Pubblicato
sull' Unità
del 23 giugno 2007.
La stabilità di un sistema pensionistico poggia
su due principi: la stabilità finanziaria e l’equità
intergenerazionale. Se non è soddisfatta la prima
condizione, a motivo di un mutamento del trend di crescita
dell’economia e/o delle condizioni demografiche,
il sistema può essere equo, ma è destinato
a collassare, perché chi è al lavoro deve
pagare quote sempre più alte del proprio reddito
per mantenere agli anziani pensioni tanto generose quanto
quelle che quegli anziani avevano pagato quando erano
giovani ai vecchi di allora.
Se non è soddisfatta la seconda condizione si
può avere un sistema che finanziariamente regge,
ma che collassa per la rivolta sociale che deriva dal
fatto che via via che il tempo passa i nuovi pensionati
si rendono conto che ottengono pensioni sempre minori
rispetto a quelle ottenute dai pensionarti più
vecchi alla cui pensione essi avevano contribuito con
il reddito del proprio lavoro. Certo ci sono paesi,
come il Cile, nel quale il passaggio da un sistema finanziariamente
instabile a uno stabile (un sistema tutto privato e
a capitalizzazione) è stato intrapreso in breve
tempo facendo pagare il prezzo a quella generazione
di mezzo che perdeva i benefici del vecchio sistema
e non aveva ancora accumulato risparmi per il nuovo
sistema, ma perché questa “riforma”
potesse essere realizzata c’è voluta una
repressione sanguinosa del dissenso e l’instaurazione
di una dittatura feroce.
In Italia, prima della riforma Amato-Dini-Prodi-Maroni,
il sistema era a ripartizione (con pensioni pagate in
base all’ultimo stipendio), era generoso e aveva
una certa equità intergenerazionale, ma la riduzione
del tasso di crescita del reddito potenziale e l’invecchiamento
della popolazione non consentivano che il sistema reggesse
dal punto di vista finanziario e il rischio del collasso
si avvicinava di anno in anno. E’ stata quindi
intrapresa quella pluriennale riforma che è consistita
nel passaggio al calcolo contributivo (pensione in base
ai contributi versati), nell’estensione del calcolo
anche al settore pubblico, nell’allungamento dell’età
delle pensioni di anzianità. (Prescindiamo qui
di trattare la questione del passaggio, equo, necessario
anche se costoso, dallo “scalone Maroni”
agli “scalini Damiano”).
Oggi ci troviamo però di fronte a un ulteriore
allungamento delle attese di vita e a una conseguente
necessità di rivedere i parametri in base ai
quali il sistema, seppur riformato, sia finanziariamente
sostenibile. Se compiamo questa necessaria operazione
ci allontaniamo dalla Scilla dell’instabilità
finanziaria, ma ci avviciniamo alla Cariddi dell’iniquità
intergenerazionale, perché la revisione dei coefficienti
della Dini significa che le pensioni di coloro che andranno
in pensione dal 2015 in poi con pensioni interamente
calcolate con il metodo contributivo, saranno assai
più magre di quelle che oggi essi contribuiscono
a pagare con il loro lavoro ai loro padri.
Questo è il dilemma che sta alla base delle
considerazioni del bel libro di Giuliano Amato e Mauro
Maré “Il gioco delle pensioni: rien
ne va plus?” (Il Mulino, Bologna). Si può
sperare che le cose migliorino da sole? No. Perché,
affinché questo avvenga ci dovrebbe essere una
tendenza del mercato del lavoro che veda un numero di
forme di lavoro stabili e regolari crescente, quando
invece si prospettano forme di lavoro più flessibili
che comportano profili temporali di lavoratori con crescenti
periodi di inattività. Un aiuto potrebbe venire
dai flussi migratori di lavoratori, ma, pur a prescindere
dagli squilibri sociali di un eccesso di immigrazione,
non sembra una cosa così scontata che l’immigrazione
si traduca in un regolare flusso di contribuzione previdenziale.
Per Amato e Maré la soluzione al dilemma tuttavia
esiste. Essa va ricercata in una politica basata su
tre cardini. Il primo è dato dallo sviluppo della
previdenza complementare, che è l’altra
gamba della riforma del sistema pensionistico ideata
negli anni ’90. I fondi pensione presentano in
Italia dei rendimenti alquanto elevati e possono quindi
consistere in una buona integrazione della previdenza
obbligatoria. Tuttavia la previdenza complementare in
Italia, a differenza che in altri paesi più maturi,
non è ancora decollata. Il secondo cardine consiste
nell’innalzamento dell’età pensionabile:
oggi mediamente le casse dell’Inps devono pagare
ad un cinquantasettenne che va in pensione di anzianità
una ventina d’anni di pensione, calcolata, per
una larga quota con il metodo a ripartizione, cioè
prescindendo da quanto il lavoratore ha versato lungo
la sua vita contributiva. In futuro quando il sistema
a contribuzione sarà a regime il problema perderà
di rilevanza perché ciascuno sceglierà
il mix “età di pensionamento-livello di
pensione” che preferirà. Il terzo cardine
è l’idea innovativa del libro che a me
pare di grande rilevanza.
Se l’evoluzione del mercato del lavoro è
quello che descrivevamo più sopra, se la quota
dei lavoratori con redditi bassi, molto bassi, non è
destinata a scendere, se crescerà la quota di
lavoratori che non potranno convertire in previdenza
complementare il Tfr, perché non ce lo avranno
(lavoratori autonomi o irregolari), se tutte queste
realtà spiacevoli, ma molto probabili, si verificheranno,
le persone che non saranno in grado nella propria vita
di mettere da parte un adeguato risparmio da consentire
loro di accedere alla previdenza complementare sono
destinate ad essere numerose. Nei confronti di queste
persone rimarrebbe irrisolto il problema della equità
intergenerazionale: quei futuri pensionati (oggi giovani)
avrebbero pensioni insufficienti a consentire loro una
dignitosa vecchiaia. Per queste categorie di persone,
questa è l’idea di Amato e Maré,
devono essere previste forme di solidarietà redistributiva
sottoforma o di ammortizzatori sociali (contributi figurativi
nei periodi di inattività lavorativa) o di integrazione
pensionistica.
A mio parere, poiché il sistema contributivo
non deve essere “sporcato” con l’introduzione
di coefficienti finti (situazione che si avrebbe oggi
se, come vogliono i sindacati, non si intervenisse sui
coefficienti di trasformazione come previsto dalla legge
Dini) questa operazione di redistribuzione dovrebbe
essere posta finanziariamente a carico della collettività
e cioè della fiscalità generale. A mio
parere questo intreccio tra previdenza e fiscalità
ha una sua ratio per il fatto che quella categoria di
persone per le quali le prime due gambe (pubblica a
ripartizione e privata complementare) non sono sufficienti
a creare una pensione dignitosa si trova in quella condizione
per le caratteristiche di flessibilità del mercato
del lavoro, che sono richieste per dare maggiore dinamismo
all’economia generale del paese.
Giuliano Amato e Mauro Maré
Il gioco delle pensioni: rien ne va plus?
Il Mulino, Bologna, 2007, euro 9,50
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