Il presidente
dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas
e il leader di Hamas Khaled Meshal sono andati alla
Mecca dopo che più di 130 persone erano state
uccise, centinaia ferite e un bruciante senso di urgenza
aveva preso il sopravvento nelle strade palestinesi.
Gli abitanti di Gaza sono stati confinati nelle loro
case per giorni, questa volta non a causa di un coprifuoco
israeliano o di un attacco aereo ma piuttosto per la
paura di rimanere vittime del fuoco incrociato. La società
palestinese sembrava essere sul punto di una guerra
civile.
La pressione dal basso ha avuto un effetto e, nel giro
di due giorni, i leader di Fatah e Hamas, attraverso
la mediazione del re dell’Arabia Saudita Abdullah,
sono riusciti a ottenere ciò che non erano stati
capaci di raggiungere nel corso dell’anno precedente:
un governo di unità. Migliaia di palestinesi
hanno riempito spontaneamente le strade di Gaza per
celebrare quello che sembrava essere un momento storico.
Mentre scrivo, gli scontri si sono in effetti placati,
ma non è chiaro se la calma durerà. Da
un lato, i punti dell’accordo devono essere ancora
definiti e il diavolo spesso si annida nei dettagli.
D’altro canto, quello che succederà non
dipenderà esclusivamente dall’amicizia
tra Fatah e Hamas.
La maggior parte degli esperti ha inteso gli scontri
settari o come una lotta su chi controllerà il
governo e le risorse palestinesi o come una manifestazione
locale di un conflitto internazionale molto più
ampio tra le forze fondamentaliste e quelle secolari
nel mondo islamico. Tali interpretazioni, tuttavia,
hanno offuscato il ruolo centrale che Israele e gli
Stati Uniti hanno svolto.
Anche prima che Hamas vincesse le elezioni democratiche
del gennaio 2006, a seguito delle quali il quartetto
dei mediatori per il Medioriente (Stati Uniti, Unione
Europea, Russia e Nazioni Unite) ha tagliato gli aiuti
ai palestinesi, la chiusura dei territori da parte di
Israele aveva scatenato una crisi economica. Più
del 60% degli abitanti palestinesi viveva al di sotto
della soglia di povertà di 2 dollari al giorno
e la Banca Mondiale riferiva che il 9% dei bambini soffrivano
di malnutrizione acuta. Considerando che, nei territori,
l’aiuto finanziario fornito ai palestinesi costituiva
quasi un terzo del reddito nazionale lordo pro capite,
l’imposizione delle sanzioni economiche è
stata catastrofica.
La chiusura e le sanzioni non solo hanno provocato il
caos nell’economia palestinese ma hanno anche
aiutato a far precipitare gli scontri violenti tra le
fazioni. In effetti, l’idea dietro le sanzioni
che sia Israele che gli Stati Uniti hanno spinto altri
paesi a imporre è di modellare i rapporti di
potere con la società palestinese adottando uno
schema che, per chiarezza, potrebbe essere chiamato
“Piano Somalia”.
Per mesi l’Autorità palestinese non è
stata in grado di pagare gli stipendi dei suoi 160mila
impiegati. Questi lavoratori forniscono di che vivere
a oltre un milione di persone, ovvero a quasi un terzo
della popolazione. Circa 70mila lavorano per le numerose
organizzazioni di sicurezza, la maggior parte delle
quali è legata a fazioni politiche. Allo stesso
modo degli impiegati di istituzioni civili, come i ministeri
dell’istruzione e della sanità, sono profondamente
arrabbiati perché non possono sfamare le proprie
famiglie. Ma a differenza dei lavoratori civili, sono
armati. In queste condizioni, non sorprende che sia
scoppiata una lotta di potere. Risorse inadeguate, sanzioni
economiche, migliaia di uomini armati in miseria e il
sostegno straniero per certe fazioni sono, dopotutto,
gli ingredienti di cui si nutrono i signori della guerra
alla somala. Finora è questo il caso: il successo
del governo di unità dipende dalle sanzioni economiche.
Ma qui viene l’inconveniente: il governo unilaterale
di Israele non è davvero interessato a un partner
che negozi e vede nell’unità palestinese
una minaccia. Anche prima che i leader palestinesi tornassero
a casa, Israele aveva lanciato una campagna diplomatica
ben orchestrata per convincere il quartetto a mantenere
le sanzioni. Contemporaneamente, il primo ministro Ehus
Olmert aveva dichiarato che qualsiasi negoziazione futura
si sarebbe ispirata a un approccio fondato su “tre
no”: no alla divisione di Gerusalemme, no a un
ritiro entro i confini del 1967 e, infine, no a una
soluzione al problema dei rifugiati palestinesi. Di
conseguenza, Israele non è disposta a discutere
nessuna delle questioni di contenzioso che devono essere
risolte.
Il dispiegarsi degli eventi ha anche preparato il terreno
per rendere il summit del 19 febbraio a Gerusalemme
privo di conseguenze. Nondimeno, il Segretario di Stato
statunitense Condoleeza Rice ha pronunciato alcune significative
dichiarazioni nel corso della sua visita in Medioriente.
Al giornale palestinese “Al Ayam”, ha detto
che è improbabile che uno stato palestinese venga
creato prima che il Presidente Bush termini il proprio
mandato. E al quotidiano israeliano “Ha’aretz”
ha aggiunto che il governo di unità palestinese
non verrà riconosciuto – suggerendo che
le sanzioni proseguiranno – fino a che non si
atterrà alle tre condizioni di Israele: che il
governo palestinese riconosca Israele, rinunci alla
violenza e ratifichi gli accordi di Oslo e la road
map. Se queste richieste sono legittime sotto molti
aspetti, possono facilmente far parte dei negoziati
piuttosto che diventare un’arma utilizzata per
far precipitare la violenza interna e distruggere così
la società palestinese.
Paradossalmente, la posizione di Israele è contraria
ai suoi stessi interessi. Se gli scontri interni alla
Palestina ricominceranno e si svilupperanno in una guerra
civile conclamata, non ci sarà alcuna speranza
di risolvere il conflitto tra Israele e i palestinesi.
Bisogna esseri davvero miopi per non vedere come l’assenza
di una leadership palestinese unita indebolisca tutti
gli sforzi per determinare la pace a livello locale
e regionale.
Traduzione di Martina Toti
La versione originale dell’articolo è
apparsa sul numero del 12 marzo 2007 di The
Nation
Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti
da fare? Scriveteci il vostro punto di vista a
redazione@caffeeuropa.it
|