Questo
articolo è stato pubblicato su l’Unità,
il 10 gennaio 2007 con il titolo “Il riformismo
alla prova dei Rossi”
Quali sono i motivi che hanno portato Nicola Rossi
alla restituzione della tessera dei Ds? Dalla lettura
del suo approfondito articolo sul Corriere e dalla conoscenza
del suo malessere che mi aveva personalmente manifestato
in una conversazione che, non nego, mi aveva fatto riflettere,
la sintetizzerei nei punti seguenti: 1. mancanza di
sufficiente volontà riformista della compagine
di governo; 2. mancanza di uso della forza contrattuale
di cui dispongono i Ds per imporre al governo un’agenda
più coraggiosa; 3. conseguente stasi e lentezza
del processo riformatore che dà l’impressione
al Paese che il governo e i Ds galleggino più
che innovino; 4. inadeguatezza delle persone che compongono
la leadership politica del centrosinistra ad essere
la nuova forza riformista che il Paese si attende; 5.
autoperpetuazione di questa leadership politica nel
futuro Partito Democratico; 6. mancanza di un centrodestra
come alternativa riformista.
L’analisi contiene molti elementi di verità,
di una amara e scottante verità. Questo non significa
che io mi trovi d’accordo con tutte le critiche
che sono state fatte dagli esponenti del “tavolo
dei volonterosi” alla Finanziaria: l’esempio
più significativo, in tal senso negativo, è
dato dall’ultimo articolo di Giavazzi sul Corriere
che sull’altare del “superpartismo”
sacrifica il rigore dell’analisi. Ma ciò
che più crea dubbi nel j’accuse di
Nicola Rossi è la proposta politica che rimane
un po’ tra le righe. Si potrebbe sostenere che
il fatto che la questione venga affrontata e dibattuta
è già di per sé un notevole risultato
politico. In tal caso bisogna dire che il risultato
è ampiamente raggiunto, perché la “questione
Rossi”, lungi dall’essere una cosa che “meno
non può interessare” come ha scritto Scalfari
domenica su Repubblica, ha invece colpito nel segno,
ha fatto emergere una questione politica reale, ma tenuta
sopita, e ha messo in evidenza quali importanti settori
della società manifestino un malessere che li
può far allontanare dall’appoggio fin qui
dato alla coalizione dell’Unione.
Ma la proposta politica potrebbe essere più
ambiziosa. Potrebbe consistere nel fare della “coalizione
dei volonterosi” la forza politica di centro che
si candida al governo. A questo punto la mia condivisione
verrebbe meno: accelerare le riforme va bene, ma non
al prezzo dell’abbandono del bipolarismo, al quale
il nostro paese è giunto dopo mezzo secolo di
governo del centro.
Si pone la questione dei terreni sui quali le soluzioni
politiche devono essere bipartisan e quelle sui quali
non devono, ma possono esserlo. E’ vero che l’onorevole
Tabacci, che siede sui banchi dell’opposizione,
su molte questioni di politica economica ha delle posizioni
più vicine a quelle dei ministri Bersani e Letta
di quanto non lo siano quelle di questi Ministri rispetto
a quelle dell’onorevole Diliberto, che fa parte
della loro stessa coalizione, ma questo non giustifica
la posizione di chi, come Nicola Rossi nell’articolo
sul Corriere, non distingue i terreni su cui si può
o si deve essere bipartisan. Peccherò forse di
schematismo, ma credo che si possa dire che il bipolarismo
non viene compromesso qualora si ricerchino a priori
soluzioni bipartisan in due casi: sulle questioni della
politica estera (come l’accordo sulle proposte
del ministro D’Alema sul Libano) e sulle questioni
istituzionali (come l’accordo sulla legge elettorale
sia per via parlamentare, come quello ricercato dal
ministro Chiti, sia per via di una Convenzione come
ha proposto il ministro Amato). Il bipolarismo viene
invece compromesso se emergono decisioni, che appaiono
bipartisan, ma che sono il frutto di convergenze di
spezzoni delle due coalizioni. Questo non significa
che non ci possono essere convergenza di voti, ma significa
che un governo deve avere una sua politica, frutto di
compromessi tra le forze che compongono la propria maggioranza,
alla quale eventualmente si vengono ad aggiungere voti
esterni alla maggioranza, ma non determinanti per il
varo del provvedimento.
È evidente il costo del mantenimento di questo
principio e cioè il ricatto che partiti minori
e ostili ad un progetto riformista possono esercitare
sulla maggioranza. Questo costo il governo, e soprattutto
l’attuale gruppo vertice dei Ds, lo sta pagando
pesantemente. Ma la soluzione non risiede nella formazione
politica di una terza forza a cavallo dei due poli,
ma lungo tre altre strade. La prima è quella
di uno stimolo e di un sostegno a chi si sta impegnando
per dare una accelerazione al processo riformista: non
vedo dietro a Fassino coorti di dirigenti e deputati
che apertamente e generosamente lo sostengono (in parte
la colpa è anche sua e delle scelte di selezione
del personale politico apicale di cui egli è
discretamente responsabile). La seconda consiste nell’impegnarsi
al rispetto di tutte le tappe che porteranno alla creazione
del Partito Democratico e al rafforzamento al suo interno
della voce degli elettori rispetto a quella degli iscritti
e della nomenclatura. La terza è quella di appoggiare
quella riforma elettorale che ripristini un sistema
maggioritario-uninominale in qualsiasi forma esso si
possa coerentemente presentare.
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