Il processo
di riforma costituzionale in Egitto è incominciato
un paio di anni fa ed alcuni osservatori hanno (malignamente)
suggerito che la situazione si è messa in movimento
a causa delle pressioni americane, in un Medio Oriente
sempre più destabilizzato a causa del disastro
iracheno. Non v’è dubbio che l’ipotesi
ha una parte di verità. Ma il processo sarebbe
probabilmente iniziato lo stesso e per due motivi convergenti:
le inquietudini che agitano la società civile
egiziana e a cui il governo non può non rispondere,
sia pure attraverso riforme cosmetiche; la necessità
di preparare la successione a Mubarak del figlio Gamal,
rafforzando nel contempo il potere del Partito nazionale
democratico.
Da una parte, la società egiziana è percorsa
da fremiti di ribellione e la nascita di diversi partiti
o raggruppamenti di opposizione più determinati
e attivi, quali Wasat (La via mediana), un partito di
ispirazione islamista moderata, e il famoso cartello
di Kefaya (Basta!), sembrano indicare che si stanno
tentando nuove aggregazioni e nuovi percorsi. D’altra
parte, alle elezioni del 2005 il Partito nazionale democratico
ha subito una parziale, ma nondimeno netta battuta d’arresto
e ben 110 deputati dell’opposizione (su 444) sono
stati eletti, tra cui 88 fratelli musulmani come indipendenti.
Il Partito nazionale democratico controlla di fatto
tutti i gangli vitali del potere, ma, per così
dire, un reale multipartitismo potrebbe metterne in
pericolo l’egemonia in un futuro neppure troppo
lontano.
Il fatto è che, oggi, il partito di governo
può ancora dormire sonni tranquilli, in quanto
l’opposizione non costituisce una vera alternativa.
I partiti sono molti, ma o hanno scarso radicamento
sociale (la maggioranza) oppure, come il partito nasseriano
o il Neo-Wafd, sono lacerati da lotte intestine. Più
solido sembra apparentemente il Tagammu’, partito
di sinistra tendenzialmente marxista, ma il consenso
a questa formazione è sempre stato minimo e limitato
soprattutto alle fasce intellettuali. Quanto a Kefaya,
in Occidente se ne ha una immagine idealizzata e parzialmente
falsa. Si tratta di una organizzazione assai composita,
di cui fanno parte liberali, nasseriani e perfino fratelli
musulmani. Allo stato attuale delle cose non sembra
rappresentare una seria alternativa; nel futuro si vedrà.
L’unica organizzazione che può rappresentare
un’alternativa reale sono i Fratelli Musulmani,
il cui radicamento sociale è ampio, ma in Egitto
sono proibiti i partiti che facciano esplicitamente
richiamo alla religione.
Gli emendamenti costituzionali approvati dal parlamento
e recentemente sottoposti a referendum (che si sia trattato
di un referendum farsa non vuol dir nulla: neppure alle
elezioni regolari gli egiziani si recano alle urne in
numero significativo) ribadiscono e rafforzano l’esclusione
dall’arena politica dei partiti religiosi. Ma
questo, appunto, non costituisce una novità.
Neppure sono una novità gli emendamenti che consolidano
il potere presidenziale. La costituzione egiziana risale
al 1971, quando era presidente Sadat: già nel
suo patrimonio genetico è autoritaria e presidenzialista,
con il governo responsabile di fronte al capo dello
stato e non al parlamento, con il capo dello stato che
ha ampi poteri nel nominare e sciogliere i governi e
perfino nel campo legislativo dove ha diritto di veto
sulle leggi.
Le novità maggiori e più contestate riguardano
infatti gli emendamenti agli articoli 88 e 179. Il primo
disciplina le procedure elettorali. Negli ultimi tempi,
per combattere contro i brogli e la corruzione, le elezioni
erano state supervisionate dalla magistratura. Il nuovo
articolo 88 incarica della supervisione non più
la magistratura, ma un alto comitato appositamente nominato
dal governo. Sempre di supervisionare si tratta, ma
è ovvio che un organismo nominato dal governo
non dà le necessarie garanzie che non possano
ripetersi brogli (questa volta legalizzati) a favore
del Partito nazionale democratico. Di qui la protesta
della magistratura.
L’articolo 179 emendato dà ampio mandato
alle forze di sicurezza di perseguire, eventualmente
ignorando i diritti costituzionali dei cittadini alla
libertà o all’habeas corpus, tutti coloro
che venissero accusati di “terrorismo”.
Non precisandosi quali sono gli atti da definire terroristici
e consentendo, in pratica, l’istituzione di tribunali
speciali, l’emendamento appare come una grave
violazione della democrazia. Naturalmente, il primo
obbiettivo sono i partiti e le organizzazioni religiose,
soprattutto i Fratelli Musulmani, da anni duramente
perseguitati e la cui persecuzione potrebbe –
legalmente – inasprirsi. L’accusa più
seria nei confronti del nuovo articolo 179 è
quella di voler istituzionalizzare lo stato di emergenza
che vige in Egitto da ventisei anni, da quando Sadat
venne ucciso nel 1981, e che non è mai stato
tolto. Lo stato di emergenza con le misure speciali
e poliziesche atte a combattere il “terrorismo”
verrebbe dunque recepito nella costituzione.
È chiaro che gli emendamenti vanno nella direzione
di consolidare il potere del Partito nazionale democratico
e del probabilissimo futuro presidente (forse giù
prima della scadenza naturale del mandato di Hosni Mubarak,
che ha 78 anni, nel 2012), Gamal Mubarak. Che gli emendamenti
cambino nella sostanza la situazione attuale, non è
vero: semmai la consolidano, ma non la cambiano, visto
che il sistema politico egiziano non è neppure
adesso “democratico” nel senso occidentale
del termine. D’altro canto, si ripete, allo stato
attuale delle cose non vi sono vere alternative, a parte
i Fratelli Musulmani; ma i Fratelli Musulmani entrano
ed escono dalle galere.
Quanto questa esclusione totale, che Mubarak sta praticando
fin dagli inizi degli anni Novanta, quando la minaccia
terrorista si fece molto acuta (ma i Fratelli Musulmani
non erano e non sono terroristi), sarà produttiva
nella prospettiva del futuro, resta da vedere. Personalmente
temo che avrà effetti contrari. D’altro
canto, i lati positivi restano la libertà di
stampa (non totale ma significativa), l’indipendenza
della magistratura, che dimostra segni di insofferenza
nei confronti del controllo dall’alto, e la vivacità
della società civile, che si sta sempre più
aprendo. Molto dipenderà, come sempre, dalla
stabilità e dalla prosperità economica:
se le ingiustizie sociali si approfondiranno, neppure
un regime di stato d’assedio potrà tacitare
all’infinito l’insoddisfazione delle masse.
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