“Dobbiamo
finalmente porre all'ordine del giorno queste questioni:
come si può condurre una vita sensata anche se
non si trova un lavoro? Come saranno possibili la democrazia
e la libertà al di là della piena occupazione?
Come potranno le persone diventare cittadini consapevoli,
senza un lavoro retribuito? Abbiamo bisogno di un reddito
di cittadinanza pari a circa 700 euro. Non è
una provocazione, ma un’esigenza politica realistica”.
Questa invocazione netta è apparsa qualche settimana
fa sulle pagine di un grande quotidiano italiano. A
pronunciarla non è un economista, ma un sociologo
tra più attenti ai cambiamenti sociali degli
ultimi anni, e soprattutto alle conseguenze, spesso
drammatiche, della globalizzazione sulle vite individuali,
Ulrich Beck.
Beck non si limita alla consueta e fine analisi-diagnosi
delle trasformazioni sociali legate alla globalizzazione,
ma propone stavolta una “terapia” per i
mali che essa comporta: il reddito minimo universale.
Parola dal suono straniero, in Italia, visto che del
tema si occupano poche anime belle, addette ai lavori.
È con la speranza di reintrodurre questo soggetto
nel dibattito pubblico, quindi, che la casa editrice
Bocconi ha pubblicato il volume di Philippe Van Parijs
(filosofo ed economista, fondatore del Basic Income
Earth Network) e Yannick Vanderbrock, Il reddito minimo
(160 pp, 14 euro): volume animato dalla stessa convinzione
di Beck, e cioè quella secondo cui “la
politica statale in tempi di globalizzazione possa essere
fatta uscire dalla difensiva e rianimata a partire dalla
questione della giustizia, che è diventata il
nucleo della questione politica”.
Il volume spiega con chiarezza e scientificità
in che cosa consiste il basic income (“un
reddito versato da una comunità politica a tutti
i suoi membri, su base individuale, senza controllo
delle risorse né esigenza delle contropartite”),
come si differenzia dagli altri tipi di sussidi e trasferimenti,
perché si tratta di una misura economicamente
sostenibile, per arrivare infine a mostrare i significativi
vantaggi che la sua introduzione comporterebbe alle
categorie più fragili delle società globalizzate:
i poveri, le donne, i lavoratori precari.
I due autori insistono molto su due temi sensibili:
il primo è quello della sostenibilità
economica del reddito minimo. Nel libro viene argomentata
in maniera accurata la falsità di chi sostiene
che si tratti di una “chimera sociale” che
arricchisce chi già ha, mostrando come il sistema
si possa finanziare sia con una riduzione di alcuni
dei sussidi condizionali esistenti, specie quelli corporativi,
sia con un aggravio fiscale dei ceti più abbienti.
Il secondo tema è quello della centralità
delle difficoltà culturali relative all’idea
del basic income: difficoltà che, secondo
gli autori, vengono prima ancora di quelle politico-fattuali.
Di qui l’auspicio di un dibattito pubblico sempre
più ampio, che coinvolga il maggior numero di
attori sociali, portando all’introduzione prima
di misure “di avvicinamento” al reddito
universale (come il reddito minimo garantito), poi al
basic income vero e proprio, il cui importo
può essere inizialmente anche basso (ma l’importante,
spiegano i due studiosi, è che esso sia davvero
universale).
Innumerevoli sono le trasformazioni “concettuali”
e pratiche che l’introduzione di questa misura
comporterebbe: la fine di una mentalità moralistico-volontarista,
che lega il reddito unicamente al lavoro, negando dignità
a tutta quella fascia di popolazione che non lavora;
la possibilità per tutti coloro che hanno un
lavoro malpagato, incerto, umiliante di uscire dalla
condizione di marginalità ed essere liberi di
scegliere un lavoro migliore o accedere alla formazione;
l’emancipazione, più in generale, dal giogo
della necessità, che, come volumi e volumi di
filosofia e psicologia hanno sottolineato, costringe
l’individuo a fare scelte inautentiche e dannose;
l’estinzione della ideologia “familista”,
tanto in voga in questi giorni, che non considera l’individuo
in sé, ma solo come parte di un gruppo, vincolando
i sostegni al reddito familiare; infine l’affermazione
di un universalismo etico-politico che non fa distinzioni
di sesso, valori, categoria.
Van Parijs e Yannick Vanderborght ricordano nel volume
come la riflessione teorica sul basic income
non possa prescindere poi da un’analisi circa
la sua applicabilità nei diversi contesti nazionali.
Non a caso il volume è introdotto da un saggio
di Chiara Saraceno, che in maniera esemplare, fa un’analisi
impietosa del nostro welfare. Come si fa, si
chiede la sociologa torinese, a parlare di reddito universale
in un paese in cui non sono mai stati percepiti meritevoli
di allocazione universale neanche i bambini, neanche
coloro che si trovano in povertà? L’Italia
è praticamente l’unico paese in Europa
a non avere un reddito minimo e nonostante ben tre commissioni
governative (tra cui l’ultima, la nota Commissione
Onofri del ’97) si siano occupate del problema,
nulla di nulla è stato fatto. A ostacolare il
dibattito, secondo la Saraceno, non sono solo le difficoltà
di bilancio, ma soprattutto limiti di tipo culturale:
in primo luogo, la convinzione che le allocazioni di
tipo universale siano non eque e de-responsabilizzanti;
in secondo, il privilegiamento dei beni e servizi sui
trasferimenti monetari, che nasconde l’idea che
tutti gli altri bisogni e consumi (invero innumerevoli!)
debbano essere soddisfatti da un reddito da lavoro.
“Non lavorare senza essere ricchi è un
destino di dipendenza economica (pensiamo alle donne)
o è un lusso da pagare con la povertà.
Il reddito va meritato”. Al tempo stesso, non
si hanno né una allocazione universale né
tuttavia allocazioni di tipo condizionale, ma, com’è
noto, solo “miriade di allocazioni variamente
condizionali di tipo categoriale”, da cui i non
membri sono ovviamente esclusi.
Questo welfare bislacco poteva forse funzionare
in una società fatta di lavoro dipendente e famiglie
tradizionali, ma diventa sempre più insostenibile
nel momento in cui il lavoro si precarizza e le famiglie
si rompono con sempre maggiore frequenza. In questo
caso saltano agli occhi le contraddizioni del nostro
workfare, il welfare basato sul lavoro,
dal momento che il lavoro non garantisce più
un reddito adeguato ed “emerge un merito che non
ha adeguato riconoscimento sul piano del reddito”.
Gli entusiasti della legge Biagi non possono non ammettere,
incalza la Saraceno, che la legge è stata applicata
monca, e che sarebbe indispensabile come minimo la riforma
degli ammortizzatori sociali. Riforma che, unita ad
una allocazione universale per i minori e un reddito
di base per i poveri, “sarebbe un passo, anche
se non verso il reddito universale, almeno verso il
reddito di partecipazione”.
La ragione forte a favore del basic income
sta soprattutto qui, cioè nella sua capacità
di riequilibrare i rapporti di potere asimmetrici e
nel suo riconoscimento del diritto di ogni individuo
ad avere una dotazione di base che consenta lo sviluppo
delle capacità e sciolga i lacci della dipendenza
e del destino: infatti, “non vi è piena
cittadinanza se la famiglia in cui si nasce definisce
il perimetro delle scelte possibili, se occorre accettare
un lavoro purchessia, anche se degradante e malpagato,
se non si può uscire da un matrimonio non più
sostenibile, se si dipende dal giudizio o dalla disponibilità
di altri nel soddisfacimento delle proprie necessità”.
Philippe Van Parijs, Yannick Vandeborght
Reddito minimo universale
Università Bocconi Editore, 2006
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