Quella
che segue è l’introduzione al libro “Afghanistan.
Storia e società nel cuore dell’Asia”
(Carocci editore) da pochi giorni in libreria.
“I talibani facevano pendere il cadavere dell’impiccato
per quattro giorni. Noi lo faremo per un periodo breve:
diciamo, quindici minuti [...]
Anche le lapidazioni pubbliche continueranno, ma useremo
pietre piccole”.
Giudice dell’Alta Corte, Afghanistan, dicembre
2001
Il 19 dicembre 2005, al termine di un faticoso processo
di ricostruzione politica e istituzionale iniziato quattro
anni prima, è stato inaugurato sotto i riflettori
dei mass media mondiali il Parlamento afgano.
L’evento, definito enfaticamente dall’amministrazione
Bush un “trionfo della democrazia” e la
prima grande vittoria contro il terrorismo, rischia
tuttavia di deludere le aspettative di chi, piuttosto
semplicisticamente, aveva immaginato che potesse costituire
una cesura totale e istantanea rispetto al passato.
Il problema è che il passato è in larga
misura seduto in Parlamento.
Tra i deputati neoeletti vi è Abdul Rab Rasul
Sayyaf. Sebbene per
pochi voti non sia diventato portavoce della wolesi
jirga, la Camera bassa, rimane comunque uno dei
suoi esponenti più influenti. Dopo avere creato
nel 1981 con fondi sauditi, per ovviare alla mancanza
di seguito popolare, un partito volto a diffondere il
credo wahhabita ed essersi successivamente alleato a
Osama ben Laden, oggi Sayyaf partecipa alla ridefinizione
democratica dell’assetto politico afgano, pur
senza rinunciare a un programma oscurantista che ha
molto in comune con quello del movimento talibano.
Vicino a Sayyaf siedono alcune giovani donne e alcuni
intellettuali
progressisti, ma anche molti ex talibani, comandanti
militari che si
sono macchiati di gravi crimini contro l’umanità
e signori della guerra legati al narcotraffico, che
dal 2001 è tornato a costituire la principale
componente dell’economia afgana. Alla Camera bassa
il blocco politico principale è costituito da
un Partito islamista, l’Hezb-e islami, che aveva
goduto dei finanziamenti sauditi e americani negli anni
ottanta, quando gli imperativi della Guerra fredda mettevano
in secondo piano qualsiasi altra considerazione, e che
condivide l’oscurantismo sociale di Sayyaf. Con
Sayyaf l’Hezb ha in comune anche l’indifferenza
verso la popolazione civile: nei primi anni novanta
le truppe di Gulbuddin Hekmatyar, il leader del partito,
bombardarono ripetutamente la capitale, uccidendo migliaia
di civili e distruggendo interi quartieri. Oggi il partito
si è apparentemente allontanato dal suo leader
storico, che si è unito alla guerriglia talibana,
ma rimane il dubbio che l’Hezb tenti, con il pragmatismo
che l’ha sempre caratterizzato, di rendersi presentabile
e di controllare le istituzioni democratiche senza tuttavia
rinunciare alla lotta armata guidata da Hekmatyar.
A destare preoccupazione sul futuro della democrazia
in Afghanistan vi è anche la presenza nel sistema
giudiziario post-talibano di figure ultraconservatrici,
che in diverse occasioni si sono dichiarate contrarie
a qualsiasi apertura democratica e di genere. Il caso
di Abdul Rahman, l’afgano convertito al cristianesimo
che è stato condannato nel 2006 per apostasia
e poi liberato con un pretesto di natura tecnica, è
sintomatico di una democratizzazione che rischia di
essere solo di facciata. Così come lo sono i
diversi casi di blasfemia portati in questi anni davanti
ai tribunali contro intellettuali progressisti colpevoli
di essersi dichiarati favorevoli a un approccio esegetico
innovativo alle fonti del diritto islamico.
Hamid Karzai, che dal 2005 ricopre la carica di presidente
e che,
prima di allora, ha guidato il governo interinale e
quello provvisorio, si è rivelato estremamente
abile nel costruire compromessi con comandanti militari
e uomini politici, signori della guerra e figure religiose,
seguendo un modello di cooptazione e di manipolazione
della segmentazione politica e sociale che ha una lunga
tradizione nel paese.
Anche la nuova Costituzione, approvata nel 2004, è
frutto di un compromesso che mira ad accontentare due
raggruppamenti: da una parte gli sparuti elementi progressisti
e, soprattutto, i paesi donatori, da cui dipende la
ricostruzione del paese, e, dall’altra, elementi
conservatori, che tramite le moschee controllano la
società rurale.
Frutto di questi compromessi è, ad esempio,
la dichiarazione contenuta nella Costituzione di volere
rispettare sia gli accordi internazionali in tema di
diritti umani sia i principi fondanti dell’islam,
senza che si chiarisca chi li debba interpretare e secondo
quali criteri. In un contesto in cui l’interpretazione
è lasciata agli elementi ultraconservatori che
dominano la magistratura, questa ambiguità di
fondo rischia di bloccare ogni tentativo di dar via
a una democratizzazione reale che, pur inserendosi in
un discorso culturale autoctono, garantisca il pieno
rispetto dei diritti umani e protegga i settori più
vulnerabili. Insomma, il cambiamento rischia di risolversi,
per tornare alla citazione iniziale, nella dimensione
delle pietre da utilizzare per la lapidazione.
Karzai si è trovato ad affrontare anche gli
interessi divergenti di altri paesi che, sfruttando
rivalità interne all’Afghanistan, cercano
di realizzare, o di contrastare, obiettivi geostrategici
più ampi: basti menzionare qui la recente strategia
statunitense di consolidamento della propria presenza
in Eurasia tramite il controllo di una rete di basi
militari, a cui si contrappone il tentativo delle potenze
regionali, Cina, Russia e India in primis,
di contrastare le ambizioni unipolari di Washington;
il vecchio sogno di Islamabad di ottenere “profondità
strategica” in funzione anti-indiana e di far
valere le proprie pretese sulla disputa confinaria,
a cui si contrappone la crescente presenza economica
e diplomatica dell’India a nord della Durand Line;
il tentativo, che risale agli anni ottanta, dell’Arabia
Saudita di espandere il proprio modello religioso e,
infine, quello, comune a numerosi paesi, dentro e fuori
la regione, di controllare i mercati e le ricche risorse
energetiche centro-asiatiche, aperti alla competizione
internazionale in seguito alla disintegrazione sovietica.
Si tratta, in fondo, di una riedizione aggiornata del
“grande gioco” che nell’Ottocento
contrapponeva Russia e Gran Bretagna e, nei secoli precedenti,
aveva contrapposto altri grandi imperi che si contendevano
il controllo su un territorio, quello afgano, situato
all’“incrocio” di tre grandi aree,
Asia centrale, Medio Oriente e subcontinente indiano.
Se non fosse che oggi il quadro è complicato
dalla scoperta di ricchi giacimenti di idrocarburi in Asia centrale e dal narcotraffico, un business che
ha nell’Afghanistan, complici la fragilità
dell’apparato statale e le sue connivenze con
un’economia “criminalizzata”, il principale
centro di produzione a livello mondiale.
Da quanto detto emergono alcuni ostacoli alla trasformazione
politica in atto, ostacoli che hanno caratterizzato
tutta la storia afgana: la polverizzazione del potere
secondo legami identitari di natura etnica, clanico-tribale
e regionale; la parallela debolezza dello stato centrale,
costretto a cercare alleanze con le reti di potere locali
e quindi a esporsi a compromessi che inevitabilmente annacquano
le sue riforme, soprattutto in ambito sociale; l’interferenza,
infine, di potenze piccole e grandi, pronte a inserirsi in giochi di potere
interni per raggiungere obiettivi più ampi.
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