La mattina
dopo le elezioni la Gare de Lyon, la Piazza della Bastiglia
e, un po' meno, Piazza della Repubblica sembrano un
campo di battaglia ripulito. Ripulito ma non ancora
del tutto. Sono le nove del mattino. Rientro da Lione
dove pure i casseurs – quelli che spaccano
e bruciano, per rabbia e per ignoranza – si sono
fatti sentire. Nel tratto di poche centinaia di metri
che separa la stazione dei treni dalla Piazza della
Bastiglia – lungo rue de Lyon, appunto –
conto una farmacia sventrata, un negozio di computer
con i vetri fracassati, idem per l’Holiday Inn,
dove un dipendente sta appiccicando un vetro con scotch
da pacchi bianco, i doppi vetri di una filiale della
Société Générale pure in
frantumi – un ragazzo fa bancomat e intanto scatta
una foto con il cellulare. Poi ci sono le macchine ribaltate,
qualcuna bruciata, scooter e motori a ruote all’aria.
Mi fermo a parlare con un poliziotto che con tre colleghi
fa scorrere il traffico attorno a due Smart distrutte:
mi dice che non sa quante macchine sono state bruciate,
“non ho il diritto di dirglielo”. Ma visto
che insisto mi liquida con un “tante, tante”.
Poi la prefettura mi confermerà che, solo nei
20 arrondissements di Parigi, ci sono state 35 auto
distrutte, oltre a 33 agenti feriti e 79 fermi.
Non riesco a evitare un parallelo con la notte elettorale
che si è chiusa qualche ora fa. Il 16 maggio
– data di passaggio dei poteri fra Jacques Chirac
e il neo eletto Nicolas Sarkozy – salirà
all’Eliseo un politico di cui, sui muri dell’Opéra
Bastille (pure quella con le vetrate rotte) si legge
“Sarko: senza di te tutto diventa possibile”.
E poi, come uno slogan, come un timbro scarabocchiato
qua e là, “anti-sarko”. Sarkozy ieri
sera assomigliava tanto a Parigi, che in poche ore deve
far finta che non sia successo niente, rimettersi in
ordine e cominciare la giornata. Ha fatto un esercizio
di “restyling” ineccepibile. Il primo discorso
dopo aver saputo i risultati del voto, il campione della
destra l’ha rivolto a una folla esultante di suoi
sostenitori. Si erano riuniti nella Salle Gaveau, ad
Ovest di Parigi, poco lontano dagli Champs Elysée.
Forse per la prima volta dall’inizio della campagna
elettorale, in maniera a dir poco tardiva, la politica
internazionale e l’Europa sono state al cuore
del suo discorso. E di questo, al limite, ci si può
rallegrare.
Ma quel che fa specie è l’operazione di
“ripulitura” del suo linguaggio. Dal karcher
con cui va aspirata la feccia, la racaille,
l’uomo dell’immigrazione scelta e non subita
è diventato il paladino dell’unione dei
popoli. La Francia, ha detto, tornerà ad essere
il Paese sul quale tutti gli oppressi del mondo potranno
tornare a contare. Poi qualche accenno, più coerente,
con la tipologia retorica che aveva scelto in campagna.
Ma con toni smussati: “Nella Repubblica che intendo
servire non ci sarà spazio per i diritti che
non siano controbilanciati dai doveri”. E gli
accenni all’orgoglio che la Francia deve ritrovare,
senza complessi. La sua parola d’ordine è
rimasta la stessa lungo il corso di tutta la serata
di festeggiamenti: “Amo la Francia. È il
momento di restituirle tutto quello che mi ha dato”.
E sentirlo ripetere la stessa frase più volte,
quasi identica, di fronte ai diversi pubblici, prima
alla sede del partito, poi in piazza della Concordia,
faceva un po’ sorridere.
Ma è evidente che se lo può permettere.
Il 53,06% ottenuto significa che, sui circa 44,5 milioni
di aventi diritto, sono stati più di 20 milioni
di persone a votarlo. L’abilità e il pragmatismo
con cui ha “scippato” a Jean-Marie Le Pen
parte del suo tradizionale elettorato (la destra estrema
e nazionalista) è un dato incontestabile. Quello
stesso Le Pen che lo ha già battezzato: “ora
Sarkozy è solo di fronte alle promesse che ha
fatto e sono certo che non le manterrà”.
Le riflessioni sulle prospettive che ora si affacciano
si sprecano: il restyling non solo era prevedibile ma
necessario. Le legislative di giugno sono vicinissime,
i 7 milioni di elettori che al primo turno avevano sperato
nel “nuovo centro” di François Bayrou
sono lì che aspettano. Senza contare i 17 milioni
che hanno dato il loro voto alla sfidante.
Ma punto più alto della serata dei festeggiamenti
per il nuovo Presidente della V Repubblica è
innegabilmente uno. Il concerto in Place de la Concorde.
È lì che le viscere tutte mediatiche di
questa campagna si sono lasciate vedere. La Marsigliese,
l’inno nazionale francese, intonato dal palco
e dal pubblico e guidato da una lanciatissima Mireille
Mathieu era prevedibile. Un po’ più arditi,
ma doverosi nell’ottica di un ritrovato politicamente
corretto, sono stati i canti di omaggio alla terra d’origine,
l’Algeria, intonati da Faudel e Enrico Macias.
Ma assolutamente al di là di ogni immaginazione
è stato il gospel, improvvisato sull’onda
dell’entusiasmo. Con una “Oh, happy day”
declinata in versione "che giorno di gioia, il
giorno che Nicolas è nato"...Cosa sarebbe
successo, da noi, se il “Jesus” del testo
originale fosse stato sostituito, mettiamo, da “Silvio”...
Chiudiamo il cerchio tornando al parallelo fra l’Ovest
di Parigi che festeggia e l’Est che spacca (senza
dimenticare, è doveroso, che erano poche centinaia
di teppisti). La stessa disarmante abilità di
mutare l’ha dimostrata Ségolène
di fronte alle telecamere, spettatori, sostenitori.
È stata lei la prima a parlare ai suoi militanti.
Non erano nemmeno le otto e dieci minuti. Nella Maison
de l’Amérique Latine, lungo Boulevard Saint-Germain,
si è presentata con le stesse, materne braccia
allargate su cui ha forgiato la sua immagine. Lo stesso
immutato sorriso. Per dire: abbiamo perso, grazie del
sostegno, continueremo la lotta nata da questo meraviglioso
movimento popolare, e state certi che la leader del
rinnovamento della sinistra socialista sarò io.
Una reazione che, al pari delle scene di guerriglia
in una serata di festa, fa sorgere qualche dubbio. Soprattutto
se si pensa che bisogna tornare indietro nel tempo fino
al 1965 per trovare un risultato tanto deludente per
un candidato socialista arrivato al ballottaggio. Allora
si trattava di François Mitterrand, sconfitto
dal generale De Gaulle, senza nemmeno raggiungere il
45% dei suffragi. Erano altri tempi. Da oggi, anche
se il risultato fosse stato diverso, sarebbe comunque
iniziata una Francia nuova, quella dei cinquantenni
al potere. Ma ci si continua a chiedere: esattamente,
che Francia sarà?
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