Il
problema dell'Europa da Pietro il Grande a Putin
Da Pietro il Grande, il despota terribile e geniale
che invia i suoi funzionari a formarsi in Europa ma
vuole fare della Russia la superpotenza del continente,
all’atteggiamento non certo di soggezione verso
l’Occidente della Russia di Putin, il dibattito
tra slavofili e occidentalisti ha costituito una costante
della cultura russa.
La Russia è in Europa, in un'Europa che De Gaulle
vagheggiava estesa "dall'Atlantico agli Urali"
o è un continente altro, immenso, prestigioso
e ostile di fronte all'Europa?
Si tratta di posizioni che nel loro sviluppo nell'epoca
moderna si sono rivelate spesso una sorta di strozzatura
concettuale, delineandosi perlopiù come un’alternativa
senza sbocchi: cos’è l’Europa per
la Russia, l’alterità inaffidabile e poco
attraente di un Occidente imperialista ma carente d’anima
e in fondo decadente, fiaccato dalla democrazia e inferiore
alla grandezza incommensurabile della terra russa; o
il modello di una modernità vincente, cui la
Russia deve, in modalità ora opportunistica ora
sinceramente ammirata conformarsi per emergere nella
storia e entrare in Occidente? In prevalenza, si è
trattato di due atteggiamenti ferocemente inconciliabili,
pro e contro; una posizione di difesa e di chiusura,
se non di ostilità, fondata su un senso profondo
di superiorità, che prevede una gerarchia tra
culture, o un interesse tacciato di assimilazione, che
tende a misconoscere il valore della tradizione russa,
vista come la madre di tutte le arretratezze e come
la responsabile del pensiero più retrivo. In
questo senso, l’Europa non ha mai cessato d’essere,
a volte ossessivamente, oggetto di discussione per l’intellettualità
russa: come avviene ancora oggi, all'interno di un panorama
internazionale che non conserva più alcuna traccia
dell'ordine geopolitico nel quale è trascorso
l'intero Novecento.
Nella Parigi occupata dai nazisti, nel momento più
duro della caccia agli ebrei, un gruppo di russi ortodossi,
in una sede della periferia, lavorava clandestinamente
per la salvezza dei perseguitati; immersi nel centro
della cultura occidentale, provenienti dall’esperienza
della Rivoluzione d’Ottobre, cui, seppure con
posizioni fortemente autonome avevano partecipato, all’interno
di una situazione ecumenica e interreligiosa creata
dall’Occupazione, questo gruppo eterogeneo di
intellettuali, laici, religiosi e filosofi, vedeva nella
tragedia della guerra una misteriosa opportunità
per la Russia di avvicinarsi, senza rinnegare se stessa,
all’Occidente.
Tra di essi, una straordinaria personalità femminile,
Elisabeth Pilenko, poi Mat’Maria, in seguito arrestata
dalla Gestapo e destinata a morire nella camera a gas
di Ravensbruck, e un filosofo russo-ucraino, Nikolaj
Berdjaev. Nelle circostanze più drammatiche maturava
in questo ambiente estremamente singolare, una vera
e propria avanguardia intellettuale e spirituale, connotata
da una grandissima apertura culturale rispetto ai canoni
normali dell’emigrazione russa, un nuovo pensiero
russo sull’Europa.
Nel gruppo che a Clamart, alla periferia di Parigi,
si interroga sui misteriosi legami, che sembrano diventare
possibili nella comune esperienza della sofferenza e
della guerra, tra Ortodossia e cattolicesimo, tra ebraismo
e cristianesimo, tra spiritualità dell'Oriente
e razionalismo occidentale, tra Rivoluzione e democrazia,
in definitiva tra l'anima russa e l'Europa, un filosofo
fuori dagli schemi avanzava una possibile diversa chiave
di lettura al di là dell’aut-aut tra slavofili
e occidentalisti.
La Russia e l’Europa, anche se non assimilabili,
non sono inconciliabili. La caduta delle frontiere provocata
già dalla I Guerra e l’evento della Rivoluzione
hanno posto la Russia finalmente al di fuori del suo
isolamento e di fronte al mondo. Si tratta di una chance
storica irripetibile per un paese che non va posto sul
confine dei rapporti tra Oriente e Occidente: perché
è esso stesso un paese-ponte, un “grande
Oriente – Occidente integrale”; e in
ciò, se mai si possa parlare di missione delle
nazioni, consiste il suo compito storico: unificare
e non separare i due mondi. Si tratta di una posizione
allora e tuttora anomala all’interno del lungo
dibattito russo.
Nikolaj Berdjaev è il teorico che ravvisa proprio
all'interno della specificità russa i semi di
una compresenza dei due mondi e per questo la necessità
di una diversa maniera di concepire la loro relazione.
Un filosofo orientale-occidentale
Russo-ucraino per nascita e cultura ma, per formazione
filosofica e vicende biografiche, profondamente edotto
della storia e della cultura europee, Nikolaj Alexandrovic
Berdjaev si presenta fin dall'inizio allo studioso come
un filosofo “orientale-occidentale”:
uno spirito aperto, che interpreta criticamente quell’entità
antropologica definita "anima russa” e che
osserva con disincanto contraddizioni e opportunità
dell'Occidente; ma anche un testimone atipico della
difesa filosofica e storica della libertà nell’epoca
dei totalitarismi.
Esistenzialista, filosofo critico, studioso di Kant
e Marx, pensatore “sociale” ma anche religioso,
Berdjaev ha inconttrato in Europa, lungo il secolo di
cui certamente rappresenta un’espressione filosofica
originale, un’alterna fortuna critica: stretto
tra le polarizzazioni ideologiche novecentesche il suo
pensiero non si prestava facilmente a troppo schematiche
classificazioni.
In realtà questo aristocratico nato a Kiev nel
1874 e morto in Francia alle soglie della guerra fredda,
con trascorsi giovanili anarchici e marxisti, imprigionato
e deportato più volte dalla polizia zarista,
e successivamente, dopo la rivoluzione, in rapporti
critici con il governo bolscevico, ha superato la prova,
difficile negli anni tragici del secolo, della coerenza
tra il pensiero e il vissuto.
Esperto della filosofia classica tedesca e insieme
della gnosi russa, emigrato nella Parigi entre deux
guerres ovvero al centro della vita intellettuale
dell’epoca e immerso nella prima stagione dell’esistenzialismo
francese, Berdjaev offre forse proprio oggi, tramontato
il Novecento e il ruolo che la Russia ha avuto in esso,
una testimonianza filosofica di grande interesse e indubbiamente
poco comune.
L'intero sviluppo del suo pensiero è stato guidato,
in maniera poco conforme ai canoni della tradizione
russa, a fornire ciò che egli riteneva compito
proprio del filosofo, un'analisi lucida dei segni dei
tempi. La sua riflessione, asistematica ed eclettica,
spazia dall'esistenzialismo al socialismo personalista
alla rielaborazione di alcuni punti della spiritualità
russa. Ma, in maniera eminente, soprattutto le pagine
dedicate ai rivolgimenti politici di cui fu testimone,
alcune scritte non più tardi degli anni Trenta,
accanto a quelle dedicate alla catastrofe dei totalitarismi,
collocano Berdjaev tra quei pochi, nella cultura europea,
che furono in grado tempestivamente di riflettere, di
comprendere e prevedere il dramma e gli sviluppi verso
cui il secolo andava precipitando.
Attratto dalle vicende del socialismo rivoluzionario
in Russia e in Europa nei primi anni del secolo, esponente
di spicco del “secolo d’argento” della
cultura russa, Berdjaev offrirà nella maturità
l’abbozzo di una critica della società
capitalistica occidentale, nel suo assetto economico-sociale
e nei suoi presupposti teorici; ma, nello stesso tempo
e fin da giovane, non si esime da una critica puntuale
e acuta del messianismo e provincialismo di una parte
importante dell'antropologia intellettuale russa.
Parallela alla demitizzazione dell’umanesimo
europeo condotta in alcune delle sue opere più
celebri – umanesimo il cui enorme finale fallimento
Berdjaev ravvisa nell’instaurazione delle dittature
e nella comparsa del “bestialismo” nazista
– è infatti la constatazione critica dell’assenza,
nella storia russa, di una vera e propria fase umanistica,
con il rifiuto della cultura che ne è
conseguito.
Berdjaev sfugge in tal modo ai possibili esiti retrivi
della santificazione di alcuni valori profondi legati
alla terra russa, e tenta di recuperare in chiave di
apertura e di universalismo la “missione”
della Russia in Europa. Se resta consapevole della sua
irrinunciabile specificità egli mette in luce
anche la realtà del suo isolamento nella storia
moderna del continente, rilevando, accanto al suo enorme
patrimonio di spiritualità e cultura, altrettanto
profonde tentazioni di chiusura e di sciovinismo. E’
in questa prospettiva che il filosofo può scorgere
nella Russia del Novecento un grande paese posto di
fronte a una chiamata della storia: aprirsi –
finalmente – al mondo, e nel contempo fornire
all’Europa un proprio originale contributo.
Berdjaev tenterà infatti di disegnare una prospettiva
in cui ripensare la relazione tra due mondi diversa
dalle esclusive alternative rappresentate dallo slavofilismo
e dall'occidentalismo: una relazione che peraltro, contro
le sue speranze iniziali, era destinata a riemergere
in un certo senso solo ai nostri giorni, dopo la lunghissima
parentesi del comunismo e della guerra fredda.
I “ragazzi russi” e i “problemi
maledetti”
A tale diversa prospettiva non sono estranei né
la seduzione esercitata su Berdjaev dalle grandi sistematizzazioni
logico-dialettiche del pensiero europeo né la
critica, o il rifiuto, o l’eversiva alternativa,
rappresentati dall’attitudine anti-stanziale,
in un certo senso anti-culturale e incessantemente itinerante
dell'universo degli iurodivi o stranniki, i
pellegrini russi, inassimilabili per scelta nella città
degli uomini e icona (spesso paradossale e di alto livello
spirituale) di un tipico atteggiamento perdurante nella
cultura russa: un atteggiamento inconsueto se non estraneo
per l’Occidente razionalista, ma non privo secondo
Berdjaev della capacità di introdurvi un salutare
e paradossale elemento di stimolo. Ma, nello stesso
tempo, anche i germi degli atteggiamenti totalitari
che come ben si sa si manifestarono negli anni successivi
alla Rivoluzione, senza essere privi di un consistente
supporto di consenso, sono individuati da Berdjaev a
livello embrionale nella cultura massimalista dei terroristi
russi dell’epoca zarista, oltre che nella lunghissima
"notte" dell'autocrazia: situazioni culturali
diverse e incommensurabili ma entrambe, in un certo
senso, riconducibili a un’asfissia della libertà
di coscienza e del pluralismo. Accanto alle domande
abissali poste da Dostoevskij e dai suoi "ragazzi
russi" che, in miserabili taverne, discutono fino
a notte fonda sui "problemi maledetti" ("la
libertà, il male, la teodicea, il socialismo"),
Berdjaev, appassionato difensore della “singolarità”
nell’epoca dei totalitarismi, aggiunge, alla maniera
russa, il quesito essenziale che si ritiene in genere
proprio solo dell'Occidente, ovvero la problematica
dei diritti del singolo individuo in quanto persona.
Per questo egli riprende con efficacia le domande che
Dostoevskji pone sulle labbra di Ivan Karamazov sulla
legittimità di provocare le lacrime di un solo
bambino, ovvero del sacrificio degli innocenti, per
la realizzazione della società futura, e per
i superiori interessi dello Stato: una legittimità
che tuttora l'Occidente rimprovera a quelli che appaiono
gli abusi della nuova democrazia russa. Ovvero il quesito
se sia lecito “innalzare l’edificio del
destino umano con lo scopo finale di far felici gli
uomini… ove per questo fosse stato necessario
e inevitabile tormentare solo una miserabile creaturina,
ecco proprio quel bambino che si batte il petto con
il suo piccolo pugno, e sulle sue lacrime invendicate
fondare questo edificio”.
Al recupero di questa dimensione miravano, da parte
di un russo, la constatazione critica del rifiuto della
mediazione della cultura e la deconsiderazione della
libertà soggettiva che spesso in maniera infausta
hanno connotato storicamente la storia russa.
E’ un’analisi il cui perdurante interesse
affonda le proprie radici in una meditazione di lungo
respiro sulla storia della Russia moderna. Il problema
è quello di liberarsi da una concezione soggettivistica,
etnica ed esasperata della propria "particolarità".
Il trauma della rivoluzione condizionava pesantemente,
ad esempio, le riflessioni degli intellettuali russi;
riferendosi all’ambiente degli émigrés
russi in Francia dopo la rivoluzione d’Ottobre
e alla visione che tale ambiente aveva elaborato rispetto
alla situazione sovietica, Berdjaev tiene a sottolineare,
non senza ironia, la necessità di un approccio
diverso:
“Il comunismo è stato considerato, fino
ad ora, da un punto di vista piuttosto sentimentale
ed emotivo che intellettuale: atmosfera psicologica
eminentemente sfavorevole alla sua comprensione. Fra
gli emigrati russi, il comunismo solleva contro di sé
la reazione sentimentale e appassionata delle vittime,
che alla domanda – che cos’è il comunismo?
– dovranno fatalmente rispondere: - il comunismo
è la mia vita spezzata, è il mio doloroso
destino”.
E' una posizione atipica per quegli anni, come atipica
era la riflessione sul ruolo della Russia. Una riflessione
che ripropone oggi il valore di una visione che tentava
di superare, ante litteram, la logica dei blocchi
e dello scontro di civiltà.
Come pensare la Russia
Come tutti i russi, anche in Berdjaev il punto di partenza
è costituto dalla coscienza di una specificità
irriducibile dell’anima russa. Nel 1918, riferendosi
a quella che giudicava la natura particolarissima della
rivoluzione Russa, lo stesso Berdjaev scriveva:
“Il popolo russo è incomprensibile per
le genti dell’Occidente, che non possono arrivare
a capire di più questa sua rivoluzione. Le loro
nature sono fatte di un tessuto completamente differente”.
Tuttavia dopo il dramma della guerra e della Rivoluzione,
la Russia è stata posta realmente di fronte al
mondo intero e in esso deve esplicare la propria "missione",
contribuendo con tale presenza a configurare diversamente
l'assetto del mondo. E' una situazione simile, in un
certo senso, a quella dei nostri giorni, alla Russia
postsovietica e postmoderna: il crollo della barriera
dietro cui viveva il mondo comunista ha di nuovo proiettato
la Russia verso l'Europa. A parere di Berdjaev era l'Asia
che sorgeva di fronte all'Europa dopo secoli di incomunicabilità
e marginalità, ma era anche una parte profondamente
intrinseca all'Europa stessa che emergeva con un'evidenza
senza precedenti nel contesto occidentale. In questo
senso, né l'occidentalismo né lo slavofilismo
sono in grado di cogliere la natura e il significato
più profondi del paese, proprio in quanto mirano
alla separazione dei suoi due elementi la cui contemporaneità
costituisce al contrario la sua propria e particolare
essenza.
Bizantismo del rapporto della chiesa ortodossa
con lo stato, settarismo e nichilismo delle correnti
culturali russe più rappresentative, sono i principali
responsabili dell'atteggiamento anticulturale che ha
inciso negativamente e caratteristicamente sulla concezione
russa dei rapporti internazionali.
Per Berdjaev la tradizionale visione russa dell'Europa
si è rivelata inadeguata, oscillante tra il servilismo
verso i modelli frequentemente deteriori proposti dall'Occidente
(militarismo, imperialismo borghese, disuguaglianza
profondamente insita nel capitalismo liberale) e la
russofilia affetta da xenofobia culturale. Non si tratta
infatti per il popolo russo di europeizzarsi acriticamente
ma, aprendosi all'Europa, di universalizzarsi.
D'altra parte, dal punto di vista politico, considerando
il passaggio del paese attraverso l'immobilismo di diverso
segno dell'autocrazia zarista e dell'impero sovietico,
non sorprende constatare una "apoliticità"
radicata nella società russa: “L'anima
russa aspira sempre non allo Stato ma una sacra collettività”.
Dietro l'iconostasi dell'identità collettiva
dell'Oriente russo, la Russia finisce per diventare
comunque la "Santa Russia".
Ma per un filosofo fautore di una positiva contaminazione
culturale tra i due mondi, anche l'Occidente deve reimparare
ad accostare la Russia, mettendo in discussione le proprie
categorie tradizionali, pregiudiziali e superficiali
Grandi tentazioni di chiusura, grandi rifiuti, messianismi
teologici o secolari di ampiezza globale hanno senz'altro
afflitto la storia russa: la Russia all'inizio del nuovo
secolo sembra dover cercare di nuovo la sua via e ripensare
la propria identità.
Ma, ed è un'indicazione valida ancora oggi per
chi in Occidente voglia avvicinarsi a comprendere più
autenticamente il mondo russo e impostare più
correttamente una relazione, essa non è, e non
sarà mai, una dimensione modesta: "Non debole
e piccola, ma forte e grande la Russia vincerà
la tentazione di dominare il mondo".
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