Quello
che segue è il testo dell’intervento tenuto
dall’autore al congresso nazionale dei Democratici
di Sinistra a Firenze 21 aprile 2007.
Credo che il nostro presente ci consegni una sfida culturale
e politica cui non possiamo, né dobbiamo sottrarci.
Questa si volge a come rispondere al nuovo entusiasmo
religioso, alle identità forti di appartenenza,
contro le identità ibride, plurime, molteplici
che rappresentano la quotidianità profonda di
ciascuno di noi. Di questo vorrei dire in questo mio
intervento, secondo le parole del mio mestiere, quello
dello storico sociale delle idee.
Qualcuno ha detto che questo non è un congresso
di addio, di chiusura, ma è una tappa all’interno
di un processo. In questo processo si trovano coinvolti
individui che hanno storie ed esperienze diverse tutti
accomunati da un aspetto: quello di sapere che la propria
identità e la propria storia non esauriscono
il profilo complessivo di quel soggetto politico cui
stiamo lavorando. In breve la consapevolezza di essere
contemporaneamente “a casa” e “fuori
casa”; di essere in diaspora e non in esilio.
E’ una distinzione importante e su cui torneò
in conclusione di questo mio intervento.
Noi viviamo il passaggio alla società multietnica.
La multietnicità non è una condizione
naturale. Non riguarda il chi compone una società,
bensì il come si rapportano tra di loro gli individui
che ne fanno parte.
La società multietnica non è facile. Ci
chiederà di combattere. Prima di tutto con noi
stessi, con la storia politica e sociale, con i simboli,
con le parole, che ci portiamo dentro.
All’inizio della nostra storia sta l’idea
di comunità e la convinzione che il domani, la
società del futuro, sia una estensione infinita
della comunità di cui noi facciamo parte. I grandi
partiti di massa del Novecento sono stati questo: uno
straordinario incontro di persone convinte che il futuro
non solo li riguardava in prima persona ma quel futuro
non sarebbe stato altro che l’estensione numerica
di una comunità di cui già facevano parte.
Questo modello è entrato in crisi quando ci siamo
resi conto che occorreva prendere in carico la sfida
interculturale. Una sfida che consiste nel coniugare
un sistema di regole che vincola tutti con il fatto
che la presenza di più soggetti obbliga a riconsiderare
come tutti insieme stiamo in una società aperta,
fatta di attori sociali e culturali differenti, ma che
nel tempo si trasformano. Ciascuno e insieme.
“Contrariamente a ciò che in genere credono
gli stranieri - ha scritto il politologo inglese Ernest
Gellner – una tipica donna musulmana non indossa
il velo perché così faceva sua nonna,
ma perché sua nonna non lo faceva. Col velo la
nipote festeggia la propria appartenenza a quel gruppo,
e non la propria lealtà nei confronti della nonna”.
Non vale solo per gli islamici. Nei processi di nuovo
entusiasmo religioso non si celebra la continuità
di un gruppo, bensì la sua discontinuità.
E’ questa discontinuità a rappresentare
la sua “contemporaneità”. Come scrive
il grande storico Marc Bloch: “Gli uomini somigliano
al loro tempo, più che ai loro padri.”
Così anche per noi.
Abbiamo di fronte a noi due diverse sfide. Sapendole
guardare e affrontare contemporaneamente noi saremo
in grado di andare “con il nostro tempo”.
Ovvero saremo in grado rispondere alle questioni che
il nostro tempo ci pone.
La prima sfida riguarda il tipo di società che
desideriamo per noi e che vorremmo dare in consegna
a chi verrà dopo di noi, come risposta alle sfide
della globalizzazione e della multietnicità nella
nostra società. Possiamo decidere che vogliamo
stringere con i nostri nuovi vicini di casa un patto
di genetica della salvezza. In questa prospettiva chiediamo
loro di smettere di essere ciò che sono; chiediamo
loro - perché padroni a casa nostra - di aderire
al nostro “Io”. Chiediamo loro di abbandonare
la propria storia. Questa non è mai stata la
nostra ipotesi.
La nostra ipotesi è stata l’idea che si
potesse pensare a una società aperta e dunque
a un patto di rigenerazione universale in cui ogni volta,
ciclicamente, la nostra società è l’insieme
di soggetti diversi che si incontrano e danno vita a
nuove sintesi. Quei soggetti sono il risultato e la
sommatoria di singole parti che si trasformano, si ibridano
e dunque si modificano (senza dimenticare, tuttavia,
che dobbiamo fornire i nostri nuovi vicini di strumenti
che consentano loro di crescere con noi: ovvero una
lingua con cui comunicare, dei servizi per cui la loro
vita materiale sia decente, delle scuole per i figli,….).
Dunque noi siamo per il patto di rigenerazione universale.
Ma questa scelta da sola non basta. Noi dobbiamo affrontare
una seconda sfida.
Nell’epoca della delocalizzazione, della cultura
del “non luogo”, come ha detto l’antropologo
Marc Augé, noi dobbiamo scegliere se optare per
la dimensione dell’esilio o per quella della diaspora.
Che differenza c’è tra esilio e diaspora?
Fisicamente nessuna, si vive in un luogo che non è
quello che si sogna. La differenza è mentale
ed è rilevante.
Chi è “in esilio” si pensa come un
diaframma. Non solo aspira a tornare laddove crede sia
il suo passato, riconoscendo a quel luogo la possibilità
di continuare a esistere nella storia, ma ha un rapporto
fermo con il proprio passato. Per esistere nella storia
non si tratta solo di tornare, ma di rifare tutto quello
che c’era prima. Pensarsi “in esilio”,
significa essere culturalmente impermeabili al tempo.
Considerare che le sollecitazioni culturali, i cambiamenti
del tempo, il contatto con le culture diverse dalla
propria siano una distrazione e un tradimento rispetto
alla propria identità.
Chi è “in diaspora” si pensa come
una spugna. Si trasforma nel tempo, si appropria di
molte cose, e le rimescola più o meno coerentemente
con ciò che si trasporta dal passato. In una
parola si ibrida e si assimila.
Noi dobbiamo essere diasporici per pensare a domani,
con la consapevolezza che ciò non significa dimenticare
la propria condizione di partenza, ma solo non pensare
con nostalgia al proprio sradicamento. Le sfide che
riguardano noi nella società multietnica, riguardano
noi nella impresa del partito democratico.
Decidere non è mai facile. Soprattutto se decidere
significa prendere congedo da una parte di sé.
Lasciare alle spalle definitivamente qualcosa. La sfida
è con quale prospettiva si compie questo passaggio.
Nell’esperienza storica delle minoranze che sono
transitate per luoghi non propri nel tempo, ogni nuovo
spostamento richiedeva che si lasciassero cose perché
non tutto era consentito portarsi via. Per mancanza
di tempo, ma anche perché si doveva partire con
poche cose. Ogni volta si trattava di scegliere. In
quella scelta c’era lo strappo dal passato, ma
anche la possibilità di trattenere nelle propria
memoria quanto più possibile di quel passato.
E poi di riconnetterlo, sempre diverso, mutevole, in
una nuova condizione.
Questa è la diaspora. Non il rifiuto del passato,
né l’impossibilità di averne uno,
ma l’accettazione serena che il passato non si
perde. Si riscrive e si rimodella attraverso le sfide
del presente. Talora, forse, anche lo si ritrova, ma
mai identico al prima e comunque senza tradirlo. In
ogni caso il passato non dice chi siamo, ma è
parte di ciò che diventiamo. Ha scritto Vittorio
Foa nelle sue memorie: “La nostalgia del futuro
è partire dalle cose amate per cercare”.
Non c’è la fine della storia. Ma la nascita
di una nuova possibilità. Questo siamo noi oggi.
Ed è per questo che siamo qui.
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