327 - agosto 2007


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“Solo un leader forte
porterà vera innovazione”

Stefano Ceccanti con
Elisabetta Ambrosi


Stefano Ceccanti ha le idee molto chiare su come il Pd dovrebbe cambiare il paese. Niente programmi lunghi decine di pagine, ma solo due obiettivi: riforme elettorali e costituzionali per completare la transizione con un bipolarismo migliore; riforme economico-sociali per valorizzare gli outsider (donne, giovani, soggetti realmente deboli) rispetto agli insider. Quando lo pungoliamo sui meccanismi elettivi scelti per le primarie di ottobre, il costituzionalista romano, tra coloro che hanno materialmente scritto il regolamento per le elezioni del 14 ottobre, dice: “Su questo punto non c’era nessuna alternativa reale”. E poi afferma: “La scelta della lista unica avrebbe penalizzato eccessivamente il diritto di elettorato passivo. Con poche liste, inoltre, ci sarebbe stato meno pluralismo”.

Prof. Ceccanti, ora che il panorama dei candidati è delineato, possiamo forse cominciare parlare di un accenno di competizione. Ma ci sarebbero volute altre candidature, specie tra i Ds.

Ho trovato un po’ surreale richiedere a Veltroni che fornisse lui, oltre alla propria disponibilità, anche quella di propri avversari. Il punto è che il 14 ottobre sono venuti di fatto a sommarsi tra di loro l’Assemblea Costituente e il primo congresso del Pd e che, se Romano Prodi è il convocatore dell’evento, Veltroni rappresenta ancor meglio, anche per la differenza generazionale, il prototipo del “politico democratico” che sin dall’origine ha fuso in sé vari linguaggi e varie culture e che si muove a trecentosessanta gradi su tutte le issues rilevanti, nessuna esclusa. Si presta quindi meglio di ogni altro a rispondere a quelle parti rilevanti di società italiana dove la “contaminazione” tra culture politiche non è un qualcosa da realizzare, ma per un verso, nei quadri più giovani del futuro Pd, di già avvenuto e per un altro verso, negli elettori potenziali, di un pre-requisito su cui innestare proposte programmatiche da valutare laicamente. Veltroni è quindi il candidato “naturale” perché è identificato dagli elettori come il più coerente sostenitori da anni di quel progetto.

Che sia il candidato più adatto è possibile, ma lo dovrebbero scegliere gli elettori, non trova? E non le è sembrato francamente deprimente, a questo proposito, il ritiro di Bersani?

Proprio perché Veltroni è il candidato avvertito come “naturale” dagli elettori e non da un patto di vertice, peraltro in un contesto emergenziale in cui si tratta di ricostruire un rapporto tra elettori e Pd e che spinge, capisco bene la difficoltà di sfidanti autorevoli a entrare in gara per rischiare di competere con risultati prevedibili e per niente soddisfacenti.

La centralità del leader è una forza, oppure?

Solo una leadership autorevole può produrre innovazione politica reale. Per questo occorre una legittimazione popolare che favorisca il sorgere di persone in grado di rispondere a quel ruolo. È quindi vero il contrario: il deficit democratico ci sarebbe se il leader rispondesse a quelle funzioni senza avere una legittimazione diretta.

Che tipo di partito sta nascendo?

Un partito a vocazione maggioritaria analogo a quelli esistenti in Europa, nei quali il leader interno è in prospettiva chiamato anche a guidare il governo, e anche per questo in grado di strutturare la coalizione di cui può far parte. Un partito federalista che elegge al tempo stesso anche segretari regionali e assemblee costituenti regionali, assicurando loro così una effettiva autonomia.

Che cosa ci dobbiamo aspettare per il 14 ottobre?

Una significativa partecipazione popolare perché mai nessun partito aveva osato tanto; nascere senza barriere con nessuno dei propri elettori sia sul piano nazionale sia su quello regionale.

Ma i partiti pesano ancora, eccome.

Ben poco e man mano che il processo si avvicinerà a quella scadenza vedremo l’impatto effettivo del rimescolamento delle identità e delle organizzazioni. Chi è giunto alla politica di centrosinistra dopo la scomparsa dei partiti storici non ha preso mai troppo sul serio, in profondità, le “identità” di Margherita e Ds e le regole spingono esattamente nel senso del rimescolamento.

Lei è ottimista. Comunque almeno la scelta sulle quote rosa fa ben sperare.

Direi che si tratta di una scelta coraggiosa, ma anche dovuta. Se il Pd vuole dare segni di discontinuità aprendo ai non professionisti della politica, la frontiera dell’apertura alle donne è un dovere politico. Peraltro lo sarebbe per tutti, visto che qualche anno fa si è modificato l’articolo 51 della Costituzione per dare copertura a leggi che introducano queste novità. Mentre aspettiamo le leggi è intanto doverosa l’autoriforma.

Come funzionerà concretamente la “divisione” di genere?

Si è fatta una doppia scelta, non solo l’alternanza di genere nella lista, ma anche l’equilibrio di genere tra i capilista delle liste di collegio che si collegano sul piano circoscrizionale (la Regione o comunque più province). Se infatti, come è sperabile, ci saranno varie liste di collegio con una media di 5 eletti per ciascuno di essi, è ragionevole pensare che in molti casi sarà eletto solo il capolista. L’alternanza di genere nella lista potrebbe allora avere scarsi effetti se i capilista fossero prevalentemente uomini. Dato però che per il recupero dei resti sul piano circoscrizionale le liste si possono collegare (ad esempio la lista “Ecologisti per Veltroni” si presenta in tutta l’Emilia Romagna e così si collega quella di Bologna 1 con quella di Bologna 2 e così via) è stato inserito il vincolo del 50% dei capilista di sesso diverso. A scegliere una soluzione così drastica, al di là di formulazioni di compromesso come il 40%, ha contribuito proprio l’argomento contrario secondo il quale la norma sarebbe aggirabile perché a quel punto una lista si presenterebbe solo nel collegio, rinunciando a collegarsi. Se si può temere questa elusione, che però i candidati segretari possono bloccare non dando l’apparentamento a liste costruite per tale scopo, allora vale proprio la pena di mettere una soglia più alta perché se anche qualcuno ci riuscisse i risultati complessivi sarebbero soddisfacenti. Se cioè mettendo il 40% si potrebbe ottenere in termini reali il 30%, allora tanto vale mettere il 50% per aspettarsi almeno il 40% reale.

Veniamo al referendum. È d’accordo con i suoi obiettivi? Per
quale tipo di sistema elettorale dovrebbe battersi il Partito democratico?

Senza il successo del referendum non ci sarebbe nessuna riforma elettorale. Su questa materia non basterà il risultato ma occorrerà una riforma parlamentare. La proposta del sistema tedesco ha una parte di verità: il sistema non deve tendere, come oggi, a blindare le coalizioni; i partiti, e soprattutto quelli a vocazione maggioritaria, non debbono essere eccessivamente limitati dall’obbligo di alleanze. Tuttavia l’esito è sbagliato: il sistema tedesco toglierebbe agli elettori il diritto di decidere sul governo. Se si vogliono coniugare i pregi dell’autonomia ma anche il diritto dell’elettore di conoscere prima l’esito del suo voto si può prendere uno qualsiasi dei sistemi a doppio turno (nel turno decisivo ci si può rivolgere direttamente agli elettori degli esclusi) o il sistema spagnolo, che favorisce i partiti a vocazione maggioritaria, imperniando su di essi le coalizioni. Il sistema tedesco porterebbe invece a un eccesso di potere (rispetto ai consensi) dei partiti con collocazione centrista. Devono pesare di più gli elettori di centro, che sono una maggioranza, non i partiti di centro.

Ci dica cinque priorità per il Partito democratico.

Mi fermo a due. Riforme elettorali e costituzionali per completare la transizione con un bipolarismo migliore. Riforme economico-sociali per valorizzare gli outsider (donne, giovani, soggetti realmente deboli) rispetto agli insider.

 

 

 

 

 

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