Solo
per l’umanità redenta il passato
è citabile in ognuno dei suoi momenti.
W. Benjamin, “Tesi di filosofia della storia”
Proviamo ad immaginare di non avere più nessuno
dei nostri cari. Che da un giorno all’altro sparisca
nel nulla l’intera popolazione della nostra città,
che nove decimi della popolazione del nostro paese venga
violentemente annientata. Proviamo ad immaginare di
perdere, da un momento all’altro, i nostri parenti
più stretti, i fratelli e le sorelle, i genitori,
i nonni e gli zii; di perdere tutti insieme gli amici
vicini e lontani, di non avere con chi dividere il dolore,
lontani dalla casa, espulsi dal lavoro, braccati e soli
con un’angoscia senza nome e che alla fine non
ci siano nemmeno i cimiteri dove poter piangere i nostri
cari.
Proviamo a pensare questo ed altro, potremmo forse in
parte comprendere cosa è stato il genocidio nazista
per chi l’ha subito, quale ferita abbia rappresentato
nella coscienza dei sopravvissuti, quale dramma interno
esso abbia costituito per chi, salvatosi, porta il fardello
per chi non c’è più, consumato dagli
incubi e da un senso di colpa lacerante per quanto infinitamente
irrazionale. Immaginiamo che per il prolungamento della
nostra sopravvivenza, di qualche giorno o mese, qualcun
altro sia morto prima, che per una selezione qualcun
altro è perito nelle camere predisposte alla
distruzione finale, che per ogni lavoro utile al nemico,
come chimico o scienziato, un altro uomo senza volto
sia stato anticipatamente inserito nel numero previsto
dei morti e degli uccisi ogni giorno di ogni mese.
Proviamo ad immaginare e forse potremmo capire cosa
è stato veramente il ritorno alla vita di chi
ha fatto l’esperienza della deportazione e dei
campi. Forse allora percepiremmo nella sua intensità
la violenza di chi oggi vorrebbe colpevolizzare le vittime
per un passato che non passa, perché
si rifiutano di dimenticare, perché vogliono
coltivare il ricordo di quel che è stato. Non
ci chiederemmo più come mai i diretti interessati
di questa immane tragedia, non dimenticano. Ci chiederemmo
al contrario come essi abbiano potuto continuare a vivere
conservando la fiducia nei vicini, condividere le speranze
di un futuro migliore con chi ha finto di non vedere,
o non ha voluto guardare. Come abbiano potuto riacquistare
la fiducia nel genere umano e come abbiano conservato
la fede, per quanto essa non possa più essere
la stessa se non al prezzo di un diniego profondo, di
un isolamento emotivo e intellettuale, di una censura
che fa violenza all’intelletto e alla fede in
un Dio giusto e buono.
Detto in termini religiosi, il vero grande miracolo
nella recente storia ebraica, è aver continuato
a credere in Dio, nonostante Auschwitz, o paradossalmente
a causa di Auschwitz.
Mi sono lungamente chiesto nel corso degli anni come
abbia fatto l’ebraismo a sopravvivere all’immane
catastrofe dello sterminio nazista. Da quali fonti emotive
abbia attinto la linfa per tornare a vivere, che cosa
abbia impedito nei figli dei sopravvissuti lo svuotamento
di ogni desiderio di vita e di gioia. Le domande non
sono prive di significato sul piano psicologico ed hanno
implicazioni più ampie nella riflessione sui
processi di elaborazione collettiva del lutto. Altre
popolazioni in contesti diversi hanno perso ogni voglia
di vivere, la loro cultura si è disgregata, sottoposta
ad un attacco concentrico dall’esterno e dall’interno.
Le risposte sono principalmente tre e vi tornerò
più avanti: il fatto ovviamente che a vincere
la guerra sia stata la coalizione antifascista; il culto
della memoria, e la nascita dello Stato ebraico. Senza
Israele e ciò che ha significato la sua nascita
per centinaia di migliaia di sopravvissuti e di nuovi
esuli dal mondo arabo, il mondo ebraico avrebbe rischiato
un lutto senza fine, e la dissoluzione dei residui di
vitalità da cui miracolosamente ha preso avvio
la rinascita nel dopoguerra.
Siamo abituati a pensare alla morte come ad un atto
conclusivo che interrompe l’esistenza. La morte,
a livello biologico e psichico, è un processo
che comincia molto prima. Quando la vita perde significato,
è il sistema immunitario a risentirne.
La ripetitività dei massacri in America Latina,
la mancanza di considerazione con cui i regimi dittatoriali
hanno costantemente violato la vita dei loro cittadini,
affonda i suoi germi in una storia più antica
che non è mai stata realmente elaborata. La tragedia
dei desaparecidos argentini è solo un
esempio di un meccanismo che a livelli diversi non ha
cessato di insidiare le culture di un continente che
non ha mai fatto interamente i conti con il suo peccato
di origine, la distruzione violenta delle civiltà
che c’erano prima, la mancata elaborazione di
un intero ciclo storico che va dalla Reconquista
in Spagna all’espansione coloniale nelle Americhe.
La violenza ha finito per colpire non solo chi c’era
prima ma anche chi è arrivato dopo. Il lutto
di chi partiva fuggendo dal proprio paese di origine
alla ricerca di una nuova vita, non si è mai
realmente incontrato con quello di chi era stato cacciato
dai suoi luoghi di origine. In un ripetersi ciclico
di violenze e distruzioni, una dinamica relazionale
di tipo schizoparanoide non ha mai cessato di insidiare
la vita pubblica del continente.
L’esperienza del sopravvissuto
L’esperienza del sopravvissuto consta di due
momenti distinti e correlati: il trauma iniziale con
i suoi effetti disgreganti e devastanti sulla personalità
e le conseguenze, che possono durare un’intera
esistenza e richiedono un investimento unico di risorse,
se non si vuole soccombere. L’essere sopravvissuti
comporta una vaga ma molto particolare responsabilità,
dovuta al fatto che quello che sarebbe dovuto essere
un nostro diritto di nascita – il diritto di vivere
la nostra vita in relativa tranquillità e sicurezza
invece di essere arbitrariamente assassinati dallo Stato,
il cui compito sarebbe quello di proteggerla –
in realtà è vissuto come un colpo di immeritata
e inspiegabile fortuna. È un miracolo che io
mi sia salvato quando invece milioni di persona esattamente
simili a me sono perite; perciò, se è
accaduto, deve essere per un qualche imperscrutabile
fine.
C’è una voce, quella della ragione, che
alla domanda “Perché proprio io?”,
cerca di rispondere “È stato per pura e
semplice fortuna, un caso; non esiste altra spiegazione”;
ma la voce della coscienza ribatte: “È
vero, ma se tu sei potuto sopravvivere è stato
perché qualche altro prigioniero è morto
al tuo posto”. E sotto a questa voce ne sentiamo
un’altra che in un bisbiglio ci muove un’imputazione
ancora più grave: “Alcuni sono morti perché
tu gli hai soffiato quella mansione meno faticosa; altri
perché non gli hai dato quel boccone di pane
di cui tu, forse, avresti potuto fare a meno”.
E rimane sempre l’accusa finale, alla quale non
si può trovare una giustificazione accettabile:
“Sei stato felice che fosse toccato a qualcun
altro e non a te”.
L’irrazionalità di questi sensi di colpa
e dell’impressione di essere in qualche modo moralmente
debitore non diminuisce il loro potere di dominare tutta
la vita; per molti versi è proprio la loro irrazionalità
che li rende tanto difficili da padroneggiare. I sentimenti
che poggiano su una base razionale possono essere affrontati
con misure razionali, ma i sentimenti irrazionali sono
il più delle volte inattaccabili dalla ragione,
e vanno affrontati a un livello emotivo più profondo.
Di fronte a situazioni estreme ci si può lasciare
distruggere dall’esperienza, la si può
rimuovere negando che possa avere un qualunque conseguenza
duratura. Ma si può anche lottare per tutta l’esistenza
per conservarne la consapevolezza e integrarla nella
memoria. La più distruttiva delle risposte è
la conclusione che la reintegrazione della personalità
sia impossibile, o inutile, o entrambe le cose. In questi
casi il sopravvissuto percepisce la propria vita come
frammentata. Una tale condizione di frammentazione e
di lutto è ben rappresentata nei romanzi di Isaac
Bashevis Singer, che non a caso ha continuato a scrivere
in jiddish, come se i veri destinatari dei romanzi,
i lettori assassinati a milioni, fossero ancora in vita.
Il mondo del sopravvissuto è andato in pezzi
ed egli non sa più come venirne a capo. La decisione
inconscia di non essere capace di ricostruirsi la vita
ha come sfondo la percezione che tutto quello che apparteneva
al mondo di ieri e che dava senso all’esistenza
sia andato per sempre perduto senza possibilità
di recupero; sia per sempre scomparso. Altri, la maggioranza,
per sopravvivere, ricorrono ai meccanismi della rimozione
e della negazione. Una volta usciti da un’esperienza
limite, tentano di tornare alla vita di un tempo, come
se nulla fosse accaduto. Siccome non era possibile dimenticare,
la cosa più simile alla negazione, è “di
non permettere a quell’esperienza di modificare
il loro modo di vivere o la loro personalità.
In verità poter tornare immutati alla vita dopo
la liberazione era il desiderio ardente di molti prigionieri;
credere a questa possibilità rendeva psicologicamente
più sopportabile la degradazione a cui si era
sottoposti”.
Il ricorso a questi meccanismi non è una prerogativa
esclusiva della Shoah. È una reazione
comune di fronte alle tragedie della vita e della storia:
ricordare i fatti in quanto fatti storici negandone
però o rimuovendone la portata psicologica, perché
riconoscerla esigerebbe una ristrutturazione della nostra
personalità e una modificazione della visione
del mondo. Sul versante delle civiltà che si
sono rese colpevoli della Shoah, si individua qui una
delle molle psicologiche di un certo revisionismo storico,
che non nega l’esistenza dei campi o l’entità
della tragedia, ma finge che tutto sia, o debba essere
come prima, colpevolizzando le vittime perché
non vogliono dimenticare.
I sopravvissuti che negano che l’esperienza “del
campo di concentramento abbia demolito la loro integrazione,
che rimuovono il senso di colpa e la sensazione di avere
uno speciale debito morale da estinguere, spesso se
la cavano abbastanza bene nella vita, almeno apparentemente.
Ma a livello emotivo sono come svuotati, perché
gran parte della loro energia vitale viene spesa per
mantenere funzionanti la negazione e la rimozione, e
perché non possono più avere fiducia che
la loro integrazione gli offra la sicurezza, qualora
venisse messa alla prova, giacché una volta è
venuta meno a questo compito”. La loro vita è
in realtà costruita su un castello di carte,
fondata su un’insicurezza di fondo, un’angoscia
esistenziale che consuma l’esistenza, dove basta
un po’ per riattivare il sentimento della precarietà.
Conservare le abitudini e i riti, continuare a vivere
come se tutto fosse normale, alzarsi la mattina, radersi
come ogni giorno e andare al lavoro anche se tutto è
ormai privo di senso, può talora essere l’estrema
risorsa contro la disperazione e la tentazione del suicidio.
La condizione preliminare per il conseguimento di una
nuova integrazione è data dal riconoscimento
della gravità del trauma subito e della sua natura.
Lutto individuale e lutto collettivo.
Nel dialogo tra le generazioni, il lutto è un
momento importante di riconciliazione e di ricostruzione.
Possiamo separarci non solo, come sostiene Freud, perché
lasciamo morire la persona amata per poter vivere noi.
Possiamo separarci, perché ad altri livelli ci
riconciliamo con la persona perduta, facendola rivivere
dentro, proiettandone il ricordo nella vita quotidiana
e nel futuro dei nostri figli. Recuperando il passato,
redimendo le ferite aperte, apriamo una porta sul futuro.
Di fronte alla perdita di una persona cara, viviamo,
agiamo e ci comportiamo in una prima fase come se fossimo
noi stessi appartenenti al mondo dei morti, siamo ripiegati
su noi stessi, abbiamo bisogno di stare soli o in compagnia
di persone, cui siamo legati da profondi affetti, i
famigliari e i parenti stretti. I rituali elaborati
da ogni cultura sono ricchi di indicazioni per segnalare
agli altri questo nostro stato, per chiedere e ricevere
aiuto. Tra gli ebrei è d’uso non radersi
la barba per un intero mese se la perdita coinvolge
i genitori, la moglie, i marito o i figli. Nello prima
settimana del lutto, si è esentatati anche dalla
preghiera quotidiana. L’unico obbligo è
leggere il Kaddish, la preghiera dei morti.
In una situazione normale la vita, dopo un certo periodo,
riprende il suo corso. La persona ritrova in sé
le energie per tornare a vivere. Appunto in una situazione
normale. Per normalità intendo la presenza protettiva
del gruppo famigliare, e della cerchia più ampia
degli amici, i parenti, i colleghi di lavoro.
Nel lutto individuale, quando la situazione lo permette,
facciamo rivivere al nostro interno le persone che non
ci sono più. L’elaborazione del lutto è
possibile non solo perché, ad un livello, l’Io
sceglie di vivere e lascia morire la persona amata,
ma perché ad altri livelli questa torna a vivere
dentro di noi. Questo è quanto accade generalmente
nel lutto normale. Quando non ce la facciamo, ci accusiamo
di colpe immaginarie o reali, secondo una logica tipica
del processo primario, amplificandole nella nostra onnipotenza;
diventiamo responsabili di tutto e dobbiamo perciò
espiare per tutto sino alla morte. È il caso
della melanconia. Oppure per difenderci da tale pericolo,
cerchiamo rifugio nel diniego più assoluto, vivendo
una vita non nostra, avvolgendo di normalità
quel che non è più, trasferendo sulle
generazioni che vengono dopo il peso dei conflitti irrisolti
e il fardello di colpa opprimente. La vita di chi viene
dopo diventa in questi dolorosi casi una continua interrogazione
alla Sfinge. I figli sono costretti a diventare adulti
prima del tempo, devono fare da genitori ai loro genitori
per non andare a pezzi loro stessi.
Nel lutto individuale la funzione di mediazione tra
le diverse istanze psichiche è svolta dall’Io.
È l’Io deve fare i conti con il fardello
di colpa inconscio, a mettere in atto i meccanismi di
difesa e di rielaborazione. Nei processi collettivi
l’azione dell’Io di intreccia con quella
più dei movimenti politici, culturali e sociali
e l’elaborazione individuale con quella collettiva.
Il discorso cambia quando il lutto colpisce in modo
estremo una collettività intera. Venendo meno
il sostegno diretto del gruppo di riferimento, l’elaborazione
del lutto richiede uno sforzo ulteriore, perché
ci si ritrova ancor più soli.
Il suicidio di molti testimoni della tragedia dello
sterminio, molti anni dopo che avevano ritrovato la
libertà, non è un fatto casuale. Per sopravvivere
bisognava dimenticare, non pensare a quel che era accaduto,
evitare di voltarsi per guardare il passato, conservare
l’apparente normalità dei gesti, continuare
a vivere come se tutto fosse come prima, anche se nulla
poteva essere più come prima.
Per i giovani è più facile, la vita è
proiettata sul futuro, il sentimento della perdita può
essere rimosso salvo riemergere molti anni dopo. Per
gli anziani è più difficile, soprattutto
se a essere interamente colpite le ragioni dell’esistenza
e la speranza di un diverso per i figli. Lasciarsi morire,
o peggio, suicidarsi è una tentazione molto forte,
può essere una forma estrema di manifestazione
del sentimento di umiliazione e di dignità offesa.
Il percorso del lutto individuale passa in questi casi
per quello collettivo, il primo rimanda al secondo in
un intreccio di domande irrisolte che assumono il carattere
di un’ossessione: “Perché a me e
non ad altri? Come impedire che tutto questo si ripeta?”
Di fronte a un lutto estremo che coinvolge la collettività
intera, anche la visione religiosa del mondo appare
profondamente intaccata: “Perché Dio ha
permesso questo? Dov’era Dio nel momento della
solitudine più estrema?”. Non a tutti è
dato poter rispondere che Dio era presente con le vittime
che soffrivano, nel muto urlo di chi moriva solo e abbandonato,
nel grido disperato “Io sono l’ultimo!”,
oggetto di meditazioni diverse e convergenti, da chi,
come Levi, Bettelheim, Amery e Celan, hanno affrontato
il problema da posizioni laiche, e da chi come Jonas,
Frankl, Wiesel, lo hanno fatto tornando a interrogare
i testi della tradizione.
Se nei processi di elaborazione normale del lutto riprendiamo
a vivere riconciliandoci con la persona perduta. Nella
melanconia, come ha sottolineato Freud, il lutto diventa
senza fine e proietta le sue ombre sul futuro intero.
È questa la situazione che rischia di crearsi
quando il lutto investe un’intera collettività,
quando la distruzione violenta colpisce un intero gruppo.
Per uscire dal lutto bisogna dare un significato al
futuro. Ma come si può dare significato al futuro
se la possibilità di un futuro è stata
per sempre recisa?
Il diniego di fronte ad una grande catastrofe storica,
può scegliere due strade opposte: relativizzare
e minimizzare, amplificare altri eventi correlati al
fine di svuotare la portata dirompente della catastrofe
sul pensiero e sulla teoria, lasciando con ciò
che tutto resti come prima. Non potendo negare la realtà,
si opta per il diniego interpretativo. Procedendo per
questa strada si può anche arrivare a rendere
responsabili di una colpa coloro che vogliono ricordare,
rendendoli responsabili per il fatto che il passato
non passi, accusandoli di poggiare sul ricordo una presunta
rendita di posizione.
Per far fronte al crollo di un intero mondo dopo la
cacciata dalla Spagna, la Qabbalah sottopose
il testo biblico e la tradizione orale ad una forte
tensione, facendo sprigionare dalle Scritture
significati nuovi in grado di dare un senso alla tragedia
delle espulsioni. La lacerazione del corpo di Israele,
il suo dolore, la frammentazione e la dispersione fra
le genti erano il simbolo di un processo che si svolgeva
nel mondo del Pleroma. In questa possente concezione
la sofferenza di Israele, le sue aspirazioni e sogni
di redenzione erano parte di un processo che coinvolgeva
l’intero mondo animale e vegetale. Nella prospettiva
della Qabbalah, la sofferenza di Israele era
parte di una sofferenza cosmica che coinvolgeva la Shechinah,
il grembo divino, il suo essere madre di ogni creatura.
L’ebreo chiuso nel suo ghetto, e con lui ogni
altro essere, poteva assolvere alla funzione di liberare
le scintille divine rimaste intrappolate nel cosmo dopo
la rottura dei Vasi Divini.
Una teoria che non fa il lutto si satura diventando
inutilizzabile. Il lutto lo fanno le persone e la società,
ma sotto certi aspetti lo fanno anche le teorie.
Queste subiscono l’influenza dei processi di elaborazione
del lutto, di ritualizzazione e di rielaborazione della
memoria. La discussione sul passato è anche la
maschera con cui si guarda al presente e si progetta
il futuro. La memoria è un terreno di scontro
che non riguarda unicamente il passato, ma il futuro.
Lo scontro sulla memoria riguarda la capacità
di fare tesoro dell’esperienza del passato, l’idea
che abbiamo della società, il futuro che vogliamo
darci. Quest’ultimo è sempre un risultato
di come guardiamo al passato, proiettandolo nelle aspirazioni
e nei sogni.
Il rapporto dei singoli e dei gruppi con le rispettive
teorie e credenze obbedisce agli stessi meccanismi che
presiedono il rapporto fra le persone e le istituzioni.
Nel legame di tipo “conviviale” il gruppo
e le sue rappresentazioni possono essere apparentemente
accettate e riconosciute nella loro autorità,
lasciando il tutto inalterato. È come se fra
due persone l’incontro non fosse mai realmente
avvenuto. Ciascuno resta com’era prima dell’incontro.
Il singolo accetta le credenze del gruppo, e il gruppo
gli riconosce un ruolo, senza che in realtà avvenga
mai nulla che le vivifichi e produca un cambiamento
in entrambi le direzioni. Per dirla con Bion è
un tipo di rapporto che non produce odio, ma non produce
nemmeno amore, conoscenza e cambiamento. Nel rapporto
“parassitario” il gruppo e le sue rappresentazioni
sono svuotati di ogni valore anche quando sono apparentemente
assunti. A dominare sono l’odio e l’invidia.
In quello “simbiotico”, la credenza del
gruppo e le sue rappresentazioni sono prese sul serio,
sottoposte a processi verifica che producono nel rapporto
fra il singolo e il gruppo odio, amore e conoscenza.
La memoria come terreno di scontro
In uno dei romanzi più belli di Singer, Shosha,
l’amicizia di due bambini ebrei, assurge a metafora
di un lutto impossibile. Arele, futuro celebre scrittore,
e Shosha, una graziosa fanciulla affetta da ritardo
che ha conservato intatte negli anni le sembianze infantili,
si ritrovano dopo anni. L’amicizia dei due si
traduce in un amore tanto profondo quanto incredibile.
Shosha confessa al suo amato di essere ammalata
e di aver smesso di crescere. Arele la rassicura dicendole
che non l’abbandonerà mai e farà
in modo che vivrà per sempre. Shoshele
era un nome diffuso nella Shtetla, ma fa anche
rima con Shoah, ne contiene le lettere. Arele
è un diminutivo di Ariel, che in ebraico vuol
dire leone di Dio, simbolo della tribù di Giuda,
da cui secondo la promessa divina sarebbe dovuto nascere
il Messia.
L’accoppiamento tra Shoshele e Arele ha una valenza
simbolica, le loro sono nozze sacre, tra la speranza
messianica e il dolore senza nome, tra l’anì
maamin, il canto dei deportati, e la realtà
estrema della selezione. Shosha è l’immagine
dell’anima ebraica ferita, di un dolore che non
trova pace, di un lutto impossibile. Arele è
l’immagine del principio maschile che vuole riportare
in vita la sua amata.
In forme diverse il tema ricompare ovunque, nei sogni
dei pazienti, nei racconti e nelle poesie.
Il racconto dell’Esodo insegna a ricordare. Ricordare
e raccontare. Vi è narrata una storia di schiavitù
ma anche di liberazione. Il progetto omicida del Faraone
di uccidere tutti i bambini ebrei per cancellare per
sempre la stirpe di Abramo, si conclude per intervento
divino con la morte dei primogeniti egiziani. L’angoscia
degli ebrei sulle rive del mare, si tramuta in un canto
di liberazione, che si lascia alle spalle i fantasmi
del passato. Il Faraone e le sue armate periscono nei
flutti del mare che si rinchiude su di loro lasciando
passare i figli di Israele. Nella storia dello sterminio
nazista Dio è assente. Ad Auschwitz,
questo è l’eco del racconto orale e scritto,
Dio non c’era e il Messia non arrivò.
Hitler fu alla fine sconfitto e i nazisti morirono in
grande numero. Purtroppo riuscirono però a portare
in larga parte a termine il loro progetto più
folle contro gli ebrei d’Europa che furono sterminati
a milioni.
L’introduzione del racconto della rivolta dei
ghetti alla fine della lettura della Haggadah di
Pesach, non fa che rendere più esplicito
il paradosso della storia religiosa dell’ebraismo:
avere consegnato all’umanità l’idea
di un Dio giusto e buono, che agisce e ha compassione
per ogni sua creatura, che soffre col mondo, e doversi
invece confrontare con l’immagine opposta. Il
cristianesimo delle origini trovò talmente insopportabile
questa condizione da collocare nell’al di là
la vera vita. Anche se poi in realtà, furono
i popoli cristiani ad erigere chiese ed imperi, mentre
gli ebrei sognavano nei ghetti l’avvento di un’era
di pace per il genere umano in cui il lupo avrebbe pascolato
con l’agnello.
Non è qui in discussione la legittimità
di una scelta che ha anzi un grande valore pedagogico
ed etico, in quanto collega il dolore più recente
alle speranze di una storia millenaria. Nei kibbutzim
della sinistra israeliana, il racconto dell’Esodo
ha accolto anche la fatica e il dolore di chi ha bonificato
il deserto e le paludi per ridare vita alla speranza.
Gli alberi piantati a milioni in omaggio ai nuovi nati
e per ricordare i cari sono serviti anche a bonificare
l’anima.
La ritualizzazione degli eventi più gioiosi
e dolorosi è un’esigenza primaria di ogni
tradizione. Il problema nasce quando la frattura tra
il passato e il presente diventa radicale. Quando la
tradizione codificata diventa muta, o rischia di essere
tale. Nella storia ebraica questa frattura si è
verificata molte volte, conducendo ad una rilettura
profonda della tradizione religiosa e del ruolo di Dio
nella storia. L’ebraismo, come lo conosciamo prende
corpo dopo le distruzioni del primo Tempio.
La sfida era di rendere possibile un’esistenza
religiosa e nazionale anche in assenza di un territorio,
lontani dal Tempio e dai luoghi di culto di Gerusalemme.
È in risposta al pericolo di un’estinzione
e della necessità di una riorganizzazione che
viene fissato il canone. Il timore che la tradizione
andasse per sempre perduta, spinse gli esseni a nascondere
sotto le sabbie del deserto i loro scritti sacri. Le
autorità rabbiniche procedono alla stesura della
Mishna per evitare che la trasmissione possa
interrompersi; la Sinagoga prende definitivamente il
posto del Tempio. Colpito al cuore, l’ebraismo
procede oltre nella spiritualizzazione dei suoi valori.
A contare sono le preghiere del cuore, che prendono
il posto dei sacrifici. La storia si è ripetuta
in seguito con la stesura del Talmud e col Mishné
Torah di Maimonide. La storia si ripete con l’espulsione
dalla Spagna e la tragedia dell’inquisizione.
L’esperienza della Shoah ha portato
al suo estremo limite questo paradosso. Dopo la Shoah
nulla più poteva risultare uguale: l’arte
e la poesia, la filosofia e la teologia. Non solo per
l’entità della tragedia, ma per il modo
in cui si è realizzato lo sterminio, il luogo
in cui è avvenuto, nel cuore dell’Europa
e dei suoi simboli costitutivi, l’ideologia che
lo ha sostenuto. Il lutto ha investito i fondamenti
della civiltà e dei suoi simboli religiosi. Dopo
Auschwitz il mondo non è più lo stesso.
Il cambiamento ha investito la teologia e l’immagine
stessa del divino.
Si è trattato di una frattura nella coscienza
collettiva, che la consapevolezza crescente ha contribuito
a dilatare. Di un processo lento, per molti versi contraddittorio,
ma ineluttabile nel tempo e nello spazio. Si pensi all’opera
di Primo Levi. Quando lo scrittore torinese propose
la pubblicazione di quello che sarebbe divenuto in seguito
un classico sulla letteratura sui campi, non trovò
un editore disposto a farlo proprio. Il libro fu pubblicato
a proprie spese presso una piccola casa editrice. Dovettero
passare altri dieci anni prima che l’Editore Einaudi
riprendesse in considerazione il precedente rifiuto.
Ci si può chiedere oggi maliziosamente come mai
ciò possa essere accaduto, che dei lettori colti
e avveduti, antifascisti dichiarati, abbiano potuto
opporre il loro rifiuto alla pubblicazione di Se
questo è un uomo. Ma le ragioni contingenti,
le gelosie, le invidie personali, le piccolezze che
possono aver spinto ad esprimere un giudizio negativo
sul libro di Primo Levi, passano in secondo piano se
messi in relazione ad eventi più vasti che coinvolgono
la vita collettiva. Il ritardo con cui l’opera
di Primo Levi si è affermata sulla scena culturale
italiana, è stato parte di un processo di elaborazione
collettiva di un lutto che non ha coinvolto solo gli
ebrei, ma la cultura nel suo insieme. Ci sono voluti
altri anni perché venisse alla luce Il giardino
dei Finzi Contini, e con esso altri importanti
contributi di riflessione e di rivisitazione di una
pagina dolorosa della nostra storia più recente.
L’immensità della tragedia induce gli
spiriti religiosi più consapevoli al silenzio.
L’eclissi ha coinvolto il divino. È l’immagine
di Dio ad essere violata nei campi. E se c’è
stato un miracolo è di aver continuato
a credere nel bene. Nonostante tutto e perché
non vi era altra scelta. Il paradosso dell’etica
moderna sta tutto qui. Non è importante che Dio
esista, è importante vivere come se ci fosse.
Non è più Dio a dover salvare gli esseri
umani, come nelle vecchie teodicee trionfali, ma è
l’uomo a portare sulle sue spalle l’idea
di Dio, a doverne salvare l’esistenza per
salvare se stesso. A modo loro, i mistici della Kabbalah
lo avevano compreso quando avevano posto al centro
della loro preghiera la meditazione sul Nome, per unire
dal basso ciò che in alto era andato in frantumi.
“Se voi mi farete esistere”, recita un antico
Midrash, “io esisto”. Chi lo ha
formulato diceva molto più di quanto non potesse
egli stesso immaginare sui paradossi della visione ebraica
del mondo.
La generazione dei sopravvissuti si è nel frattempo
assottigliata. La Shoah dopo una lunga rimozione
che ha coinvolto lo stesso mondo ebraico, è assurta
a mito di fondazione di quel che l’Europa e il
mondo non avrebbe più voluto che si ripetesse.
La Shoah è assurta a simbolo del male assoluto
e a pietra di paragone di ogni evento.
Nella crisi che ha coinvolto le grandi narrazioni ideologiche
del Novecento, la memoria della Shoah ha finito per
riempire un vuoto identitario e di appartenenza. In
nome di una riparazione impossibile agli ebrei si è
affidato il ruolo di “officianti” di un
rito che la società fatica a fare proprio. In
quanto tali sono chiamati anche ad essere tutori di
quel rito, i guardiani di una nuova ortodossia in base
al quale stabilire che cosa debba rientrare nel rito.
Si è venuta a creare una situazione nuova e complessa
dalle molteplici sfaccettature, dove alla luce si mescola
l’ombra. Una situazione carica di ambiguità
irrisolte e di potenziali pericoli. Solo per citare
un recente sondaggio dell’Ispo, il 36% dei cittadini
europei (in Italia il 34%) sono dell’opinione
che gli ebrei dovrebbero smettere di fare le vittime
e di parlare della Shoah.
Ma se gli ebrei non partecipano al rito o non lo officiano
loro stessi, il rischio è che altri se ne approprino
col rischio di trasformarlo in un’arma puntata
contro di loro. Se invece assolvono al rito, in cambio
dei vantaggi parziali che derivano dal ruolo di “sacerdoti”
e “officianti”, il rito viene anno dopo
anno svuotato e finisce con l’appartenere solo
a loro. La società occidentale può liberarsi
da un’immagine opprimente prendendone le distanze
illudendosi di ritrovare così la pace perduta.
Nel lungo periodo, la gestione del rito rischia di
diventare un’arma rivolta contro gli ebrei stessi,
accusati per una presunta rendita di posizione da cui
altri popoli con le loro sofferenze sono esclusi. Quanto
più il rito è affidato agli ebrei, tanto
più la memoria della tragedia appartiene solo
a loro. Se essi rinunciano al rito, il rito può
essere assunto da altri e officiato anche contro di
loro rovesciando, in nome della Shoah, l’accusa
di perpetrare quelle stesse sofferenze che essi hanno
un tempo ingiustamente subito su altri popoli. “Come
è accaduto che un popolo che ha tanto sofferto,
ripeta coi palestinesi, ciò che ha subito ad
opera dei tedeschi?”. La domanda puntualmente
arriva dopo un dibattito, o la proiezione di un filmato
con il povero testimone nella scomoda posizione di doversi
giustificare. L’estetismo ipocrita può
giustificare per altri il male compiuto in nome dell’ingiustizia
e delle sofferenze subite, ma non per gli ebrei. Lo
si è visto ignobilmente con il terrorismo suicida
antisraeliano sino a quando ad essere colpite non erano
anche le città europee.
Con gli ebrei si procede in maniera opposta. Anche
l’esistenza di Israele, il suo atto di nascita,
può diventare una colpa originaria,
da cui non si sfugge se non cessando di esistere. Come
nell’insegnamento della Chiesa preconciliare,
si è giudicati per ciò che si è
e non per quello che si fa e quello che si
fa è irrimediabilmente ricondotto ad una presunta
essenza originaria.
L’andamento della crisi mediorientale fissa i
tempi, la virulenza e le forme di questa perversa logica.
Se la crisi del conflitto arabo israeliano si acuisce,
la domanda può assumere un carattere virulento,
al punto che le istituzioni ebraiche che predispongono
l’invio dei testimoni per lo svolgimento del rito,
hanno preso la sana abitudine di affiancare il “testimone
sacerdote” con un giovane preparato a rispondere
su questi temi. Il testimone tornato dall’inferno
può parlare solo ed esclusivamente dell’inferno.
L’esperto di politica può invece rispondere
sul resto, entrando con ciò nel merito delle
storture prodotte da una cattiva informazione e dalla
non conoscenza.
Il rito è salvo ma non per sempre. Il pericolo
è solo momentaneamente allontanato, con gli ebrei
nella scomoda posizione di doversi confrontare con un
duplice ricatto: l’obbligo di ricordare perché
gli altri dimenticano, e l’accusa di fissare gli
altri in una posizione di colpa perenne.
“Se non sono io per me, chi per me, se non ora
quando?”, insegnano i saggi del Talmud. Non si
può sperare che altri possano portare un peso
se non lo sentono interamente loro. Se non vi è
altra via, occorre almeno guardare ai rischi che nel
lungo periodo essa comporta.
Dopo Auschwitz l’antisemitismo può
esprimersi in modo apparentemente rispettabile solo
se prende di mira gli ebrei come Stato, demonizzando
Israele e deformando la tragedia di un conflitto che
ha ormai un secolo sino a renderlo irriconoscibile.
Il cerchio del nuovo antisemitismo si chiude con l’accusa
agli ebrei di voler fissare gli altri popoli in un sentimento
di colpa perenne per acquisire privilegi e coprire le
colpe di Israele.
La memoria personale coinvolge le emozioni e il pensiero.
È fatta di ricordi e di storie famigliari. Man
mano che l’evento si allontana e il rito si svuota,
come si è svuotato quello della Resistenza in
Italia, il rischio è che chiunque non si riconosca
nei valori della cultura occidentale, o sia in aperto
contrasto con essa possa identificare gli ebrei con
i mali di questa società. L’odio contro
Hollywood diventa fastidio per la memoria di Auschwitz.
L’odio contro l’Occidente e il potere americano
diventa tutt’uno con quello contro Israele, poco
importa se Israele è un paese piccolo e accerchiato,
da sempre esposto al pericolo di una distruzione. I
Rotoli del Mar Morto riportati in vita, sono oggi conservati
in un Museo. In caso di attacco nucleare tornerebbero
sotto il suolo di Gerusalemme per essere salvati e conservati
a futura testimonianza. Il messaggio degli israeliani
è chiaro. In caso di estinzione violenta, resterà
la memoria. Il che la dice lunga sui contenuti dei loro
incubi notturni.
Il sionismo aspirava a fare degli ebrei un popolo come
gli altri, a edificare uno stato ebraico come gli altri
stati. L’esito paradossale di questa impresa è
stato di avere uno Stato “diverso” dagli
altri. Lo Stato degli ebrei è diventato
l’ebreo degli Stati, e gli ebrei i suoi
ambasciatori in ogni luogo del mondo, non solo agli
occhi dei suoi nemici, degli antisemiti vecchi e nuovi,
ma anche degli amici più sinceri, che ne difendono
l’esistenza. Le tradizioni comunitarie un tempo
svalutate in nome dell’ebreo nuovo, si
sono riprese una rivincita e la possibilità di
vincere un’elezione si misura ormai con la capacità
di rispondere ai richiami e alle rivendicazioni dei
singoli gruppi comunitari (sefarditi e hashkenaziti,
ebrei di origine russa e di origine marocchina ecc).
La società israeliana somiglia ad un laboratorio
postmoderno che ha sperimentato con molto anticipo molti
dei problemi che assillano oggi l’Europa. A non
accorgersene sono gli europei che dopo avere lungamente
preteso di impartire lezioni agli israeliani sulla convivenza
tra popoli diversi, scoprono con angoscia di non essere
affatto avanti in fatto di tolleranza, e che molti dei
problemi che pensavano di essersi lasciati per sempre
alle spalle si sono violentemente riaffacciati, mostrando
quanto fragili siano le costruzioni umane.
Tra Occidente e Oriente
Israele appare ai suoi amici come ai suoi nemici, un
pezzo d’Europa trapiantato in Oriente.
La realtà è diversa, più complessa
di quanto non appaia ad una prima e semplicistica lettura.
Per quel che valgono delle metafore, utilizzate spesso
come schermo per occultare e confondere, geograficamente,
culturalmente e simbolicamente, Israele contiene l’Oriente
come l’Occidente. È Occidente
nella misura in cui i padri fondatori del sionismo si
ispiravano ad una visione dello Stato e della rinascita
nazionale che traeva linfa dalle ideologie dominanti
dell’Ottocento; portando con sé un pezzo
di Europa nel Vicino Oriente ne avevano accelerato
la presa di coscienza politica e nazionale. È
Oriente perché in quella “striscia di terra
madre”, delle grandi civiltà del Libro,
che separa l’Oriente dall’Occidente, la
civiltà ebraica ha preso corpo e si è
sviluppata per oltre un millennio a contatto con l’Oriente
profondo. Per non parlare delle tante diaspore che hanno
segnato la Diaspora con i suoi forzati spostamenti e
le sue invenzioni creative che ne hanno reso possibile
la sopravvivenza nei secoli.
Sotto questo aspetto Israele porta dentro di sé
i tanti orienti e i tanti occidenti con cui si è
incontrato nella sua dolorosa storia uscendone segnato
ma anche positivamente trasformato in uno scambio che
non è mai venuto meno anche nei momenti più
difficili. La condizione di minoranza oppressa o tollerata
sperimentata dagli ebrei sotto il cristianesimo e l’islam,
è stata anche l’arena in cui l’ebraismo
non ha smesso di interrogarsi e scambiare trasformando
la sua condizione di debolezza in una condizione di
forza per poter sopravvivere nelle condizioni più
impervie.
Il rapporto che l’ebraismo ha intrattenuto con
le civiltà cristiana e islamica nella storia,
non è stato solo l’espressione di una condizione
di subalternità, di rifiuto e di oppressione,
ma anche di arricchimento culturale, religioso e simbolico,
di uno scambio grazie al quale l’ebraismo è
riuscito a rinnovarsi e sopravvivere. La stagione d’oro
degli ebrei spagnoli fu anche il risultato di un creativo
incontro con la civiltà islamica, così
come la grande esplosione di creatività degli
ebrei che uscivano dai ghetti fu il risultato di un
creativo per quanto doloroso incontro con la cultura
circostante, di cui Auschwitz come anche lo scontro
attuale che oppone Israele al mondo arabo, non erano
necessariamente l’epilogo. La storia avrebbe potuto
prendere un’altra direzione. Non tutto era scritto,
né tutto è già scritto, almeno
per gli ebrei dovrebbe essere così. In ogni generazione
il racconto dell’Esodo dovrebbe essere
commentato come se la liberazione riguardasse quella
generazione. La scelta tra la morte e la vita riguarda
ogni momento. La disperazione della ragione non potrà
mai cancellare l’ottimismo della volontà.
La comparsa dell’angelo che annulla il comando
di sacrificare il figlio esisteva nella mente divina
prima che il mondo venisse alla luce e ne rende possibile
l’esistenza. Non tutto è necessariamente
scritto, anche nelle situazioni più tragiche
vi è una possibilità di scelta per quanto
condizionata e limitata dalle circostanze e dai processi
storici più ampi.
Il debito che l’Occidente ha verso Israele va
oltre le tragedie che hanno insanguinato il secolo che
si è appena chiuso. Difendendo l’esistenza
d’Israele, l’Europa difende in realtà
l’unica immagine credibile di un suo futuro possibile.
L’ambivalenza con cui l’Europa guarda a
Israele è il sintomo di un rapporto irrisolto
che l’Occidente intrattiene col suo passato più
antico e recente, la tentazione di alcuni settori del
mondo politico di farne a meno e di abbandonarlo al
suo proprio destino è un grave sintomo di fuga
dalle responsabilità della politica, segno di
una incomprensione profonda verso la posta che è
oggi in gioco nei rapporti fra civiltà e culture,
tra Stati e nazioni, tra democrazia e convivenza tra
i popoli, che può portare al collasso morale.
Il rifiuto di Israele, la sua trasformazione in Stato
paria giudicato in base a criteri che non si applicherebbero
a nessun altro Stato è il sintomo di un fallimento
dei rapporti fra l’Europa e il mondo arabo, l’Occidente
cristiano e l’Islam. Non è qui in discussione
il diritto-dovere alla critica di questo o quel governo,
perché la critica è il sale della democrazia.
Sono qui in discussione le forme che le critiche assumono,
le metafore a cui attingono, le immagini e gli stereotipi
di cui si alimentano. Per non parlare della falsificazione
e lo stravolgimento dei fatti. Come dimostrano gli inquietanti
sviluppi della politica nucleare iraniana, il diritto
di Israele ad esistere entro confini sicuri internazionalmente
riconosciuti, è la condizione stessa della possibilità
del dialogo fra l’Occidente e l’Islam. È
la condizione per una composizione storica, politica
e morale dei conflitti che insanguinano la regione.
Senza Israele questo dialogo non sarebbe nemmeno pensabile.
L’Europa e il mondo arabo, l’Occidente e
l’islam potranno tornare a parlarsi, se Israele
pacificato col mondo arabo è presente fra loro
come testimone dei loro e dei propri lutti. “Chi
vive in un’isola deve farsi amico il mare”,
così recita un antico proverbio arabo. Israele
è una piccola isola accerchiata da un oceano
arabo e islamico. Farsi amico quel mare, aprirsi un
varco nel cuore degli abitanti di quell’oceano,
è per Israele una necessità. Accettare
l’esistenza di quell’isola è per
l’islam la condizione per rompere la catena di
violenze e lutti in cui è tragicamente attraversato.
Questo testo è la relazione tenuta dall’autore
all’inaugurazione del “Master Internazionale
in didattica della Shoah” svoltasi giovedì
25 gennaio 2007 in Campidoglio a Roma.
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