“Un
passaporto europeo per gli extracomunitari che vivono
nell’Unione”: così Daniele Archibugi,
dirigente del Consiglio Nazionale delle Ricerche, Irpps
(Istituto di Ricerche sulla Popolazione e le Politiche
Sociali) e Professore di Innovation, Governance and
Public Policy all’Università di Londra,
Birkbeck College, sintetizza le sue riflessioni sulla
cittadinanza e sui problemi dell’integrazione
degli extracomunitari nell’Unione europea.
“In primo luogo, anche se è vero che noi
desidereremmo essere prima cittadini europei e, dopo,
di uno stato membro, è forse opportuno concentrarsi
su obiettivi più modesti: oggi il problema è
come persuadere i cittadini europei del fatto che si
troverebbero meglio in una situazione in cui la cittadinanza
non è più nazionale ma viene attribuita
a livello europeo”. Quanto all’immigrazione,
dice, “essa viene percepita, soprattutto in Europa,
come un fenomeno nell’interesse delle persone
che immigrano nell’Ue, dimenticando che il declino
demografico nel vecchio continente è tale che
essa diventa vitale per preservare l’esistenza
di una società europea nel futuro”. Infine,
in relazione all’incontro-scontro con valori diversi,
Archibugi conclude: “è un problema che
si può risolvere con una sintesi tra visioni
diverse, convergendo sui valori liberali della tolleranza,
della mitezza, del dialogo e dell’uguaglianza”.
Ha scritto Rainer Bauböck (nell’articolo
pubblicato su questo numero, ndr) che la maggior
parte dei cittadini in Europa non sembrano ansiosi di
diventare cittadini dell’Europa e, anzi,
“guardano con sospetto a qualsiasi richiesta di
spostare la loro lealtà politica e le loro identità
dal livello nazionale a quello sovranazionale”.
Perché secondo lei ciò avviene?
I risultati dei referendum in Francia e in Olanda sono
stati una dura lezione per quanti come me hanno sostenuto
e sostengono una maggiore integrazione politica europea.
Però non mi sembra che si possa automaticamente
estrapolare la stessa conclusione per tutti i ventisette
paesi dell’Unione. Nei paesi che con l’ingresso
in Europa hanno avuto grossi benefici in termini di
stabilità politica– mi riferisco in particolare
all’Italia, alla Spagna, al Portogallo, alla Grecia
– non è assolutamente detto che i risultati
sarebbero analoghi. Ma nei paesi in cui lo stato è
riuscito a dare un’ampia protezione ai cittadini
– come la Francia, l’Olanda, la Gran Bretagna
e i paesi scandinavi – è comprensibile
che i cittadini stessi temano che, mettendosi sotto
un ombrello più ampio, le loro protezioni vengano
diminuite. È molto probabile che si andrà
verso una situazione di differenze tra i paesi che sono
più deboli nel garantire diritti di cittadinanza
– e che quindi guardano con interesse ai diritti
che possono venire da un’istituzione sovranazionale
come l’Unione europea – e paesi in cui i
diritti di cittadinanza sono più forti, nei quali
è invece elevato il timore di perdere controllo
affidandosi troppo a Bruxelles.
Non bisogna dimenticare infine che la possibilità
di esercitare un controllo nei confronti delle istituzioni
comunitarie è sempre più difficile rispetto
alle istituzioni nazionali. Un cittadino francese sa
come protestare o rivendicare diritti nei confronti
del suo governo, ma gli risulta molto più difficile
mettersi nelle mani della burocrazia di Bruxelles. Distanza
geografica, incomprensioni linguistiche e scarsa familiarità
con le regole rendono ancora le istituzioni europee
lontane dal cittadino.
Paura di veder diminuiti i propri diritti, difficoltà
burocratiche e linguistiche. Sembrano quasi giustificati
i timori emersi dai referendum francese e olandese.
C’è in realtà un aspetto specifico
sottolineato da Bauböck, ossia il fatto che la
cittadinanza europea resta una cittadinanza di secondo
livello. Diventiamo cittadini europei nel momento in
cui abbiamo già una cittadinanza di uno stato
membro della Ue. In queste condizioni, che cosa possiamo
aspettarci dalla cittadinanza europea? Fondamentalmente
possiamo aspirare ad una protezione di secondo livello
nel momento in cui i canali della cittadinanza nazionale
non si dimostrano efficaci. È quello che succede,
ad esempio, con la Corte europea di giustizia. Nel momento
in cui un cittadino è insoddisfatto della giustizia
nazionale, può appellarsi ad una giustizia sovranazionale,
e quindi avere una garanzia aggiuntiva. In questi casi,
le preoccupazioni di cui si è fatta portatrice
la maggioranza del popolo nei referendum francese e
olandese dovrebbero venire meno, perché bene
o male le istituzioni europee aggiungono un meccanismo
di protezione senza intaccare quelli già esistenti.
Tuttavia, Bauböck sottolinea una tensione,
se non una vera contraddizione, tra la libertà
di movimento e l’auto-determinazione nazionale
della cittadinanza, che genera una serie di paradossi
negativi, tra cui ad esempio il fatto che la mobilità
all’interno dell’Europa può diventare
un ostacolo all’accesso alla cittadinanza europea.
Tanto che Bauböck allude ad una possibile soluzione
radicale, ovvero quella di capovolgere il rapporto tra
cittadinanza sovranazionale e nazionale, cosicché
sia la prima a determinare la seconda. Che ne pensa?
Persone come Bauböck e come me avrebbero certamente
votato sì nei referendum sulla costituzione europea.
Non solo, desidereremmo essere prima cittadini europei
e dopo di uno stato membro. Il problema è che,
visti i risultati elettorali passati, siamo una minoranza.
E forse è opportuno non iniziare una battaglia
politica, per quanto giusta, se si è sicuri di
perderla. Occorre allora concentrarsi su obiettivi più
modesti ma che conducano alla stessa meta finale. Oggi
il problema è come persuadere i cittadini europei
del fatto che si troverebbero meglio in una situazione
in cui la cittadinanza non è più nazionale
ma viene attribuita a livello europeo. Viste le risorse
disponibili a livello europeo rispetto a quelle nazionali,
lo scetticismo istintivo dei cittadini europei è
fondato su solide ragioni. Il potere è ancora
esercitato a livello nazionale. Quindi, ripeto, è
comprensibile che un cittadino europeo tema di sedersi
tra due sedie, trovandosi magari con il sedere per terra.
Mentre sa che cosa gli garantisce la cittadinanza nazionale,
sia nel bene che nel male, per abbracciare quella europea
dovrebbe saltare nel buio.
Come è possibile tuttavia che, come
scrive sempre Bauböck, in Europa
le tendenze divergenti alla liberalizzazione e alla
restrizione abbiano “poco a che fare con le dimensioni
e la composizione delle popolazioni immigrate e molto
di più con i sistemi politici di partito e con
l’impatto che l’agitazione anti-immigrazione
ha sulla politica”? Insomma, come è possibile
che a fare le leggi relative alla cittadinanza possano
essere partiti come la Lega, e non organismi sovranazionali?
Il fatto è che partiti come la Lega si fanno
portatori di un sentimento che è più diffuso
rispetto a quella misera percentuale di voti che riescono
a raccogliere nelle elezioni nazionali. In altre parole,
ci sono forze politiche minoritarie che cercano di fare
leva su elementi atavici e irrazionali, come la paura
del cosiddetto meticciato, per aumentare il loro consenso.
Ciò avviene in tutta Europa. Partiti xenofobi
sono sorti in Francia, Olanda, Norvegia, Inghilterra,
oltre che in Italia. Ma sono ottimista: i vari Le Pen,
Haider e Bossi hanno momenti di successo sostanzialmente
effimeri: nel lungo periodo non sono stati capaci di
proporre politiche convincenti e si sono sfaldati. Basta
portare pazienza e mantenere salda la cultura democratica.
Vorrei però chiarire che il problema della cittadinanza
europea non si pone solo per gli extracomunitari, ma
per tutti noi. Essere cittadini europei significa aumentare
le garanzie e la dignità di ognuno. Non nego,
tuttavia, che i crescenti flussi migratori di extracomunitari
pongano problemi aggiuntivi e che devono essere affrontati,
nell’interesse di tutti, rapidamente.
Una strategia potrebbe essere quella di stabilire canali
separati, nell’ambito dell’Unione europea,
per i cittadini che sono già membri di uno stato
e per i recenti immigrati. Penso che potrebbe essere
nell’interesse di tutti consentire agli immigrati
di accedere direttamente ad una cittadinanza europea
che preveda una lista minima di diritti e doveri. Dovrebbe
poi essere compito dell’Unione europea negoziare
con gli stati membri al fine di consentire, per quanto
possibile, l’equiparazione dei “cittadini
immigrati nell’Ue” agli altri cittadini.
Sarò più esplicito: dovremmo pensare addirittura
a un passaporto direttamente europeo da rilasciare agli
immigrati che si trovano in Europa. Ciò consentirebbe
di garantire un ombrello generale e poi di dare a ciascun
paese della Comunità europea la possibilità
di decidere à la carte quali sono i
diritti riconosciuti agli immigrati nel proprio territorio.
Nel tempo, si dovrebbe giungere ad una certa armonizzazione,
e in questo l’Unione europea ha dimostrato di
avere pazienza e tenacia. Nel lungo periodo, mi sembra
difficile che paesi limitrofi come Belgio o Olanda possano
conservare legislazioni del tutto diverse per gli immigrati
quando questi hanno tutti in tasca lo stesso passaporto
europeo.
Secondo Bauböck la preoccupazione dei
governi delle “enclave etniche” o delle
“società parallele”, conduce a politiche
sulla naturalizzazione che “enfatizzano l’integrazione
come pre-condizione per l’accesso alla cittadinanza”.
In breve, la cittadinanza diventa un premio per coloro
che non rappresentano una minaccia per la società
perché hanno un reddito sufficiente, parlano
la lingua dominante, si identificano con la storia della
società che li ospita e sottoscrivono i suoi
valori pubblici. Ma è giusto negare la cittadinanza
a immigrati di lungo termine che non riescono a soddisfare
questi criteri?
Negli Stati Uniti chi richiede la cittadinanza americana
deve sapere quali sono i quarantadue presidenti degli
Stati Uniti, ma la stessa richiesta non viene fatta
nei confronti dei cittadini americani. Il sistema è
quindi contraddittorio, perché si richiede allo
straniero di sapere qualcosa che il natio non è
tenuto a sapere. Ma c’è un aspetto più
sottile di questi test di cittadinanza che merita di
essere sottolineato: essi si basano sul presupposto
che integrare gli alieni in una società di accoglienza
sia un problema esclusivamente degli alieni. La visione
cosmopolitica a cui faccio riferimento ritiene, al contrario,
che anche la società di accoglienza debba essere
capace di modificarsi grazie al contributo di quelli
che arrivano.
Prendiamo il caso degli Stati Uniti, che per più
di un secolo è stato il più grandioso
caso di melting pot: quel paese è diventato ricco
e potente integrando il senso dell’umorismo ebreo,
la cucina italiana, il rigore tedesco, la musica negra,
l’onestà scandinava. Nel passato, era la
società americana che faceva una sorta di test
di cittadinanza ogni volta che una persona sbarcava
al di là della Statua della Libertà, portando
con se una nuova esperienza da trasmettere.
Non nego che ci sia una differenza di fondo tra i paesi
del Nuovo Mondo, dove gli immigrati dovevano creare,
spesso ex-novo, una nuova società, e il Vecchio
Continente, dove abbiamo una storia che spesso ci attanaglia.
La storica differenza tra cittadinanza americana ed
europea la si può spiegare in un semplice slogan:
si diventa cittadini americani nel momento in cui si
è disposti a condividere un progetto per il futuro.
Al contrario, ancora oggi si è cittadini di uno
stato europeo se si hanno radici nel passato. Nella
mia famiglia conosciamo bene il caso: tra i miei cinque
figli, una di due anni è cittadina americana
perché è nata lì, mentre un altro
di vent’anni non si sa quando mai potrà
diventare cittadino italiano perché è
nato nel Bangladesh. L’ideale di cittadinanza
cosmopolitica ci consentirebbe di avere, almeno in famiglia,
la stessa cittadinanza: un progetto orientato al futuro,
riconoscendo diritti e doveri alla persona per plasmare
e costruire il mondo prossimo venturo.
C’è da chiedersi quanti sono i cittadini
disposti a percepirla così. Quanti americani
pensano che sia importante sapere qualcosa della cultura
messicana? Quanti tedeschi hanno cercato di imparare
il turco?
Il che rimanda al problema del ruolo degli
immigrati nella società europea.
È infatti sbagliato ritenere che in Europa l’immigrazione
sia solo ed esclusivamente nell’interesse delle
persone immigrate. Ci stiamo dimenticando che il declino
demografico europeo è tale che senza immigrazione
è a rischio la sopravvivenza di una società
europea. Se l’Europa avesse chiuso le frontiere,
la mia generazione sarebbe destinata a vivere in una
società di anziani comparabile a quella descritta
da Jonathan Swift nei Viaggi di Gulliver: un
gruppo di vecchissimi individui troppo scorbutici per
vivere insieme e che si trascinano uno lontano dall’altro
perché non si sopportano a vicenda. In pochi
anni non ci sarebbero più persone disponibili
per accudire alle nostre necessità, ai nostri
bisogni, né ci sarebbero lavoratori attivi che
permetterebbero di pagarci le nostre pensioni.
Parlare di immigrati come risorsa non è dunque
uno slogan caritatevole, ma una esplicita necessità
economica. Tenere gli immigrati a pulire i vetri ai
semafori non serve né a noi né a loro.
Abbiamo invece la necessità che questi immigrati
si integrino, accedano alle professioni, incluse le
posizioni di comando, paghino le tasse e mandino i figli
a scuola.
Ci sono però molte divergenze sulle
possibili politiche di integrazione. In un recente articolo
su Prospect, Fukuyama sottolinea la necessità
di riconoscere che il multiculturalismo è fallito,
e auspica sforzi più energici per integrare le
popolazioni non occidentali in una comune cultura liberale.
Secondo Fukuyama, “l’ascesa del relativismo
ha reso più ardua l’affermazione, da parte
dei cittadini della società postmoderna, di valori
positivi e, quindi, del tipo di credenze condivise richieste
agli emigranti quale condizione per ottenere la cittadinanza.
Insomma, la società postmoderna trova difficoltà
a convenire sull’essenza della felice convivenza
cui aspira”. È d’accordo con questa
riflessione?
Fukuyama ha sempre pronta in saccoccia una lista dei
precetti universali. Un po’ come Mosé,
con la differenza che Mosé ci ha presentato una
lista dei dieci comandamenti una volta sola, mentre
quelli di Fukuyama cambiano ogni biennio. A fronte di
tante certezze, credo sia un valore dubitare. La nostra
sfida è ricostruire una identità comune
basata sulla diversità, e in tal senso l’Europa
è il laboratorio più ricco e variegato
del mondo. Capisco che ogni società ha bisogno
di regole di convivenza civile. Noi europei non ci dobbiamo
vergognare di avere dei valori e di esserci affezionati,
soprattutto quando questi valori sono quelli della tolleranza,
della mitezza, della integrazione.
Le istituzioni europee sono un esempio da lodare: riunioni
che durano intere nottate per mettere d’accordo
tutti su un punto e una virgola. Ma, allo stesso tempo,
l’Unione europea fa valere le sue ragioni con
la persuasione, il dialogo, gli incentivi economici,
piuttosto che con le minacce militari.
Basti pensare che la Romania, l’ultimo arrivato,
ha un numero di deputati al Parlamento europeo superiore
a quello di un paese fondatore quale il Belgio. Ciò
conferma quanto sia saldo nelle istituzioni comunitarie
il principio di uguaglianza tra i membri. Ma, allo stesso
tempo, ci sono trenta milioni di extracomunitari che
vivono, lavorano e pagano le tasse e non hanno neppure
uno sgabello al Parlamento europeo. È una situazione
schizofrenica alla quale prima o poi dovremo porre rimedio,
con doppi canali di rappresentanza, sia per gli stati
membri che per gli immigrati.
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