314 - 02.02.07


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Primo: liberalizzare

Marcello Messori
con Elisabetta Ambrosi


Riformare le pensioni, senza scossoni e soprattutto senza penalizzare ulteriormente i giovani. “Aprire” il nostro sistema attraverso liberalizzazioni e riforme economiche e nel contempo riformare lo stato sociale, per tutelare chi da queste riforme esce indebolito: questo il programma dell’economista Marcello Messori, professore a Roma Tor Vergata e coordinatore dell’area di Scienze sociali della Fondazione Di Vittorio. Che, commentando l’incontro campano, dice: “Non basta fare la ‘lista della spesa’, occorre anche decidere cosa fare subito e come farlo”.

Prof. Messori, il riformismo della coalizione a Caserta ha subito uno stop?

L’incontro di Caserta ha confermato una scarsa capacità progettuale, che è la base necessaria del riformismo, in tutte le componenti della coalizione governativa e non solo nella “sinistra radicale”. Quest’ultima ha un’agenda più circoscritta e, quindi, palesa una minore sofferenza. Il fatto grave è però la mancanza di progetti articolati, in grado di misurarsi con i fatti, prima ancora che la ben nota eterogeneità della coalizione governativa. Certo il sommarsi della mancanza di progetti e della eterogeneità ha impedito la definizione delle priorità. Stabilire le priorità non significa fare una lista, più o meno ordinata, delle cose da fare. Si tratta invece di decidere quali cose vanno fatte prima e di dotarsi degli strumenti concreti per farle.

Quali sono a suo parere le riforme più urgenti tra quelle proposte?

Il fatto che l’economia italiana abbia “agganciato”, pur se con qualche ritardo, la promettente ripresa europea è positivo e indica una capacità di reazione delle nostre imprese; di per sé, esso non risolve però il problema della perdita strutturale di competitività che il nostro paese ha subito negli ultimi dieci/quindici anni. Le riforme più urgenti continuano, quindi, a essere quelle essenziali per il consolidarsi e l’affermarsi dello sviluppo. Si tratta, innanzitutto, di attuare riforme capaci di migliorare l’ambiente economico e di eliminare le posizioni di rendita monopolistica; il che richiede la liberalizzazione e la ri-regolamentazione dei mercati di molti di quei servizi (anche locali) che sono cruciali per la competitività delle imprese e il benessere delle famiglie. Ma ovviamente questo non basta.

Ci spieghi meglio.

Sono necessarie anche politiche economiche “orizzontali”, in grado cioè di migliorare le infrastrutture materiali e immateriali del paese, l’istruzione e la formazione delle risorse umane, il grado di organizzazione della società. Gli investimenti da fare sono, al riguardo, ovvi. Ma c’è di più. Si tratta di implementare una nuova politica industriale e dei servizi, che sia di tipo “verticale” ma che non ricalchi quelle del passato. Bisognerebbe infatti eliminare qualsiasi politica di settore, dal momento che vi possono essere innovazioni anche in comparti tradizionali (per es. nel tessile), e sostenere invece – con appropriati strumenti – il processo di rafforzamento competitivo già in atto nella parte più forte del nostro sistema industriale e dei servizi. L’attuazione di una politica del genere è estremamente difficile perché richiede selettività ma non arbitrarietà.

Ma le riforme da lei suggerite non risolvono i problemi di equità intergenerazionale e di inadeguatezza del welfare.

Le iniziative, che ho cercato fin qui di tratteggiare, avrebbero l’effetto di rompere la rigidità e la chiusura del nostro sistema economico. “Aprire” un sistema può però comportare elevati costi sociali di breve termine, anche se giova al benessere della collettività e riduce la polarizzazione nella distribuzione del reddito e della ricchezza nel medio-lungo. Una società più dinamica richiede strumenti adeguati per proteggere le fasce deboli del sistema. Si tratta dunque di introdurre: ammortizzatori sociali (magari selettivi) per i lavoratori; tutele maggiori per le fasce deboli della popolazione (per esempio, gli anziani non autosufficienti); lavori che, invece di puntare alla sola riduzione dei costi di breve termine, sappiano utilizzare le innovazioni e le capacità anche dei lavoratori “anziani”.

Parliamo di pensioni.

Riguardo alle pensioni pubbliche, penso che vi sia la possibilità di rivedere la normativa sullo “scalone” senza esasperare le contrapposizioni all’interno del governo e fra governo e sindacati. Al riguardo, è però necessario che tutti concordino su due presupposti: per i “giovani”, la cui futura pensione sarà – in tutto o in larga parte – determinata secondo le regole della “Dini”, è inevitabile adeguare i coefficienti di trasformazione all’allungamento della speranza di vita ma ha poco senso fissare per legge una rigida età pensionabile; viceversa per gli “anziani”, la cui prossima pensione è – almeno in larga misura – determinata in base al metodo della ripartizione retributiva, si deve allungare l’età lavorativa in proporzione all’aumento della speranza di vita. Ovviamente, ciò si può fare senza “scaloni” e con più modesti ma frequenti scalini; e si deve fare escludendo i lavori usuranti da individuare con rigore e accuratezza. Agire in modo diverso significherebbe rigettare la riforma Dini e/o sperequare ancora di più il trattamento pensionistico dei “giovani” rispetto a quello dei “vecchi”.

Secondo lei, è corretto pensare a iniziative “bipartisan” per attuare queste riforme (penso al “tavolo dei volenterosi”, ad esempio)?

Ritengo che vi sia un unico tema che richiede un accordo “bipartisan”: il tema delle regole che presiedono all’operare del sistema istituzionale e del sistema politico. Oggi ciò significa, innanzitutto, la riforma elettorale. Per il resto, non penso che l’apertura del sistema economico e sociale italiano possa avvenire con atti volonterosi o con il superamento della logica bipolare.

Un’ultima, necessaria, domanda sul Partito Democratico. Dopo Caserta è più lontano?

Non sono in grado di rispondere a questa domanda perché non mi è chiaro quale sia il progetto del Partito Democratico nell’ambito di un sistema politico ormai incapace di ordinare e soddisfare le istanze della società. Se tutto si riduce a sommare gli apparati dei due partiti maggiori del centro sinistra, la delusione non è legata agli esiti di Caserta. Se invece il Partito Democratico mira a ripristinare e rendere più efficaci i rapporti tra società e sistema politico correggendo l’attuale autoreferenzialità dei partiti, allora l’obiettivo è condivisibile ed è di portata tale da andare ben al di là di Caserta. Certo, se la conflittualità fra Ds e Margherita su temi circoscritti mette di continuo in discussione l’ipotesi stessa di Partito Democratico, il segno è che sta prevalendo l’alternativa più deludente senza effetti positivi sul funzionamento del sistema dei partiti.

 

 

 

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