Alla domanda
su chi sarà, tra i tanti nomi, il leader del
futuro partito democratico Anna risponde ridendo: “Questi
dibattiti mi ricordano certe primitive indagini sul
sesso del nascituro: pancia tonda è femmina,
pancia a punta allora è maschio”. Sarà,
ma non erano in pochi a sostenere che il “ventre”
del Nelson Mandela forum avesse una forma leggermente
tondeggiante. L’appellativo di “nouvelle
Ségolène” serpeggiava nella tre
giorni toscana, animato dagli usuali commenti sull’età
(“in fondo ha due anni di meno di Ségò”),
il look (“altrettanto impeccabile e indicatore
di una forte personalità: colori netti, rosso,
nero, blu, argento”). Ci hanno scommesso pure
gli editorialisti de “La Stampa”, che in
una simulazione di voto hanno messo come leader di testa
Anna Finocchiaro (con 77 voti), prima di Veltroni (76),
Bersani (67) e D’Alema (62).
Grande avversaria delle quote rosa (ma solo perché
auspica una società dove giovani e donne siano
presenti ben al di là delle quote a loro destinate),
la senatrice capogruppo dell’Ulivo al Senato ammette
che una futura leader donna del Pd avrebbe effetti benefici
sull’intera società: “Sono convinta”,
ha dichiarato in una intervista, “che tutto quello
che accade di positivo che riguardi il protagonismo
femminile è importante, perché ha un effetto
simbolico sulle altre, anche su quelle che di politica
non si occupano”.
E non è un caso, allora, che, come in un gioco
di specchi e di rimandi – quello che c’è
stato tra i due congressi Ds e Margherita, accavallati
l’uno sull’altro – sia stata la stessa
Finocchiaro a chiamare in ballo nella sua applauditissima
relazione un altro nome, quello di Rosy Bindi, descritta
dalla senatrice Ds come colei che, a differenza di molti
all’interno del suo partito, ha saputo dare testimonianza
di laicità. Il fascio di luce si è spostato
così da una all’altra, tanto da spingere
l’intelligente direttore Anselmi a occupare interamente
la copertina de “La Stampa” di domenica
22 aprile con tre foto: la candidata socialista alle
presidenziali francesi, ovviamente, ma soprattutto Bindi
e Finocchiaro.
E allora, “Forza Rosy, forza Anna”. Eppure,
non potrebbero avere storie politiche così diverse.
Cresciuta la prima in Toscana, formatasi nell’Azione
cattolica (di cui è stata vicepresidente) e nel
clima conciliare, del quale non intende (fortunatamente)
liberarsi come tanti altri cattolici in circolazione,
comincia a fare politica nel 1989 – dopo l’esperienza
traumatica dell’uccisione di fronte ai suoi stessi
occhi di Vittorio Bachelet – prima con la Democrazia
cristiana, poi con il Partito popolare, infine nell’Ulivo.
È stata un’energica ministra della Salute,
riuscendo a varare, nonostante le resistenze di una
delle corporazioni più potenti d’Italia
– quella dei medici – la riforma del Servizio
sanitario nazionale (un’avventura che ha raccontato
nel bel libro La salute impaziente).
Una storia ben diversa quella di Anna, anzitutto per
il luogo di nascita, la Sicilia. E soprattutto per la
scelta della militanza politica, la sezione del Pc (cui
si iscrive a soli 18 anni) Ruggero Greco di Catania,
definita da molti un “club aristocratico di intellettuali
ingraiani”. Il padre giudice, che difende i contadini
in nome della Costituzione, lei che diventa magistrato
sulle sue orme, per poi essere eletta prima nel 1987
tra le file del Pci, poi con i Ds. Come la Bindi, anche
la Finocchiaro è stata ministra, sempre durante
il primo governo Prodi, delle Pari opportunità.
Due diverse appartenenze, dunque, entrambe tuttavia
segnate da quei travagli storici che hanno caratterizzato
il passaggio dalla prima alla seconda repubblica e dalla
fine (seppure differita) della Dc da un lato e del Pci
dall’altro. Due esperienze che cominciano a camminare
insieme già con l’Ulivo, poi con la Lista
unitaria, infine ora, nel nascente Partito democratico.
È per questo che, salendo sul palco, la loro
convergenza salta agli occhi. Impressionante, su tutti,
la comune soluzione al tema della laicità che
ha spinto Maria Serena Palieri sull’”Unità”
del 23 aprile a scrivere: “La laicità è
donna”, esaltando l’improvviso exploit sulla
scena pubblica di queste due possibili leader capaci
di “scaldare gli animi” e soprattutto riportare
sul tappeto le questioni centrali della riforma della
politica e del rapporto tra Stato e religione.
Nel suo intervento, la Bindi ha difeso la laicità
contro il clericalismo, e lo ha fatto con un vigore
quasi da radicale. Ha rifiutato l’indifferenza
ai valori, certo, ma soprattutto criticato ogni forma
di imposizione degli stessi, ogni non possumus, ogni
pretesa di trasferire le regole morali nella legge civile
e di usare la legge civile per difendere quei valori.
Ha ricordato come non ci può essere contraddizione
tra i diritti della persona e i diritti della famiglia,
perché “più famiglia non potrà
mai voler dire meno persona e viceversa”. E, infine,
ha auspicato una sintesi tra valori diversi, che nasca
da una continua messa in gioco, anche rischiosa, delle
proprie credenze, specie per i cattolici.
A sua volta, dal palco del Nelson Mandela, dopo aver
tuonato contro un paese vecchio e fermo, dove finisce
per vincere l’antipolitica, e dopo aver invocato
il nodo della rappresentanza e la necessità di
una nuova legge elettorale, la senatrice Ds è
arrivata – passando per parole come lavoro, diritti,
uguaglianza, cittadinanza, opportunità, modernità
e competizione – dritta dritta al tema della questione
etica. E ha ammesso: “La nostra cultura politica
da sola non basta”. Occorre, ha detto la capogruppo
al Senato, aprirsi al socialismo, al liberalismo, al
femminismo ma soprattutto al cattolicesimo democratico,
perché “abbiamo fame di parole nuove, perché
da soli non ce la facciamo”. La laicità
allora non è un discrimine, al contrario, ma
è qualcosa che ci unisce.
Rosy e Anna sui temi dell’etica convergono con
naturalezza, nonostante la Finocchiaro sia stata spesso
in passato irremovibile su certi temi, convinta com’era
della necessità di un partito socialista e laico.
Eppure sui Dico la loro posizione è stata identica:
critiche alla Chiesa per un’ingerenza giudicata
inammissibile, declino di partecipare al Family Day
ma anche, per neutralità, ad opposte manifestazioni
gay. E se su temi così delicati l’intesa
c’è, figuriamoci sulle riforme sociali,
la cui strada è, al di là del nodo delle
risorse, assai meglio tracciata.
Perché non puntare tutto su un ticket rosa, allora?
Chissà. A noi basta che dalle urne delle primarie
(se ci saranno) esca almeno un tailleur, una borsa grande
e capace di contenere le cose più diverse (proprio
come quelle femminili) e occhi attenti per guardare
con tenerezza a tutte quelle istanze di riconoscimento
che la società civile chiede e che una politica
quasi tutta al maschile, ostinatamente, ignora.
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