Questo
articolo è apparso su il
Riformista, del 18 aprile 2007.
Che fare? è il titolo della lettera, un
testo che ha un carattere sia di bilancio che di programma,
a firma Giovanni Masci (ma Antonio Gramsci) pubblicata
sul periodico “La Voce della gioventù”
nel novembre 1923. Gramsci dopo circa due anni di permanenza
a Mosca sta per rientrare in Italia. La sua tappa intermedia
è Vienna, dove arriva ai primi di dicembre del
1923, lavorando per la costruzione di un nuovo gruppo
dirigente del Pcd’I. Sono i cinque mesi di Vienna
tra dicembre 1923 e aprile 1924 (quando Gramsci viene
eletto deputato e rientrerà definitivamente in
Italia) che costituiscono quel laboratorio politico
e culturale che avrà nelle Tesi del III congresso
del Pcd’I (Lione, gennaio 1926) il suo momento
topico. In quei mesi attraverso un fitto scambio di
lettere (raccolto, ricostruito e curato editorialmente
da Palmiro Togliatti in un volume – La formazione
del gruppo dirigente del Pci, 1923-1924, Editori
riuniti 1962, il primo organico contributo a una storia
documentaria e critica del Pci) – inizia a definirsi
un progetto politico.
La particolarità di questo progetto, non è
nella questione dell’organizzazione, bensì
nella convinzione che la crisi del partito nasca da
un deficit culturale. La premessa è dunque per
Gramsci che occorre “fare una spietata autocritica
della nostra debolezza” domandandosi “perché
abbiamo perduto, chi eravamo, che cosa volevamo, dove
volevamo arrivare.” Dunque all’ordine del
giorno sta una questione di assenza o di carenza di
principi, di ideologia.
Ma questa premessa ha senso solo in relazione a un grumo
di questioni non teoriche, ma storiche che riguardano
la fisionomia della realtà della società
all’interno della quale si intende agire. E perciò
Gramsci si chiede:
“Perché i partiti rivoluzionari sono sempre
stati deboli dal punto di vista rivoluzionario? Perché
hanno fallito quando dovevano passare all’azione?
Essi non conoscevano la situazione in cui dovevano operare,
essi non conoscevano il terreno in cui avrebbero dovuto
dare battaglia. Pensate: in più di trenta anni
di vita, il Partito Socialista non ha prodotto un libro
che studiasse la struttura economico-sociale dell’Italia.
Non esiste un libro che studi i partiti politici italiani,
i loro legami di classe, il loro significato.
Perché nella valle del Po il riformismo era radicato
così profondamente? Perché il partito
popolare, cattolico, ha più fortuna nell’Italia
settentrionale e centrale che nell’Italia del
sud? Perché in Sicilia i grandi proprietari terrieri
sono autonomisti e non i contadini, mentre in Sardegna
sono autonomisti i contadini e non i grandi proprietari?
Perché nell’Italia del sud c’è
stata una lotta armata tra fascisti e nazionalisti che
non c’è stata altrove?
Noi non conosciamo l’Italia. Peggio ancora: noi
manchiamo degli strumenti adatti per conoscere l’Italia,
così com’è realmente e quindi siamo
nella quasi impossibilità di fare previsioni,
di orientarci, di stabilire delle linee d’azione
che abbiano una certa probabilità di essere esatte.
Non esiste una storia della classe operaia italiana.
Non esiste una storia della classe contadina. Che importanza
hanno avuto i fatti di Milano del ’98? Che insegnamento
hanno dato? Che importanza ha avuto lo sciopero di Milano
del 1904? Che significato ha avuto in Italia il sindacalismo?
Perché ha avuto fortuna tra gli operai agricoli
e non fra gli operai industriali? Che valore ha il partito
repubblicano? Perché dove ci sono anarchici ci
sono anche i repubblicani? Che importanza e che significato
ha avuto il fenomeno del passaggio di elementi sindacalisti
al nazionalismo prima della guerra libica e il ripetersi
del fenomeno su scala maggiore per il fascismo?”
L’effetto di queste domande saranno il saggio
sulla questione meridionale, la stesura delle Tesi di
Lione e i Quaderni del carcere, un corpo di note di
lavoro che è soprattutto uno straordinario deposito
di intuizioni, di costruzione di categorie, di temi
e questioni che consentono una lettura nuova della società
e una possibile cultura rinnovata della sinistra italiana.
Ne scelgo tre: la categoria del nazional-popolare; le
osservazioni sul fordismo; la lettura del Risorgimento
come fenomeno complessivo attraverso il quale studiare
il processo di “nazionalizzazione delle masse”
che significa intellettuali, analisi dei ruoli e dei
corpi intermedi; ruolo della letteratura d’appendice
come fonte di linguaggi, immaginario, costumi delle
classi subalterne.
Uno strumentario potente culturalmente e intellettualmente,
e che aveva come preoccupazione lo studio della società,
l’analisi dei meccanismi sociali, dei paradigmi
culturali. In breve delle relazioni tra gruppi umani
in un contesto geografico, culturale, ma anche delle
loro trasformazioni dentro e durante quel processo storico.
E’ ciò che fa di un progetto politico non
un travaso ideologico, rendendo un partito prigioniero
di un linguaggio, ma lo strumento versatile capace di
proporre domande intorno al funzionamento di una società
nel tempo lungo, sulle sue regolarità e sulle
sue contraddizioni.
L’effetto è l’accreditamento della
politica come criterio e strumento perché conosce
gli attori che si muovono sul terreno, ne ha studiato
i problemi, ha riflettuto sulle angosce che ne motivano
la mobilitazione, e perciò individua il possibile
profilo di una soluzione.
L’esatto contrario dell’ideologia, sia
nella versione di lisciare il pelo alle inquietudini
della piazza, sia di fornire un kit di icone e di parole
capaci di consolare nel momento della sconfitta, sia
di coccolare i malesseri di chi legge i problemi del
mondo (negli anni ’20 la crisi, oggi la globalizzazione)
come improvvisa invasione del proprio spazio e disturbo
alla propria quiete e perciò sogna una asfissiante
e opprimente “società naturale”.
In breve la politica non come risorsa identitaria (come
materialismo meccanicistico), ma come strumento di governo
dei problemi.
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