316 - 02.03.07


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Un passaporto per l’Europa

Daniele Archibugi con
Elisabetta Ambrosi


“Un passaporto europeo per gli extracomunitari che vivono nell’Unione”: così Daniele Archibugi, dirigente del Consiglio Nazionale delle Ricerche, Irpps (Istituto di Ricerche sulla Popolazione e le Politiche Sociali) e Professore di Innovation, Governance and Public Policy all’Università di Londra, Birkbeck College, sintetizza le sue riflessioni sulla cittadinanza e sui problemi dell’integrazione degli extracomunitari nell’Unione europea.

“In primo luogo, anche se è vero che noi desidereremmo essere prima cittadini europei e, dopo, di uno stato membro, è forse opportuno concentrarsi su obiettivi più modesti: oggi il problema è come persuadere i cittadini europei del fatto che si troverebbero meglio in una situazione in cui la cittadinanza non è più nazionale ma viene attribuita a livello europeo”. Quanto all’immigrazione, dice, “essa viene percepita, soprattutto in Europa, come un fenomeno nell’interesse delle persone che immigrano nell’Ue, dimenticando che il declino demografico nel vecchio continente è tale che essa diventa vitale per preservare l’esistenza di una società europea nel futuro”. Infine, in relazione all’incontro-scontro con valori diversi, Archibugi conclude: “è un problema che si può risolvere con una sintesi tra visioni diverse, convergendo sui valori liberali della tolleranza, della mitezza, del dialogo e dell’uguaglianza”.

Ha scritto Rainer Bauböck (nell’articolo pubblicato su questo numero, ndr) che la maggior parte dei cittadini in Europa non sembrano ansiosi di diventare cittadini dell’Europa e, anzi, “guardano con sospetto a qualsiasi richiesta di spostare la loro lealtà politica e le loro identità dal livello nazionale a quello sovranazionale”.
Perché secondo lei ciò avviene?

I risultati dei referendum in Francia e in Olanda sono stati una dura lezione per quanti come me hanno sostenuto e sostengono una maggiore integrazione politica europea. Però non mi sembra che si possa automaticamente estrapolare la stessa conclusione per tutti i ventisette paesi dell’Unione. Nei paesi che con l’ingresso in Europa hanno avuto grossi benefici in termini di stabilità politica– mi riferisco in particolare all’Italia, alla Spagna, al Portogallo, alla Grecia – non è assolutamente detto che i risultati sarebbero analoghi. Ma nei paesi in cui lo stato è riuscito a dare un’ampia protezione ai cittadini – come la Francia, l’Olanda, la Gran Bretagna e i paesi scandinavi – è comprensibile che i cittadini stessi temano che, mettendosi sotto un ombrello più ampio, le loro protezioni vengano diminuite. È molto probabile che si andrà verso una situazione di differenze tra i paesi che sono più deboli nel garantire diritti di cittadinanza – e che quindi guardano con interesse ai diritti che possono venire da un’istituzione sovranazionale come l’Unione europea – e paesi in cui i diritti di cittadinanza sono più forti, nei quali è invece elevato il timore di perdere controllo affidandosi troppo a Bruxelles.

Non bisogna dimenticare infine che la possibilità di esercitare un controllo nei confronti delle istituzioni comunitarie è sempre più difficile rispetto alle istituzioni nazionali. Un cittadino francese sa come protestare o rivendicare diritti nei confronti del suo governo, ma gli risulta molto più difficile mettersi nelle mani della burocrazia di Bruxelles. Distanza geografica, incomprensioni linguistiche e scarsa familiarità con le regole rendono ancora le istituzioni europee lontane dal cittadino.

Paura di veder diminuiti i propri diritti, difficoltà burocratiche e linguistiche. Sembrano quasi giustificati i timori emersi dai referendum francese e olandese.

C’è in realtà un aspetto specifico sottolineato da Bauböck, ossia il fatto che la cittadinanza europea resta una cittadinanza di secondo livello. Diventiamo cittadini europei nel momento in cui abbiamo già una cittadinanza di uno stato membro della Ue. In queste condizioni, che cosa possiamo aspettarci dalla cittadinanza europea? Fondamentalmente possiamo aspirare ad una protezione di secondo livello nel momento in cui i canali della cittadinanza nazionale non si dimostrano efficaci. È quello che succede, ad esempio, con la Corte europea di giustizia. Nel momento in cui un cittadino è insoddisfatto della giustizia nazionale, può appellarsi ad una giustizia sovranazionale, e quindi avere una garanzia aggiuntiva. In questi casi, le preoccupazioni di cui si è fatta portatrice la maggioranza del popolo nei referendum francese e olandese dovrebbero venire meno, perché bene o male le istituzioni europee aggiungono un meccanismo di protezione senza intaccare quelli già esistenti.

Tuttavia, Bauböck sottolinea una tensione, se non una vera contraddizione, tra la libertà di movimento e l’auto-determinazione nazionale della cittadinanza, che genera una serie di paradossi negativi, tra cui ad esempio il fatto che la mobilità all’interno dell’Europa può diventare un ostacolo all’accesso alla cittadinanza europea. Tanto che Bauböck allude ad una possibile soluzione radicale, ovvero quella di capovolgere il rapporto tra cittadinanza sovranazionale e nazionale, cosicché sia la prima a determinare la seconda. Che ne pensa?

Persone come Bauböck e come me avrebbero certamente votato sì nei referendum sulla costituzione europea. Non solo, desidereremmo essere prima cittadini europei e dopo di uno stato membro. Il problema è che, visti i risultati elettorali passati, siamo una minoranza. E forse è opportuno non iniziare una battaglia politica, per quanto giusta, se si è sicuri di perderla. Occorre allora concentrarsi su obiettivi più modesti ma che conducano alla stessa meta finale. Oggi il problema è come persuadere i cittadini europei del fatto che si troverebbero meglio in una situazione in cui la cittadinanza non è più nazionale ma viene attribuita a livello europeo. Viste le risorse disponibili a livello europeo rispetto a quelle nazionali, lo scetticismo istintivo dei cittadini europei è fondato su solide ragioni. Il potere è ancora esercitato a livello nazionale. Quindi, ripeto, è comprensibile che un cittadino europeo tema di sedersi tra due sedie, trovandosi magari con il sedere per terra. Mentre sa che cosa gli garantisce la cittadinanza nazionale, sia nel bene che nel male, per abbracciare quella europea dovrebbe saltare nel buio.

Come è possibile tuttavia che, come scrive sempre Bauböck, in Europa
le tendenze divergenti alla liberalizzazione e alla restrizione abbiano “poco a che fare con le dimensioni e la composizione delle popolazioni immigrate e molto di più con i sistemi politici di partito e con l’impatto che l’agitazione anti-immigrazione ha sulla politica”? Insomma, come è possibile che a fare le leggi relative alla cittadinanza possano essere partiti come la Lega, e non organismi sovranazionali?

Il fatto è che partiti come la Lega si fanno portatori di un sentimento che è più diffuso rispetto a quella misera percentuale di voti che riescono a raccogliere nelle elezioni nazionali. In altre parole, ci sono forze politiche minoritarie che cercano di fare leva su elementi atavici e irrazionali, come la paura del cosiddetto meticciato, per aumentare il loro consenso. Ciò avviene in tutta Europa. Partiti xenofobi sono sorti in Francia, Olanda, Norvegia, Inghilterra, oltre che in Italia. Ma sono ottimista: i vari Le Pen, Haider e Bossi hanno momenti di successo sostanzialmente effimeri: nel lungo periodo non sono stati capaci di proporre politiche convincenti e si sono sfaldati. Basta portare pazienza e mantenere salda la cultura democratica.

Vorrei però chiarire che il problema della cittadinanza europea non si pone solo per gli extracomunitari, ma per tutti noi. Essere cittadini europei significa aumentare le garanzie e la dignità di ognuno. Non nego, tuttavia, che i crescenti flussi migratori di extracomunitari pongano problemi aggiuntivi e che devono essere affrontati, nell’interesse di tutti, rapidamente.

Una strategia potrebbe essere quella di stabilire canali separati, nell’ambito dell’Unione europea, per i cittadini che sono già membri di uno stato e per i recenti immigrati. Penso che potrebbe essere nell’interesse di tutti consentire agli immigrati di accedere direttamente ad una cittadinanza europea che preveda una lista minima di diritti e doveri. Dovrebbe poi essere compito dell’Unione europea negoziare con gli stati membri al fine di consentire, per quanto possibile, l’equiparazione dei “cittadini immigrati nell’Ue” agli altri cittadini. Sarò più esplicito: dovremmo pensare addirittura a un passaporto direttamente europeo da rilasciare agli immigrati che si trovano in Europa. Ciò consentirebbe di garantire un ombrello generale e poi di dare a ciascun paese della Comunità europea la possibilità di decidere à la carte quali sono i diritti riconosciuti agli immigrati nel proprio territorio.

Nel tempo, si dovrebbe giungere ad una certa armonizzazione, e in questo l’Unione europea ha dimostrato di avere pazienza e tenacia. Nel lungo periodo, mi sembra difficile che paesi limitrofi come Belgio o Olanda possano conservare legislazioni del tutto diverse per gli immigrati quando questi hanno tutti in tasca lo stesso passaporto europeo.

Secondo Bauböck la preoccupazione dei governi delle “enclave etniche” o delle “società parallele”, conduce a politiche sulla naturalizzazione che “enfatizzano l’integrazione come pre-condizione per l’accesso alla cittadinanza”. In breve, la cittadinanza diventa un premio per coloro che non rappresentano una minaccia per la società perché hanno un reddito sufficiente, parlano la lingua dominante, si identificano con la storia della società che li ospita e sottoscrivono i suoi valori pubblici. Ma è giusto negare la cittadinanza a immigrati di lungo termine che non riescono a soddisfare questi criteri?

Negli Stati Uniti chi richiede la cittadinanza americana deve sapere quali sono i quarantadue presidenti degli Stati Uniti, ma la stessa richiesta non viene fatta nei confronti dei cittadini americani. Il sistema è quindi contraddittorio, perché si richiede allo straniero di sapere qualcosa che il natio non è tenuto a sapere. Ma c’è un aspetto più sottile di questi test di cittadinanza che merita di essere sottolineato: essi si basano sul presupposto che integrare gli alieni in una società di accoglienza sia un problema esclusivamente degli alieni. La visione cosmopolitica a cui faccio riferimento ritiene, al contrario, che anche la società di accoglienza debba essere capace di modificarsi grazie al contributo di quelli che arrivano.
Prendiamo il caso degli Stati Uniti, che per più di un secolo è stato il più grandioso caso di melting pot: quel paese è diventato ricco e potente integrando il senso dell’umorismo ebreo, la cucina italiana, il rigore tedesco, la musica negra, l’onestà scandinava. Nel passato, era la società americana che faceva una sorta di test di cittadinanza ogni volta che una persona sbarcava al di là della Statua della Libertà, portando con se una nuova esperienza da trasmettere.

Non nego che ci sia una differenza di fondo tra i paesi del Nuovo Mondo, dove gli immigrati dovevano creare, spesso ex-novo, una nuova società, e il Vecchio Continente, dove abbiamo una storia che spesso ci attanaglia. La storica differenza tra cittadinanza americana ed europea la si può spiegare in un semplice slogan: si diventa cittadini americani nel momento in cui si è disposti a condividere un progetto per il futuro. Al contrario, ancora oggi si è cittadini di uno stato europeo se si hanno radici nel passato. Nella mia famiglia conosciamo bene il caso: tra i miei cinque figli, una di due anni è cittadina americana perché è nata lì, mentre un altro di vent’anni non si sa quando mai potrà diventare cittadino italiano perché è nato nel Bangladesh. L’ideale di cittadinanza cosmopolitica ci consentirebbe di avere, almeno in famiglia, la stessa cittadinanza: un progetto orientato al futuro, riconoscendo diritti e doveri alla persona per plasmare e costruire il mondo prossimo venturo.
C’è da chiedersi quanti sono i cittadini disposti a percepirla così. Quanti americani pensano che sia importante sapere qualcosa della cultura messicana? Quanti tedeschi hanno cercato di imparare il turco?

Il che rimanda al problema del ruolo degli immigrati nella società europea.

È infatti sbagliato ritenere che in Europa l’immigrazione sia solo ed esclusivamente nell’interesse delle persone immigrate. Ci stiamo dimenticando che il declino demografico europeo è tale che senza immigrazione è a rischio la sopravvivenza di una società europea. Se l’Europa avesse chiuso le frontiere, la mia generazione sarebbe destinata a vivere in una società di anziani comparabile a quella descritta da Jonathan Swift nei Viaggi di Gulliver: un gruppo di vecchissimi individui troppo scorbutici per vivere insieme e che si trascinano uno lontano dall’altro perché non si sopportano a vicenda. In pochi anni non ci sarebbero più persone disponibili per accudire alle nostre necessità, ai nostri bisogni, né ci sarebbero lavoratori attivi che permetterebbero di pagarci le nostre pensioni.

Parlare di immigrati come risorsa non è dunque uno slogan caritatevole, ma una esplicita necessità economica. Tenere gli immigrati a pulire i vetri ai semafori non serve né a noi né a loro. Abbiamo invece la necessità che questi immigrati si integrino, accedano alle professioni, incluse le posizioni di comando, paghino le tasse e mandino i figli a scuola.

Ci sono però molte divergenze sulle possibili politiche di integrazione. In un recente articolo su Prospect, Fukuyama sottolinea la necessità di riconoscere che il multiculturalismo è fallito, e auspica sforzi più energici per integrare le popolazioni non occidentali in una comune cultura liberale. Secondo Fukuyama, “l’ascesa del relativismo ha reso più ardua l’affermazione, da parte dei cittadini della società postmoderna, di valori positivi e, quindi, del tipo di credenze condivise richieste agli emigranti quale condizione per ottenere la cittadinanza. Insomma, la società postmoderna trova difficoltà a convenire sull’essenza della felice convivenza cui aspira”. È d’accordo con questa riflessione?

Fukuyama ha sempre pronta in saccoccia una lista dei precetti universali. Un po’ come Mosé, con la differenza che Mosé ci ha presentato una lista dei dieci comandamenti una volta sola, mentre quelli di Fukuyama cambiano ogni biennio. A fronte di tante certezze, credo sia un valore dubitare. La nostra sfida è ricostruire una identità comune basata sulla diversità, e in tal senso l’Europa è il laboratorio più ricco e variegato del mondo. Capisco che ogni società ha bisogno di regole di convivenza civile. Noi europei non ci dobbiamo vergognare di avere dei valori e di esserci affezionati, soprattutto quando questi valori sono quelli della tolleranza, della mitezza, della integrazione.

Le istituzioni europee sono un esempio da lodare: riunioni che durano intere nottate per mettere d’accordo tutti su un punto e una virgola. Ma, allo stesso tempo, l’Unione europea fa valere le sue ragioni con la persuasione, il dialogo, gli incentivi economici, piuttosto che con le minacce militari.
Basti pensare che la Romania, l’ultimo arrivato, ha un numero di deputati al Parlamento europeo superiore a quello di un paese fondatore quale il Belgio. Ciò conferma quanto sia saldo nelle istituzioni comunitarie il principio di uguaglianza tra i membri. Ma, allo stesso tempo, ci sono trenta milioni di extracomunitari che vivono, lavorano e pagano le tasse e non hanno neppure uno sgabello al Parlamento europeo. È una situazione schizofrenica alla quale prima o poi dovremo porre rimedio, con doppi canali di rappresentanza, sia per gli stati membri che per gli immigrati.

 


 

 

 

 

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