314 - 02.02.07


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La politica sacrificata
sull’altare del “superpartismo”?

Ferdinando Targetti


Questo articolo è stato pubblicato su l’Unità, il 10 gennaio 2007 con il titolo “Il riformismo alla prova dei Rossi”

Quali sono i motivi che hanno portato Nicola Rossi alla restituzione della tessera dei Ds? Dalla lettura del suo approfondito articolo sul Corriere e dalla conoscenza del suo malessere che mi aveva personalmente manifestato in una conversazione che, non nego, mi aveva fatto riflettere, la sintetizzerei nei punti seguenti: 1. mancanza di sufficiente volontà riformista della compagine di governo; 2. mancanza di uso della forza contrattuale di cui dispongono i Ds per imporre al governo un’agenda più coraggiosa; 3. conseguente stasi e lentezza del processo riformatore che dà l’impressione al Paese che il governo e i Ds galleggino più che innovino; 4. inadeguatezza delle persone che compongono la leadership politica del centrosinistra ad essere la nuova forza riformista che il Paese si attende; 5. autoperpetuazione di questa leadership politica nel futuro Partito Democratico; 6. mancanza di un centrodestra come alternativa riformista.

L’analisi contiene molti elementi di verità, di una amara e scottante verità. Questo non significa che io mi trovi d’accordo con tutte le critiche che sono state fatte dagli esponenti del “tavolo dei volonterosi” alla Finanziaria: l’esempio più significativo, in tal senso negativo, è dato dall’ultimo articolo di Giavazzi sul Corriere che sull’altare del “superpartismo” sacrifica il rigore dell’analisi. Ma ciò che più crea dubbi nel j’accuse di Nicola Rossi è la proposta politica che rimane un po’ tra le righe. Si potrebbe sostenere che il fatto che la questione venga affrontata e dibattuta è già di per sé un notevole risultato politico. In tal caso bisogna dire che il risultato è ampiamente raggiunto, perché la “questione Rossi”, lungi dall’essere una cosa che “meno non può interessare” come ha scritto Scalfari domenica su Repubblica, ha invece colpito nel segno, ha fatto emergere una questione politica reale, ma tenuta sopita, e ha messo in evidenza quali importanti settori della società manifestino un malessere che li può far allontanare dall’appoggio fin qui dato alla coalizione dell’Unione.

Ma la proposta politica potrebbe essere più ambiziosa. Potrebbe consistere nel fare della “coalizione dei volonterosi” la forza politica di centro che si candida al governo. A questo punto la mia condivisione verrebbe meno: accelerare le riforme va bene, ma non al prezzo dell’abbandono del bipolarismo, al quale il nostro paese è giunto dopo mezzo secolo di governo del centro.

Si pone la questione dei terreni sui quali le soluzioni politiche devono essere bipartisan e quelle sui quali non devono, ma possono esserlo. E’ vero che l’onorevole Tabacci, che siede sui banchi dell’opposizione, su molte questioni di politica economica ha delle posizioni più vicine a quelle dei ministri Bersani e Letta di quanto non lo siano quelle di questi Ministri rispetto a quelle dell’onorevole Diliberto, che fa parte della loro stessa coalizione, ma questo non giustifica la posizione di chi, come Nicola Rossi nell’articolo sul Corriere, non distingue i terreni su cui si può o si deve essere bipartisan. Peccherò forse di schematismo, ma credo che si possa dire che il bipolarismo non viene compromesso qualora si ricerchino a priori soluzioni bipartisan in due casi: sulle questioni della politica estera (come l’accordo sulle proposte del ministro D’Alema sul Libano) e sulle questioni istituzionali (come l’accordo sulla legge elettorale sia per via parlamentare, come quello ricercato dal ministro Chiti, sia per via di una Convenzione come ha proposto il ministro Amato). Il bipolarismo viene invece compromesso se emergono decisioni, che appaiono bipartisan, ma che sono il frutto di convergenze di spezzoni delle due coalizioni. Questo non significa che non ci possono essere convergenza di voti, ma significa che un governo deve avere una sua politica, frutto di compromessi tra le forze che compongono la propria maggioranza, alla quale eventualmente si vengono ad aggiungere voti esterni alla maggioranza, ma non determinanti per il varo del provvedimento.

È evidente il costo del mantenimento di questo principio e cioè il ricatto che partiti minori e ostili ad un progetto riformista possono esercitare sulla maggioranza. Questo costo il governo, e soprattutto l’attuale gruppo vertice dei Ds, lo sta pagando pesantemente. Ma la soluzione non risiede nella formazione politica di una terza forza a cavallo dei due poli, ma lungo tre altre strade. La prima è quella di uno stimolo e di un sostegno a chi si sta impegnando per dare una accelerazione al processo riformista: non vedo dietro a Fassino coorti di dirigenti e deputati che apertamente e generosamente lo sostengono (in parte la colpa è anche sua e delle scelte di selezione del personale politico apicale di cui egli è discretamente responsabile). La seconda consiste nell’impegnarsi al rispetto di tutte le tappe che porteranno alla creazione del Partito Democratico e al rafforzamento al suo interno della voce degli elettori rispetto a quella degli iscritti e della nomenclatura. La terza è quella di appoggiare quella riforma elettorale che ripristini un sistema maggioritario-uninominale in qualsiasi forma esso si possa coerentemente presentare.

 

 

 

 

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