Il testo
che segue è il testo dell'intervento tenuto dall’autore
al congresso nazionale dei Ds il 21 aprile 2007.
Sono qui da vecchio socialista per dirvi che credo
nel Pd e che sarò con voi e con tutti coloro
che fuori di qui lavoreranno alla sua costruzione.
E voglio in primo luogo ringraziarvi per l’impegno
unitario e per il coraggio - che per primo e più
di tutti ha dimostrato Piero Fassino - con il quale
affrontate un cambiamento che è necessario per
consegnare alle giovani generazioni una forza politica
che si misuri con il futuro e non più con le
sfide e i contrasti su cui la mia generazione ha consumato
(non certo inutilmente, ma il passato è passato)
i suoi anni migliori.
Si compie così un processo al quale ho dedicato
io stesso il mio impegno politico di questi anni, anni
nei quali ho rappresentato nella Presidenza del Pse
i due partiti italiani che ad oggi ne fanno parte, i
Ds e lo Sdi. E l’ho fatto nell’aspettativa,
che evidentemente era condivisa da entrambi i partiti
che mi conferirono questa rappresentanza congiunta,
che essi sarebbero giunti all’unità anche
in patria. Ho incarnato per anni l’aspettativa
europea di tale unità e mi amareggia profondamente
che nel momento in cui essa può finalmente realizzarsi,
uno dei due partiti si chiami fuori, così come
mi amareggia che vi sia chi lo fa anche fra i Ds. Scissioni
e separazioni danno una forza momentanea ai loro protagonisti,
ma indeboliscono sempre il movimento. Non a caso sono
sempre vissute dai nostri iscritti con autentica sofferenza,
come le disgrazie. Per questo mi unisco all’augurio
fatto da Piero nella sua relazione introduttiva a proposito
della Costituente socialista, l’augurio che finisca
per essere essa stessa un passo verso una successiva
più larga unità nel Pd.
I socialisti hanno sempre avuto ambizioni più
grandi di loro. Le ebbero a fine Ottocento: niente di
meno che cambiare il mondo. E il mondo, grazie alle
loro lotte, riuscirono a cambiarlo. E perché
oggi la loro grandezza e la loro lungimiranza dovrebbero
esprimersi nel chiudersi in un recinto che porta il
loro nome e non nel portare la loro storia, i loro valori
e le loro aspettative in un contesto più ampio,
capace non solo di unire tutti i riformisti, ma, su
questa base, di ricondurre al riformismo le tante e
diversificate inquietudini che attraversano le nostre
società e il mondo intero e rischiano di trasformarlo
in un gigantesco e ingovernabile groviglio?
Nel suo libro più recente, Second Chance,
Zbigniew Brzezinski vede come frutto principale fatto
maturare dalla globalizzazione la ormai sterminata comunità
senza frontiere di quanti, in ogni parte del mondo,
chiedono eguaglianza e il riconoscimento della propria
dignità. La globalizzazione ha fatto maturare
questo frutto, ma tutto ciò ha alle spalle -
dice Brzezinski - il moto avviato nel Settecento dalla
Rivoluzione francese grazie al protagonismo della borghesia,
continuato dal movimento socialista che lo estese alle
masse dei paesi industriali, entrato poi nei paesi già
coloniali grazie ai movimenti indipendentisti ed oggi
penetrato in ogni angolo e in ogni ceto sociale.
Questo frutto è una straordinaria espansione
dei principi per cui noi ci siamo battuti e il segno
tangibile della realizzazione della nostra speranza,
quella di vivere in un mondo in cui ogni uomo abbia
la stessa libertà e gli stessi diritti di ogni
altro e ciascuno possa così realizzare il suo
progetto di vita.
Ma attenzione, la durezza e le diversificate fattezze
della realtà non consentono a questa grande e
sacrosanta aspirazione di esprimersi in forme che la
rendano gradevolmente riconoscibile e convogliabile
nei canali di cui ci servimmo nel secolo scorso. Al
contrario essa non solo assume forme diverse, ma si
identifica, in parti diverse del mondo, in miti e aspettative
che in più casi vanno più disinnescate
che assecondate: da Chavez o Morales in America Latina,
al riscatto di una identità islamica fiammeggiante
e vendicativa in Oriente, alle lotte sovrastate da identità
razziali o tribali in Africa, all’inquietudine
frustrata che abbiamo di fronte nei paesi più
avanzati, dove diminuisce stabilmente da anni la quota
della ricchezza prodotta che va al lavoro e aumentano
i precari, aumentano i prodotti importati a basso prezzo
e aumentano le immigrazioni che affollano il mercato
del lavoro. Ne escono contrapposizioni laceranti, divisioni
interne.
Ecco allora il grande compito della politica riformista,
che è quello di unire, di uscire quindi di casa
per costruire case più grandi nelle quali ciò
che oggi tende a lacerarsi venga ricucito, filtrato
all’insegna di principi condivisibili e condivisi
e quindi ricomposto in identità comuni all’insegna
di più estesi diritti e di più eguaglianza.
E’ ciò che fece il socialismo di fine Ottocento
che fu capace di dare, nel suo progetto futuro, una
identità comune tanto ai lavoratori che l’industrializzazione
stava spogliando del loro lavoro, quanto a quelli a
cui stava dando un lavoro senza diritti. Non precostituiamo
allora delle critiche di comodo nei confronti del partito
che si vuole creare. Ciò che esso dovrà
fare non sarà annacquare il messaggio, sarà
caso mai annacquare le punte identitarie che impediscono
l’unità all’insegna di un messaggio
più forte e più condiviso.
Ne discendono due conseguenze.
La prima è che dobbiamo attrezzarci, tutti, a
capire le ragioni degli altri. A far valere, certo,
la forza di quei principi e valori che riteniamo universali
e che debbono contaminare le culture che ancora non
li riconoscono. Ma anche a saper superare quelle durezze
identitarie che non servono a questa affermazione e
che possono per ciò stesso ostacolare una più
larga identità comune.
Se di questo si tratta, se ciò che dobbiamo
unire sono tanti fili diversi, nutriti oggi da culture,
da paradigmi mentali, da giudizi e pregiudizi diversi,
è davvero paradossale e scoraggiante che taluno
ritenga ostativo al successo del Partito democratico
l’incontro che in esso vogliamo realizzare fra
riformismo di matrice socialista e riformismo di matrice
cattolica, fra non credenti e credenti. In un mondo
come quello di oggi, in un mondo dove tante diversità
accampano uno spazio per le loro verità, storiche
o religiose che siano, in un mondo sul quale incombe
il rischio della distruzione, rischio che no istessi
abbiamo provocato con l’azione umana, che vi sia
in tutti il senso del limite: il limite al di là
del quale l’imposizione della propria verità
può lacerare la società e distruggerne
il bene comune, e il limite, per converso, al di là
del quale l’espansione delle libertà di
ciascuno può portare al medesimo risultato.
E’ dunque giusto chiedere alle religioni, a tutte
le religioni, di non pretendere di islamizzare la società
civile, una società nella quale esse convivono
con altri. Ma comincino i laici come me con l’ammettere
che le colonne d’Ercole ci sono per tutti e che
sbaglia chi ritiene che la laicità possa liberarcene
e portarci in un assoluto senza limiti. E prendiamo
atto che le religioni e la loro forza conformativa dei
comportamenti umani hanno uno straordinario potenziale
nel far prevalere fra gli uomini il messaggio della
comprensione reciproca, dell’amore e quindi della
pace. Il dialogo e l’incontro partono da qui.
La seconda conseguenza di questa universale aspirazione
alla dignità e alla libertà investe direttamente
la sfera politica e i modi in cui la si organizza e
quindi i modi stessi della forma partito. Attenzione,
non si può predicare il riscatto di ciascuno,
il diritto di ciascuno di esserci, di dire e di far
valere la sua, e poi chiudersi in strutture oligarchiche,
tagliare le gambe ai nuovi accessi, affidarsi per decenni
agli stessi dirigenti. Io mi guardo bene, e invito gli
altri a guardarsi, dal predicare assemblearismi, democrazia
soltanto diretta, decisioni per sondaggio e quant’altro.
So bene che questo significa in realtà scivolare
verso il populismo e porre le premesse di sistemi autoritari.
Credo alla democrazia rappresentativa e so che la partecipazione
ne è un complemento essenziale, non un sostituto.
Ma le élites devono essere davvero mobili , aperte,
rinnovabili e rinnovate.
Non si fa un partito per il ventunesimo secolo se lo
si organizza come quelli del ventesimo. Come lo si deve
fare? Non lo so interamente, aspetto io stesso di impararlo.
Ma intanto si faccia davvero ciò che tutti promettono,
ma che San Tommaso, francamente, ha il diritto di vedere:
si faccia realmente scaturire la Costituente del nuovo
partito da elezioni aperte a tutti coloro che vorranno
riconoscersi in esso, così come fu fatto con
le primarie che candidarono Prodi. E che vi sia spazio
per tutti, anche nella presentazione delle candidature.
Non ha da esserci discriminazione alcuna per chi è
iscritto e militante di partito, quasi che popolo o
società civile fosse solo chi non è né
iscritto né militante. Questo è davvero
inaccettabile. Ma altrettanto inaccettabile sarebbe
se cancellassimo, o solo mortificassimo, la bellissima
esperienza che abbiamo alle spalle, l’esperienza
dell’Ulivo e delle aggregazioni che in suo nome
abbiamo saputo costruire, raggiungendo anche i tanti
che si riconoscono nell’insieme pur senza aderire
a nessuna delle sue componenti.
Scriveva Alfredo Reichlin, un uomo a cui tutti dobbiamo
molto, ma davvero molto e specie in questa occasione,
che ha ragione Prodi nel volere la prima tessera non
per sé, ma per una ragazza giovane. E tuttavia
aggiungeva: “Su questo siamo tutti d’accordo,
il problema però è un altro. E’
cosa dire alla ragazza di Prodi”. Giusto Alfredo.
Ma facciamolo dire a lei, mettiamola in condizione di
farlo.
Forse avrà bisogno anche della nostra esperienza.
Ma che la politica riceva contenuti e prospettive dai
giovani e dai tanti che oggi la guardano da fuori, è
un’esigenza vitale per ragioni che non investono
solo il diritto a partecipare. Diciamo la verità.
Lasciata a se stessa la comunità politica esistente
- e mi riferisco non solo ai noi che facciamo politica,
ma ai commentatori, agli editorialisti e a tutti gli
addetti e interessati ai lavori - è tutto un
insieme che sembra scaldarsi soprattutto quando celebra
anniversari, quando fruga nel passato, quando può
risalire alle radici. Ebbene le radici contano, ma non
possiamo chiuderci dentro di loro, non possiamo far
scandire il nostro calendario futuro dagli anniversari
che verranno, non possiamo consegnare il futuro al passato.
Per questo ci serve la ragazza di Prodi e ci servirà
ascoltare e dare spazio a tutti coloro che del futuro
dovranno essere i protagonisti.
Vedrete. Ci parleranno di un mondo nel quale la ricchezza
che si produce cresce, ma crescono anche le distanze
nella sua distribuzione e i pochi hanno troppo mentre
i più non hanno l’essenziale. Ci aiuteranno
a capire che ci sono modi, per nulla eversivi ma nuovi
rispetto al nostro vecchio bagaglio, per mantenere alto
il livello della produzione, ma far accedere di più
i più alla ricchezza prodotta.
Ci parleranno della loro solidarietà e, perché
no, delle loro incomprensioni e dei loro timori davanti
ai tanti che vengono da noi a vivere una vita che sperano
migliore. Ci parleranno dei loro bambini, che in tanti
casi rischiano di perdere la corsa della vita già
ai blocchi di partenza, delle umiliazioni che una donna
deve ancora patire perché è donna, di
un progresso economico al quale non possiamo consentire
di distruggere l’acqua che beviamo, l’aria
che respiriamo, il pianeta in cui i loro figli domani
avranno diritto di vivere. Dell’Europa, alla quale
anche per questo i giovani, più di noi, sanno
affidare le loro speranze. E noi allora ci accorgeremo
che i valori, le aspirazioni, le indignazioni e le speranze
del nostro passato hanno ancora un senso e che a loro
le dobbiamo trasmettere. Potremo a quel punto seppellire
i nostri morti. Ma porteremo dentro di noi quello che
ci hanno insegnato.
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