Per chi voglia
approfondire la filosofia che sta dietro le recenti
liberalizzazioni proposte dal governo Prodi, e dal ministro
Bersani in particolare, sarà una lettura molto
interessante quella dell’ultimo libro di Alberto
Alesina e Francesco Gavazzi, Goodbye Europa. Cronache
di un declino economico e politico (Rizzoli). A
pagina 123, per esempio, i due economisti propongono
il “big bang delle liberalizzazioni”, che
liberalizzi in un colpo solo tutti i mercati, indebolendo
così l’opposizione a riforme che sono fondamentali
– spiegano gli autori – al rilancio dell’economia
europea. Alesina e Giavazzi (il primo è professore
ad Harvard e collaboratore del Sole 24 Ore,
il secondo è professore alla Bocconi di Milano
e collaboratore del Corriere della Sera) dipingono
un quadro a tinte fosche dell’economia europea,
che vedono schiava del “mito della concertazione”
e della poca voglia di lavorare, destinata (Italia in
testa) a diventare presto “irrilevante”
sullo scacchiere internazionale.
Per gli autori l’Europa deve svegliarsi il prima
possibile dal suo incanto, e introdurre misure che l’avvicinano
al sistema americano, sebbene le differenze tra i modelli
dei due continenti, “invece di attenuarsi”,
stiano “diventando sempre più profonde”.
“La lezione più importante che gli Stati
Uniti possono dare all’Europa è la convinzione
che gli individui rispondono agli incentivi”,
spiegano, e nel libro indicano una medicina che risulterà
amara alla maggioranza dei cittadini europei: meno ferie,
più competizione, licenziamenti più facili.
Particolarmente impopolare suonerà anche il loro
attacco ai sindacati, che ritengono responsabili del
mancato ingresso dei giovani nel mercato del lavoro
(“I sindacati sono gestiti da lavoratori anziani
e in alcuni casi perfino da pensionati, e quindi sono
più interessati a proteggere queste categorie
anziché i giovani”).
Ma Alesina e Giavazzi ne hanno soprattutto per la classe
dirigente del Vecchio continente, che accusano di dirigismo
(gli euroburocrati), di protezionismo (soprattutto i
francesi, ma anche gli italiani), di incapacità
di attrarre gli immigrati di talento e di scarso coraggio
riformista. Invocano invece meno tasse, meno intervento
e meno denaro pubblico, più innovazione e l’introduzione
della pratica della “distruzione creativa”,
“dove le vecchie aziende chiudono i battenti e
nuove imprese possono sostituirle, dal momento che è
soprattutto nelle nuove aziende che si sviluppa la tecnologia”.
Nelle università, dicono, non c’è
bisogno di più soldi pubblici, ma “di una
riforma del sistema degli incentivi che regoli l’attività
di insegnanti e studenti”. Di più: integrando
il sistema con borse di studio per i meno abbienti,
si dovrebbe passare da un’Università pagata
dai contribuenti a una pagata dagli studenti stessi,
perché “il fatto che i contribuenti paghino
i costi dell’istruzione va nella direzione sbagliata:
i beneficiari infatti sono molto spesso i figli di famiglie
con redditi relativamente alti, cioè quelli che
frequentano l’Università”. Per gli
autori nemmeno la scarsa capacità innovativa
delle aziende europee è da attribuire ai pochi
investimenti pubblici: anche qui i soldi ci sono, ma
è proprio il sistema che funziona male, e “un
euro speso in ricerca in Europa è meno produttivo
di un dollaro speso negli Usa”. Ai politici rimproverano
in particolare la difesa dei sussidi agricoli, che –
ricordano – spesso finiscono nelle tasche dei
ricchi (300mila euro l’anno al principe Alberto
di Monaco, ancor più alla regina Elisabetta,
alla Philip Morris e alla Nestlé).
Alesina e Giavazzi non negano i problemi dell’America,
dal sistema sanitario troppo costoso alla violenza urbana
e al razzismo: “L’America ha molto da imparare
dall’Europa – ammettono – Alcuni aspetti
del welfare europeo sono in grado di assicurare la solidarietà
sociale e, quando ben progettati, con costi di efficienza
relativamente bassi”. Il giudizio è positivo
verso alcune riforme introdotte anche dall’Italia
(contratti a termine e legge Biagi), verso i risultati
del modello scandinavo e anche nei confronti dell’introduzione
dell’euro. Ma in generale lo scetticismo verso
il Vecchio continente è forte, e sul libro incombe
una specie di terribile avvertimento, che prende la
forma di questa minacciosa parabola: “Agli inizi
del Novecento, l’Argentina era uno dei paesi più
ricchi del mondo. Poi il mondo cambiò, ma gli
argentini continuarono a pensare che per restare ricchi
bastasse esportare grano e carne bovina. Per molto tempo
la maggior parte degli argentini non comprese –
o rifiutò di ammettere – la gravità
della minaccia che incombeva sul loro paese. Quando
la crisi esplose, gli argentini si ritrovarono di colpo
poveri. Gli europei si rendono conto di questa possibilità?”.
Alberto Alesina e Francesco Gavazzi,
Goodbye Europa. Cronache di un
declino economico e politico
Rizzoli 2006, 217 pagine, € 18,00
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