura della democrazia;
meglio, il vizietto della democrazia guidata.
Timore della competizione aperta.
Questo è in complesso il segnale, francamente
deprimente. Quanto al pluralismo, per comprimerlo ed
eliminarlo hanno fatto del loro meglio Fassino, che
se ne vanta; lo stesso Veltroni, che se ne giova; il
sedicente “combattente” Bersani, che si
ritira sveltamente; il pensoso Letta; l’arrembante
Parisi; e così via. Meglio concorrere e perdere
oppure fare il gran rifiuto e venire poi premiati e
cooptati? La seconda che ho scritto. Sempre. Per fortuna
che Rosy Bindi si è candidata aprendo la strada
anche ad altre candidature. Quanto a Parisi avrebbe
fatto meglio a scendere in campo anche lui, girando
il paese reale, argomentando e contandosi. Magari giungendo
a dimostrare per esteso che non siamo di fronte a una
competizione vera e aperta, ma a un preconfezionato
procedimento di investitura dall’alto e di sollecitazione
di consenso plebiscitario dal basso. Poiché avevo
previsto e stigmatizzato tutto questo, ho vinto un premio?
E non sarebbe il caso di chiedere qualche autocritica
agli intellettuali di riferimento del Pd, non li menziono
perché non se lo meritano, che mi sembrano tutti
dei grandi giustificazionisti? E chi l’ha detto
o scritto che deve anche esserci un vice-segretario?
E lo si voterà insieme o separatamente
dal candidato segretario?
Un commento sulla mancata partecipazione di
Bersani (e di altri diessini)?
Una straordinaria, monumentale, gigantesca, tristissima
sconfitta ammantata di belle parole. Ma come si fa a
costruire un “partito di combattimento”
se chi lo vuole, ovvero Bersani, rinuncia da subito,
dopo una lunga telefonata con il “suo” segretario,
a combattere “per non dividere il partito che,
comunque, dovrebbe scomporsi e sparire? Anzi, dovrebbe
già essere stato sciolto (raccontatelo ai dirigenti
locali che si posizionano alacremente). Misteri non
proprio gloriosi per una partito che avrebbe anche l’impudenza
di autodefinirsi “democratico”. In che senso,
di grazia, “democratico” soltanto per sottrazione,
ovvero perché non “social”-democratico?
Certamente, il Pd non merita l’aggettivo né
per le sue regole né le sue procedure né
per quel che fa vedere nel suo percorso di avvicinamento
a qualcosa di, temo, deliberatamente, indefinito.
Un giudizio sulle quote rosa. “Finalmente!”
Oppure: “Decisione
sbagliata?”.
Riconosco ai partiti, ai loro dirigenti e ai loro iscritti,
anche al femminile, peraltro raramente interpellati
in modo libero, tutta la discrezionalità che
vogliono nel decidere chi candidare, come, quando. Le
quote rose, in questo senso, non mi scandalizzano, ma
neppure mi esaltano. Spetterà poi alle “quotate”,
primo, dimostrare di essere totalmente indipendenti
dai loro politici maschi di riferimento; secondo, di
avere la capacità e la competenza per stare al
loro posto (a scanso di equivoci, lo stesso ragionamento
vale per le quote “azzurre” che non danno
quasi mai buona prova di autonomia); terzo, che esiste
un modo diverso delle donne di stare in politica, di
fare politica, di esporsi e di innovare. Per inciso,
fino ad ora non l’ho neppure intravisto. Attendo,
ovviamente senza farmi illusione alcuna.
Che tipo di modello di partito sta nascendo
e con quali
caratteristiche?
Nasce un partito senza precedenti, senza modelli, senza
criteri: smidollato e scriteriato. Il modello c’era,
c’è: il Parti Socialiste di François
Mitterrand, ma quello era e rimane un moderno partito
socialista. Nacque felicemente, combinando politici
e esponenti della società civile, con una virtuosa
commistione anche di culture politiche, compresa quella
cattolica, facendo leva su punti di forza, sfruttando
le opportunità istituzionali: doppio turno e
semipresidenzialismo. In Italia, invece, nulla di tutto
questo. Come è arcinoto, sappiamo fare molto
meglio della Francia: sistema elettorale, forma di governo,
leadership… Ovvio che questa è una amara
constatazione sugli “anomalisti” italiani
che dichiarano a ogni pié sospinto che l’Italia
è stata, è e rimane un’anomalia
positiva. Figurarsi, adesso il Partito democratico cambierà
anche la politica in Europa (sta scritto nell’altrimenti
banale, noiosetto, presuntuoso, ma non ancora abrogato
“Manifesto dei Valori” che, incidentalmente,
chi andrà a votare il 14 ottobre accetterà
automaticamente, volente o nolente. Per quel che conta,
al momento, sono personalmente molto nolente). Le caratteristiche
organizzative del Pd saranno rappresentate da sovrapposizioni
di vecchi spezzoni di partito ex-comunista e di partito
ex-democristiano, aggregazioni correntizie, reti personalistiche
e clientelari. Questa è la svolta epocale nel
mondo globale che, tutti, a cominciare dagli europei,
ci invidieranno? Magari no. Sarebbe di gran lunga preferibile
lasciare che crescano almeno 475 fiori, ovvero organismi,
a loro tempo definiti “convenzioni”, nei
collegi uninominali del Mattarellum, dove le parlamentari
elette e, eventualmente, le loro sfidanti, tutte (notato
il femminile?), ovviamente residenti nei collegi, si
confrontino con le associazioni di cittadini. Questa
sarebbe una bella ed efficace modalità organizzativa.
La parola a Veltroni che, peraltro, non è proprio
famoso per essere uomo di organizzazione e i cui solenni
pronunciamenti programmatici, sociali e istituzionali,
non hanno neppure sfiorato il problema della natura
e della struttura del prossimo partito.
La centralità del leader è una
forza oppure segnala un “deficit”
democratico?
La centralità del leader è un elemento
di forza a due condizioni: primo, che il leader voglia
davvero utilizzare la sua centralità, personale,
politica, istituzionale; secondo, che il leader sappia
circondarsi di autorevoli consiglieri in grado di dirgli:
“No, sbagli; bisogna, piuttosto, fare in quest’altro
modo”. La centralità del leader finirà
per essere un grande elemento di disturbo se il leader
del Partito Democratico non diventerà molto rapidamente
anche il capo del governo (o dell’opposizione).
Saranno, però, non soltanto gli elementi personali
del leader a dire come andrà la faccenda, ma
le regole del gioco elettorale e istituzionale, tutte,
come sappiamo da tempo, da riformare a fondo e sulle
quali le maggioranze interne ai due partiti contraenti
e i loro ministri responsabili non stanno dando la migliore
prova di sé oppure, forse, sì: danno il
massimo che, concretamente, rivela che non è
vero che sono realisti, ma sanno pochissimo.
Che cosa ci dobbiamo aspettare per il 14 ottobre?
Tenere le aspettative basse anche se molto dipenderà
dalla campagna d’autunno. Aspettiamoci poco, poco
più di un plebiscito che la stampa amica esalterà
come un trionfo (di che cosa?). Poi, prepariamoci anche
ad una crisi di governo: il leader del partito, anche
se non deliberatamente, mina l’autorità
del capo del governo. Il resto lo faranno i “coraggiosi”
del Manifesto insieme a Follini, en attendant
Casini.
Quanto pesano ancora i partiti sul Pd e perché?
Ds e Margherita sono i soci fondatori del Pd che continueranno,
con il loro persino troppo sperimentato personale politico,
con le loro specifiche “caste”, a guidarlo,
fra scaramucce e spartizioni. Qualche volta, in un empito
di generosità, coopteranno qualcuno che, specialmente
se giovane, sarà molto riconoscente, molto ossequioso,
molto obbediente. Ds e Margherita pesano e contano perché
la mitica società civile italiana e il leggendario
popolo delle primarie sono, da un lato, deboli e interessati
ad obiettivi che non sanno delineare con precisione,
dall’altro, non sono né capaci né,
ancor meno, disposti ad ingaggiare un vero confronto
dialettico con i dirigenti di partito e diventano facili
prede di incomprensibili entusiasmi. Di nuovo, nulla
di comparabile all’esperimento mitterrandiano.
Condivide, a questo proposito, il referendum
“anti-partiti”? E per quale tipo di sistema
elettorale dovrebbe battersi il Partito democratico?
Credo che il Pd dovrebbe essere a favore del referendum
elettorale poiché il suo esito concreto sarebbe
comunque preferibile al porcellum, e anche
perché i suoi parlamentari non sono comunque
in grado di fare una legge decente. Per fortuna, il
Presidente della Repubblica Napolitano li obbligherà
a non stravolgere l’esito di un referendum che
potrebbe, peraltro, anche non tenersi se ci saranno
elezioni politiche anticipate che presuppongono comunque,
come Napolitano ha dichiarato “alto e forte”,
una nuova legge elettorale. Il Pd e altri dovrebbero
optare per un sistema elettorale maggioritario a doppio
turno in collegi uninominali quasi alla francese, ovvero,
variazione da me suggerita (e forse anche da Sartori):
possono passare al secondo turno in ciascun collegio
i primi quattro candidati. Su questa materia Rutelli
e Fassino sono abbastanza inaffidabili e non particolarmente
competenti. In più, non vogliono imparare niente
e non hanno un’idea precisa di quale sistema politico
desiderano, tranne che restare al governo e, magari,
diventare loro, se non è già troppo tardi,
capi di governo. Il sistema elettorale tedesco, che,
in Germania, si accompagna all’elezione del Cancelliere
da parte del Bundestag, al voto di sfiducia costruttivo
e al forte Bundesrat ad elezione indiretta, favorisce
sicuramente una convergenza al centro. Non sarà
mica un caso che, dal novembre 2005, in Germania governa
una Grande Coalizione? Nec plus ultra.
Di che cosa avrebbe bisogno il paese? Ci dica
cinque priorità per il Partito democratico.
1)Trovare, promuovere, consentire che si esprimano
e si affermino donne e uomini che hanno competenze maturate
fuori dalla politica e che vogliono misurarle con la
politica per un periodo di tempo definito;
2) Fare pagare a tutti (le tasse) per pagarne tutti
meno;
3) Investire nell’istruzione e premiare e punire
i docenti a tutti i livelli;
4) Perseguire tenacemente e intelligentemente le eguaglianze
(al plurale) di opportunità e intervenire sostenendo
e riqualificando;
5) Prendere atto che il Partito democratico nella versione
“fusione di oligarchie” è fallito
e che è opportuno ricominciare subito per dare
vita in tempi molto brevi e sul territorio ad un moderno
partito decentrato e federato, laico e socialdemocratico,
composto da iscritti/e che contano in prima persona.
* Questa intervista è stata realizzata il
30 luglio 2007
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