325 - 20.07.07


Cerca nel sito
Cerca WWW
Le pensioni tra Scilla e Cariddi

Ferdinando Targetti


Pubblicato sull' Unità del 23 giugno 2007.


La stabilità di un sistema pensionistico poggia su due principi: la stabilità finanziaria e l’equità intergenerazionale. Se non è soddisfatta la prima condizione, a motivo di un mutamento del trend di crescita dell’economia e/o delle condizioni demografiche, il sistema può essere equo, ma è destinato a collassare, perché chi è al lavoro deve pagare quote sempre più alte del proprio reddito per mantenere agli anziani pensioni tanto generose quanto quelle che quegli anziani avevano pagato quando erano giovani ai vecchi di allora.

Se non è soddisfatta la seconda condizione si può avere un sistema che finanziariamente regge, ma che collassa per la rivolta sociale che deriva dal fatto che via via che il tempo passa i nuovi pensionati si rendono conto che ottengono pensioni sempre minori rispetto a quelle ottenute dai pensionarti più vecchi alla cui pensione essi avevano contribuito con il reddito del proprio lavoro. Certo ci sono paesi, come il Cile, nel quale il passaggio da un sistema finanziariamente instabile a uno stabile (un sistema tutto privato e a capitalizzazione) è stato intrapreso in breve tempo facendo pagare il prezzo a quella generazione di mezzo che perdeva i benefici del vecchio sistema e non aveva ancora accumulato risparmi per il nuovo sistema, ma perché questa “riforma” potesse essere realizzata c’è voluta una repressione sanguinosa del dissenso e l’instaurazione di una dittatura feroce.

In Italia, prima della riforma Amato-Dini-Prodi-Maroni, il sistema era a ripartizione (con pensioni pagate in base all’ultimo stipendio), era generoso e aveva una certa equità intergenerazionale, ma la riduzione del tasso di crescita del reddito potenziale e l’invecchiamento della popolazione non consentivano che il sistema reggesse dal punto di vista finanziario e il rischio del collasso si avvicinava di anno in anno. E’ stata quindi intrapresa quella pluriennale riforma che è consistita nel passaggio al calcolo contributivo (pensione in base ai contributi versati), nell’estensione del calcolo anche al settore pubblico, nell’allungamento dell’età delle pensioni di anzianità. (Prescindiamo qui di trattare la questione del passaggio, equo, necessario anche se costoso, dallo “scalone Maroni” agli “scalini Damiano”).

Oggi ci troviamo però di fronte a un ulteriore allungamento delle attese di vita e a una conseguente necessità di rivedere i parametri in base ai quali il sistema, seppur riformato, sia finanziariamente sostenibile. Se compiamo questa necessaria operazione ci allontaniamo dalla Scilla dell’instabilità finanziaria, ma ci avviciniamo alla Cariddi dell’iniquità intergenerazionale, perché la revisione dei coefficienti della Dini significa che le pensioni di coloro che andranno in pensione dal 2015 in poi con pensioni interamente calcolate con il metodo contributivo, saranno assai più magre di quelle che oggi essi contribuiscono a pagare con il loro lavoro ai loro padri.

Questo è il dilemma che sta alla base delle considerazioni del bel libro di Giuliano Amato e Mauro Maré “Il gioco delle pensioni: rien ne va plus?” (Il Mulino, Bologna). Si può sperare che le cose migliorino da sole? No. Perché, affinché questo avvenga ci dovrebbe essere una tendenza del mercato del lavoro che veda un numero di forme di lavoro stabili e regolari crescente, quando invece si prospettano forme di lavoro più flessibili che comportano profili temporali di lavoratori con crescenti periodi di inattività. Un aiuto potrebbe venire dai flussi migratori di lavoratori, ma, pur a prescindere dagli squilibri sociali di un eccesso di immigrazione, non sembra una cosa così scontata che l’immigrazione si traduca in un regolare flusso di contribuzione previdenziale.

Per Amato e Maré la soluzione al dilemma tuttavia esiste. Essa va ricercata in una politica basata su tre cardini. Il primo è dato dallo sviluppo della previdenza complementare, che è l’altra gamba della riforma del sistema pensionistico ideata negli anni ’90. I fondi pensione presentano in Italia dei rendimenti alquanto elevati e possono quindi consistere in una buona integrazione della previdenza obbligatoria. Tuttavia la previdenza complementare in Italia, a differenza che in altri paesi più maturi, non è ancora decollata. Il secondo cardine consiste nell’innalzamento dell’età pensionabile: oggi mediamente le casse dell’Inps devono pagare ad un cinquantasettenne che va in pensione di anzianità una ventina d’anni di pensione, calcolata, per una larga quota con il metodo a ripartizione, cioè prescindendo da quanto il lavoratore ha versato lungo la sua vita contributiva. In futuro quando il sistema a contribuzione sarà a regime il problema perderà di rilevanza perché ciascuno sceglierà il mix “età di pensionamento-livello di pensione” che preferirà. Il terzo cardine è l’idea innovativa del libro che a me pare di grande rilevanza.

Se l’evoluzione del mercato del lavoro è quello che descrivevamo più sopra, se la quota dei lavoratori con redditi bassi, molto bassi, non è destinata a scendere, se crescerà la quota di lavoratori che non potranno convertire in previdenza complementare il Tfr, perché non ce lo avranno (lavoratori autonomi o irregolari), se tutte queste realtà spiacevoli, ma molto probabili, si verificheranno, le persone che non saranno in grado nella propria vita di mettere da parte un adeguato risparmio da consentire loro di accedere alla previdenza complementare sono destinate ad essere numerose. Nei confronti di queste persone rimarrebbe irrisolto il problema della equità intergenerazionale: quei futuri pensionati (oggi giovani) avrebbero pensioni insufficienti a consentire loro una dignitosa vecchiaia. Per queste categorie di persone, questa è l’idea di Amato e Maré, devono essere previste forme di solidarietà redistributiva sottoforma o di ammortizzatori sociali (contributi figurativi nei periodi di inattività lavorativa) o di integrazione pensionistica.

A mio parere, poiché il sistema contributivo non deve essere “sporcato” con l’introduzione di coefficienti finti (situazione che si avrebbe oggi se, come vogliono i sindacati, non si intervenisse sui coefficienti di trasformazione come previsto dalla legge Dini) questa operazione di redistribuzione dovrebbe essere posta finanziariamente a carico della collettività e cioè della fiscalità generale. A mio parere questo intreccio tra previdenza e fiscalità ha una sua ratio per il fatto che quella categoria di persone per le quali le prime due gambe (pubblica a ripartizione e privata complementare) non sono sufficienti a creare una pensione dignitosa si trova in quella condizione per le caratteristiche di flessibilità del mercato del lavoro, che sono richieste per dare maggiore dinamismo all’economia generale del paese.


Giuliano Amato e Mauro Maré
Il gioco delle pensioni: rien ne va plus?
Il Mulino, Bologna, 2007, euro 9,50


 

 

 

 

Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti da fare? Scriveteci il vostro punto di vista a
redazione@caffeeuropa.it