“Una
parola malata”. Così Laura Pennacchi, membro
della direzione dei democratici di sinistra ed esperta
di welfare, definisce il termine “riformismo”.
“Ma lo sa che anche Bush l’ha usata per
definire la sua politica di tagli alle tasse a favore
dei ricchi? La verità è che si continua
inutilmente a parlare di forme e contenitori, mentre
bisognerebbe puntare tutto su una società più
giusta: solo questo progetto è degno di essere
chiamato riformista”.
Partiamo da Caserta. Secondo lei è vero
che l’incontro campano ha frenato il riformismo
del governo? Ed è vero, come ha affermato Nicola
Rossi che “non si sono create le basi per una
cultura riformista a sinistra”?
Quello che ho potuto constatare, osservando dall’esterno
la discussione che si è svolta a Caserta, è
che l’aver così tanto concentrato, negli
ultimi anni, la discussione sui contenitori delle forme
politiche, mettendo in secondo piano la questione dei
contenuti (e insistendo sulla dicotomia contenitori-contenuti),
ci ha portato a un disastro in termini di cultura riformista.
Su questo devo convenire con Nicola Rossi, anche se
probabilmente abbiamo due valutazioni diverse di cosa
sia una cultura riformista. A ogni modo, ripeto, il
fatto grave è che la discussione sui contenuti
è stata surrogata totalmente da una discussione
astratta e organizzativistica sul contenitore, da un
ragionamento burocratico sul “recinto”,
dalla distinzione astratta tra massimalisti e riformisti,
e ciò ha generato una totale incapacità
di produrre idee e riflessioni di merito. Il risultato
è che la domanda vera da porsi, cioè “Quale
riformismo?”, è rimasta inevasa, perché
manca totalmente un progetto. La verità è
che la parola “riforma” è divenuta
una parola malata: pensi che persino Bush l’ha
usata per descrivere le sue politiche di taglio delle
tasse (che sono andate tutte a vantaggio dei più
ricchi, come dimostrano le analisi dei democratici americani)!
Cosa intende allora lei per “riformismo”?
È una parola che indica unicamente, secondo
me, il tentativo di definire un modello alternativo
di società, un modello che sia più equo
e meno ingiusto. Il riformismo o è questo o non
è niente. Per questo credo che il punto di partenza
per il centrosinistra non può che essere il rifiuto
della visione del trade off che anima invece
la destra, un trade off per cui se vogliamo
più crescita ci deve essere meno protezione sociale,
se c’è più efficienza, c’è
meno equità, come se ci fosse una relazione di
incompatibilità tra crescita sociale e benessere
sociale.
E come risponde all’obiezione dei costi?
Guardiamo al sistema sociale europeo classico che è
riuscito a realizzare un modello che non dovrebbe essere
americanizzato, proprio perché la sua specificità
è stata quella trovare una sinergia tra sfera
economia e sfera sociale. Questo è il fulcro
che va riproposto, magari con adattamenti nuovi. Da
qui devono partire le riforme.
Bene. Cosa pensa allora della riforma delle
pensioni?
Sarebbe fondamentale prendere atto che la riforma delle
pensioni, la vera riforma, è già stata
fatta a metà degli anni Novanta: si tratta della
riforma 335 (legge Dini), che ha infatti cambiato radicalmente
i sistemi di calcolo e le modalità di strutturazione
del sistema pensionistico italiano. Basti dire che la
spesa pensionistica avrebbe raggiunto il 23 per cento
del Pil in assenza di interventi, mentre con riforme
varate, tra cui cruciale è stata appunto quella
del 1995, essa si è fermata intorno al 14 per
cento del Pil. Dunque, siccome la stabilizzazione è
stata realizzata, il che significa sostenibilità
finanziaria e maggiore efficienza del sistema, e siccome
sono stati introdotti potentissimi elementi di equità,
bisogna semplicemente realizzare i correttivi e gli
adattamenti che sono già previsti dal progetto
di riforma adottato allora; ma anche e soprattutto intervenire
su quelle figure su cui ci sono i problemi maggiormente
aperti, come giovani e donne. Quello che va escluso
è che la riforma delle pensioni si faccia solo
per bruciare incenso sull’altare della Confindustria,
che tra l’altro la chiede spesso senza sapere
di che cosa sta parlando, visto che le imprese sono
spesso le prime a obbligare i dipendenti ad andare in
pensione.
Giovani e donne, dunque. Ci spieghi meglio.
Faccio un esempio: la 335 prevedeva una possibilità
di aiuto per i lavoratori autonomi: perché non
si deve pensare allora ad un sostegno per i parasubordinati
e i collaboratori a progetto? L’alternanza tra
periodi di lavoro e non lavoro deve essere coperta dalla
contribuzione figurativa: si tratta di una cosa che
si può fare e non costerebbe nemmeno tantissimo,
così come si può fare tutta una serie
di altre cose; mentre sarebbe, secondo me, ad esempio
sbagliato abolire il differenziale di età pensionabile
tra uomini e donne, perché sappiamo che le donne
sono le prime ad essere penalizzate sul lavoro. Questa
penalizzazione delle donne è tra l’altro
una penalizzazione complessiva dell’economia italiana,
perché com’è noto la crescita del
Pil è data dalla somma di due fattori, tasso
di occupazione e tasso di produttività, così
che se l’occupazione rimane così bassa
– e in Italia è bassa perché è
bassa l’occupazione femminile, non quella maschile,
che ha un trend analogo a quella degli altri paesi europei
– di conseguenza il Pil resta basso. Anche per
intervenire sul potenziale di crescita bruta bisogna
quindi cercare a tutti i costi di dare lavoro a giovani
e donne, riconoscendo l’altissima qualificazione
che oggi hanno: pensi che i dati di occupazione femminile
e giovanile sono ancora più elevati quando le
scolarità sono più elevate: veramente
un circuito perverso!
In concreto, per fare degli esempi, cosa farebbe?
Un’indicazione generale che si dovrebbe per esempio
adottare è la seguente: meno trasferimenti monetari
e più servizi. Ma questo non avviene, basti pensare
che anche nella finanziaria di quest’anno non
si vedono tracce di un’attitudine riformatrice
che dia più servizi. L’economia italiana
ha una componente forte di merci e bassa di servizi,
e per servizi intendo qualcosa di molto ampio e cruciale,
dagli asili nido, alle telecomunicazioni, al terziario
delle imprese. Tutto questo avrebbe un effetto positivo
perché i servizi hanno un alto tasso di femminilizzazione
e quindi sarebbero in grado di creare occupazione per
le donne, che a loro volta, trovandosi in un mondo con
più servizi, potrebbero conciliare cura e lavoro
e quindi offrirsi di più sul mercato.
Il discorso ci porta verso il Partito Democratico.
Dopo la finanziaria, la riunione di Caserta, le riforme
annunciate e poi rinviate, i grandi dibattiti sulla
riforma elettorale, a che punto è il progetto
del Partito democratico?
Torno al punto da cui sono partita. Il progetto del
Partito democratico era un progetto bellissimo (io sono
stata a favore sin dal ‘95), era il progetto dell’Ulivo
allargato. Purtroppo devo constatare che l’aver
così tanto arzigogolato attorno al contenitore
e lasciato così tanto da parte i contenuti (riforme
e modelli alternativi di società), ha creato
la situazione attuale, in cui se il Partito Democratico
nasce, con tutte queste piccole oligarchie, nasce morto.
Posso aggiungere che il Partito Democratico nasce morto
anche perché i partiti politici attuali, complice
l’ultima legge elettorale, premiano solo il conformismo,
l’inerzia, il gregarismo e la mancanza di spirito
critico.
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