Stefano Ceccanti
ha le idee molto chiare su come il Pd dovrebbe cambiare
il paese. Niente programmi lunghi decine di pagine,
ma solo due obiettivi: riforme elettorali e costituzionali
per completare la transizione con un bipolarismo migliore;
riforme economico-sociali per valorizzare gli outsider
(donne, giovani, soggetti realmente deboli) rispetto
agli insider. Quando lo pungoliamo sui meccanismi elettivi
scelti per le primarie di ottobre, il costituzionalista
romano, tra coloro che hanno materialmente scritto il
regolamento per le elezioni del 14 ottobre, dice: “Su
questo punto non c’era nessuna alternativa reale”.
E poi afferma: “La scelta della lista unica avrebbe
penalizzato eccessivamente il diritto di elettorato
passivo. Con poche liste, inoltre, ci sarebbe stato
meno pluralismo”.
Prof. Ceccanti, ora che il panorama dei candidati
è delineato, possiamo forse cominciare parlare
di un accenno di competizione. Ma ci sarebbero volute
altre candidature, specie tra i Ds.
Ho trovato un po’ surreale richiedere a Veltroni
che fornisse lui, oltre alla propria disponibilità,
anche quella di propri avversari. Il punto è
che il 14 ottobre sono venuti di fatto a sommarsi tra
di loro l’Assemblea Costituente e il primo congresso
del Pd e che, se Romano Prodi è il convocatore
dell’evento, Veltroni rappresenta ancor meglio,
anche per la differenza generazionale, il prototipo
del “politico democratico” che sin dall’origine
ha fuso in sé vari linguaggi e varie culture
e che si muove a trecentosessanta gradi su tutte le
issues rilevanti, nessuna esclusa. Si presta quindi
meglio di ogni altro a rispondere a quelle parti rilevanti
di società italiana dove la “contaminazione”
tra culture politiche non è un qualcosa da realizzare,
ma per un verso, nei quadri più giovani del futuro
Pd, di già avvenuto e per un altro verso, negli
elettori potenziali, di un pre-requisito su cui innestare
proposte programmatiche da valutare laicamente. Veltroni
è quindi il candidato “naturale”
perché è identificato dagli elettori come
il più coerente sostenitori da anni di quel progetto.
Che sia il candidato più adatto è
possibile, ma lo dovrebbero scegliere gli elettori,
non trova? E non le è sembrato francamente deprimente,
a questo proposito, il ritiro di Bersani?
Proprio perché Veltroni è il candidato
avvertito come “naturale” dagli elettori
e non da un patto di vertice, peraltro in un contesto
emergenziale in cui si tratta di ricostruire un rapporto
tra elettori e Pd e che spinge, capisco bene la difficoltà
di sfidanti autorevoli a entrare in gara per rischiare
di competere con risultati prevedibili e per niente
soddisfacenti.
La centralità del leader è una
forza, oppure?
Solo una leadership autorevole può produrre
innovazione politica reale. Per questo occorre una legittimazione
popolare che favorisca il sorgere di persone in grado
di rispondere a quel ruolo. È quindi vero il
contrario: il deficit democratico ci sarebbe se il leader
rispondesse a quelle funzioni senza avere una legittimazione
diretta.
Che tipo di partito sta nascendo?
Un partito a vocazione maggioritaria analogo a quelli
esistenti in Europa, nei quali il leader interno è
in prospettiva chiamato anche a guidare il governo,
e anche per questo in grado di strutturare la coalizione
di cui può far parte. Un partito federalista
che elegge al tempo stesso anche segretari regionali
e assemblee costituenti regionali, assicurando loro
così una effettiva autonomia.
Che cosa ci dobbiamo aspettare per il 14 ottobre?
Una significativa partecipazione popolare perché
mai nessun partito aveva osato tanto; nascere senza
barriere con nessuno dei propri elettori sia sul piano
nazionale sia su quello regionale.
Ma i partiti pesano ancora, eccome.
Ben poco e man mano che il processo si avvicinerà
a quella scadenza vedremo l’impatto effettivo
del rimescolamento delle identità e delle organizzazioni.
Chi è giunto alla politica di centrosinistra
dopo la scomparsa dei partiti storici non ha preso mai
troppo sul serio, in profondità, le “identità”
di Margherita e Ds e le regole spingono esattamente
nel senso del rimescolamento.
Lei è ottimista. Comunque almeno la
scelta sulle quote rosa fa ben sperare.
Direi che si tratta di una scelta coraggiosa, ma anche
dovuta. Se il Pd vuole dare segni di discontinuità
aprendo ai non professionisti della politica, la frontiera
dell’apertura alle donne è un dovere politico.
Peraltro lo sarebbe per tutti, visto che qualche anno
fa si è modificato l’articolo 51 della
Costituzione per dare copertura a leggi che introducano
queste novità. Mentre aspettiamo le leggi è
intanto doverosa l’autoriforma.
Come funzionerà concretamente la “divisione”
di genere?
Si è fatta una doppia scelta, non solo l’alternanza
di genere nella lista, ma anche l’equilibrio di
genere tra i capilista delle liste di collegio che si
collegano sul piano circoscrizionale (la Regione o comunque
più province). Se infatti, come è sperabile,
ci saranno varie liste di collegio con una media di
5 eletti per ciascuno di essi, è ragionevole
pensare che in molti casi sarà eletto solo il
capolista. L’alternanza di genere nella lista
potrebbe allora avere scarsi effetti se i capilista
fossero prevalentemente uomini. Dato però che
per il recupero dei resti sul piano circoscrizionale
le liste si possono collegare (ad esempio la lista “Ecologisti
per Veltroni” si presenta in tutta l’Emilia
Romagna e così si collega quella di Bologna 1
con quella di Bologna 2 e così via) è
stato inserito il vincolo del 50% dei capilista di sesso
diverso. A scegliere una soluzione così drastica,
al di là di formulazioni di compromesso come
il 40%, ha contribuito proprio l’argomento contrario
secondo il quale la norma sarebbe aggirabile perché
a quel punto una lista si presenterebbe solo nel collegio,
rinunciando a collegarsi. Se si può temere questa
elusione, che però i candidati segretari possono
bloccare non dando l’apparentamento a liste costruite
per tale scopo, allora vale proprio la pena di mettere
una soglia più alta perché se anche qualcuno
ci riuscisse i risultati complessivi sarebbero soddisfacenti.
Se cioè mettendo il 40% si potrebbe ottenere
in termini reali il 30%, allora tanto vale mettere il
50% per aspettarsi almeno il 40% reale.
Veniamo al referendum. È d’accordo
con i suoi obiettivi? Per
quale tipo di sistema elettorale dovrebbe battersi il
Partito democratico?
Senza il successo del referendum non ci sarebbe nessuna
riforma elettorale. Su questa materia non basterà
il risultato ma occorrerà una riforma parlamentare.
La proposta del sistema tedesco ha una parte di verità:
il sistema non deve tendere, come oggi, a blindare le
coalizioni; i partiti, e soprattutto quelli a vocazione
maggioritaria, non debbono essere eccessivamente limitati
dall’obbligo di alleanze. Tuttavia l’esito
è sbagliato: il sistema tedesco toglierebbe agli
elettori il diritto di decidere sul governo. Se si vogliono
coniugare i pregi dell’autonomia ma anche il diritto
dell’elettore di conoscere prima l’esito
del suo voto si può prendere uno qualsiasi dei
sistemi a doppio turno (nel turno decisivo ci si può
rivolgere direttamente agli elettori degli esclusi)
o il sistema spagnolo, che favorisce i partiti a vocazione
maggioritaria, imperniando su di essi le coalizioni.
Il sistema tedesco porterebbe invece a un eccesso di
potere (rispetto ai consensi) dei partiti con collocazione
centrista. Devono pesare di più gli elettori
di centro, che sono una maggioranza, non i partiti di
centro.
Ci dica cinque priorità per il Partito
democratico.
Mi fermo a due. Riforme elettorali e costituzionali
per completare la transizione con un bipolarismo migliore.
Riforme economico-sociali per valorizzare gli outsider
(donne, giovani, soggetti realmente deboli) rispetto
agli insider.
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