Riformare
le pensioni, senza scossoni e soprattutto senza penalizzare
ulteriormente i giovani. “Aprire” il nostro
sistema attraverso liberalizzazioni e riforme economiche
e nel contempo riformare lo stato sociale, per tutelare
chi da queste riforme esce indebolito: questo il programma
dell’economista Marcello Messori, professore a
Roma Tor Vergata e coordinatore dell’area di Scienze
sociali della Fondazione Di Vittorio. Che, commentando
l’incontro campano, dice: “Non basta fare
la ‘lista della spesa’, occorre anche decidere
cosa fare subito e come farlo”.
Prof. Messori, il riformismo della coalizione
a Caserta ha subito uno stop?
L’incontro di Caserta ha confermato una scarsa
capacità progettuale, che è la base necessaria
del riformismo, in tutte le componenti della coalizione
governativa e non solo nella “sinistra radicale”.
Quest’ultima ha un’agenda più circoscritta
e, quindi, palesa una minore sofferenza. Il fatto grave
è però la mancanza di progetti articolati,
in grado di misurarsi con i fatti, prima ancora che
la ben nota eterogeneità della coalizione governativa.
Certo il sommarsi della mancanza di progetti e della
eterogeneità ha impedito la definizione delle
priorità. Stabilire le priorità non significa
fare una lista, più o meno ordinata, delle cose
da fare. Si tratta invece di decidere quali cose vanno
fatte prima e di dotarsi degli strumenti concreti per
farle.
Quali sono a suo parere le riforme più
urgenti tra quelle proposte?
Il fatto che l’economia italiana abbia “agganciato”,
pur se con qualche ritardo, la promettente ripresa europea
è positivo e indica una capacità di reazione
delle nostre imprese; di per sé, esso non risolve
però il problema della perdita strutturale di
competitività che il nostro paese ha subito negli
ultimi dieci/quindici anni. Le riforme più urgenti
continuano, quindi, a essere quelle essenziali per il
consolidarsi e l’affermarsi dello sviluppo. Si
tratta, innanzitutto, di attuare riforme capaci di migliorare
l’ambiente economico e di eliminare le posizioni
di rendita monopolistica; il che richiede la liberalizzazione
e la ri-regolamentazione dei mercati di molti di quei
servizi (anche locali) che sono cruciali per la competitività
delle imprese e il benessere delle famiglie. Ma ovviamente
questo non basta.
Ci spieghi meglio.
Sono necessarie anche politiche economiche “orizzontali”,
in grado cioè di migliorare le infrastrutture
materiali e immateriali del paese, l’istruzione
e la formazione delle risorse umane, il grado di organizzazione
della società. Gli investimenti da fare sono,
al riguardo, ovvi. Ma c’è di più.
Si tratta di implementare una nuova politica industriale
e dei servizi, che sia di tipo “verticale”
ma che non ricalchi quelle del passato. Bisognerebbe
infatti eliminare qualsiasi politica di settore, dal
momento che vi possono essere innovazioni anche in comparti
tradizionali (per es. nel tessile), e sostenere invece
– con appropriati strumenti – il processo
di rafforzamento competitivo già in atto nella
parte più forte del nostro sistema industriale
e dei servizi. L’attuazione di una politica del
genere è estremamente difficile perché
richiede selettività ma non arbitrarietà.
Ma le riforme da lei suggerite non risolvono
i problemi di equità intergenerazionale e di
inadeguatezza del welfare.
Le iniziative, che ho cercato fin qui di tratteggiare,
avrebbero l’effetto di rompere la rigidità
e la chiusura del nostro sistema economico. “Aprire”
un sistema può però comportare elevati
costi sociali di breve termine, anche se giova al benessere
della collettività e riduce la polarizzazione
nella distribuzione del reddito e della ricchezza nel
medio-lungo. Una società più dinamica
richiede strumenti adeguati per proteggere le fasce
deboli del sistema. Si tratta dunque di introdurre:
ammortizzatori sociali (magari selettivi) per i lavoratori;
tutele maggiori per le fasce deboli della popolazione
(per esempio, gli anziani non autosufficienti); lavori
che, invece di puntare alla sola riduzione dei costi
di breve termine, sappiano utilizzare le innovazioni
e le capacità anche dei lavoratori “anziani”.
Parliamo di pensioni.
Riguardo alle pensioni pubbliche, penso che vi sia
la possibilità di rivedere la normativa sullo
“scalone” senza esasperare le contrapposizioni
all’interno del governo e fra governo e sindacati.
Al riguardo, è però necessario che tutti
concordino su due presupposti: per i “giovani”,
la cui futura pensione sarà – in tutto
o in larga parte – determinata secondo le regole
della “Dini”, è inevitabile adeguare
i coefficienti di trasformazione all’allungamento
della speranza di vita ma ha poco senso fissare per
legge una rigida età pensionabile; viceversa
per gli “anziani”, la cui prossima pensione
è – almeno in larga misura – determinata
in base al metodo della ripartizione retributiva, si
deve allungare l’età lavorativa in proporzione
all’aumento della speranza di vita. Ovviamente,
ciò si può fare senza “scaloni”
e con più modesti ma frequenti scalini; e si
deve fare escludendo i lavori usuranti da individuare
con rigore e accuratezza. Agire in modo diverso significherebbe
rigettare la riforma Dini e/o sperequare ancora di più
il trattamento pensionistico dei “giovani”
rispetto a quello dei “vecchi”.
Secondo lei, è corretto pensare a iniziative
“bipartisan” per attuare queste riforme
(penso al “tavolo dei volenterosi”, ad esempio)?
Ritengo che vi sia un unico tema che richiede un accordo
“bipartisan”: il tema delle regole che presiedono
all’operare del sistema istituzionale e del sistema
politico. Oggi ciò significa, innanzitutto, la
riforma elettorale. Per il resto, non penso che l’apertura
del sistema economico e sociale italiano possa avvenire
con atti volonterosi o con il superamento della logica
bipolare.
Un’ultima, necessaria, domanda sul Partito
Democratico. Dopo Caserta è più lontano?
Non sono in grado di rispondere a questa domanda perché
non mi è chiaro quale sia il progetto del Partito
Democratico nell’ambito di un sistema politico
ormai incapace di ordinare e soddisfare le istanze della
società. Se tutto si riduce a sommare gli apparati
dei due partiti maggiori del centro sinistra, la delusione
non è legata agli esiti di Caserta. Se invece
il Partito Democratico mira a ripristinare e rendere
più efficaci i rapporti tra società e
sistema politico correggendo l’attuale autoreferenzialità
dei partiti, allora l’obiettivo è condivisibile
ed è di portata tale da andare ben al di là
di Caserta. Certo, se la conflittualità fra Ds
e Margherita su temi circoscritti mette di continuo
in discussione l’ipotesi stessa di Partito Democratico,
il segno è che sta prevalendo l’alternativa
più deludente senza effetti positivi sul funzionamento
del sistema dei partiti.
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